La storia di San Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani e Maestro della gioventù
Giovanni Melchiorre Bosco (16 agosto 1815, Castelnuovo d’Asti – 31 gennaio 1888, Torino) è stato un Prete Cattolico italiano, Padre e Maestro dei giovani e fondatore delle congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Fu beatificato nel 1929 e canonizzato nel 1934. Più comunemente viene chiamato Don Bosco.
Introduzione
I genitori di Giovanni Bosco (Francesco Bosco e Margherita Occhiena) erano contadini Piemontesi. Il padre, Francesco, è morto quando Don Bosco aveva solo 2 anni, diventando mezzo orfano. Affermò che all’età di 9 anni aveva un sogno: quello di diventare prete, sogno tuttavia infranto in quanto la madre non aveva i soldi per poter finanziare gli studi adeguati. All’età di dodici anni inizia il suo apprendistato presso un sarto. Dal febbraio 1828 al novembre 1829 venne assunto come garzone di stalla in una fattoria di Moncucco per non essere di peso alla madre e per potersi pagare, in autonomia, le lezioni di catechismo. Il fratellastro maggiore, Antonio, ha cercato in tutti i modi di impedire queste lezioni in modo che il più giovane potesse continuare a lavorare a casa e nei campi. La madre pagò ad Antonio l’eredità, dopodiché lasciò la famiglia per sempre. Giovanni poté frequentare il liceo a Chieri dal 1831 al 1835. C’erano momenti in cui pensava di unirsi ai Francescani, ma un sogno ambizioso lo fermò.
Il percorso formativo
Giovanni Bosco, in seguito al suo sogno avuto a nove anni, decise di seguire la strada del sacerdozio. A Capriglio vi era una scuola elementare all’interno della parrocchia, in cui si recò il ragazzino per studiare, ma don Lacqua, il cappellano che gestiva le lezioni, non lo accolse fra i suoi alunni perché apparteneva a un altro comune. Il caso volle che, morta la serva del curato, questi assunse Marianna Occhiena, sorella di Margherita e dunque zia di Giovanni Bosco, che pregò don Lacqua affinché accogliesse il nipote a scuola. Questi accettò malvolentieri, ma finì comunque per affezionarsi al ragazzo, difendendolo dai compagni che lo maltrattavano perché di un altro paese.
Per avvicinare alla preghiera e all’ascolto della messa i ragazzini del paese, Giovanni Bosco decise di imparare i giochi di prestigio e le acrobazie dei saltimbanchi, attirando così i coetanei e i contadini del luogo grazie a salti e trucchetti di magia, invitandoli però prima a recitare il Rosario e ad ascoltare una lettura tratta dal Vangelo.
Nel febbraio del 1826 Giovanni Bosco perse anche la nonna paterna che viveva con lui. Poiché ella riusciva a tenere a freno i tre ragazzi della famiglia, Margherita, spaventata dal fatto che il figlio potesse perdere la via giusta, chiese al parroco, don Sismondo, di concedergli la Comunione, benché l’età media dei ragazzi per accedere al sacramento fosse di dodici anni, mentre Giovanni Bosco aveva soltanto undici anni. Don Sismondo accondiscese e così il 26 marzo 1826, il ragazzo fece la sua Prima Comunione.
L’inverno che seguì per lui fu il più duro: il fratellastro Antonio, che già guardava di cattivo occhio il fatto che Giovannino frequentasse la scuola e per di più passasse il tempo pregando e compiendo giochi di prestigio, si lamentò di lui e a stento il ragazzino riuscì a salvarsi dai suoi pugni. Margherita fu così costretta a mandare via il figlio dai Becchi per farlo vivere come garzone a Moncucco Torinese presso la cascina dei coniugi Luigi e Dorotea Moglia, dove rimase dal febbraio 1827 al novembre 1829. Essi, in un primo momento, non volevano accogliere il giovane fra i propri lavoratori, ma osservando la tenacia e l’intelligenza del ragazzo decisero di tenerlo con loro, affidandolo al vaccaro della famiglia, il vecchio Giuseppe, chiamato da tutti “lo zio”.
Essendo desideroso di studiare, Giovanni chiese allo zio Michele Occhiena, che aveva scambi con il Seminario di Chieri, di intercedere per lui affinché qualche sacerdote accettasse di istruirlo. Michele non riuscì però a ottenere alcun risultato. Nel settembre di quel 1829, a Morialdo era venuto a stabilirsi come cappellano don Giovanni Calosso, sacerdote settantenne; questi, dopo aver constatato quanto intelligente e desideroso di studiare fosse il giovane, decise di accoglierlo nella propria casa per insegnargli la grammatica latina e prepararlo così alla vita del sacerdote. Un anno dopo, e precisamente il 21 novembre del 1830, Giovanni Calosso fu colpito da apoplessia e moribondo diede al giovane amico la chiave della sua cassaforte, dove erano conservate seimila lire che avrebbero permesso a Giovanni di studiare ed entrare in Seminario. Il ragazzo, però, preferì non accettare il regalo del maestro e consegnò l’eredità ai parenti del defunto.
Il 21 marzo 1831 il fratellastro Antonio sposò Anna Rosso, di Castelnuovo, e la madre decise di dividere l’asse patrimoniale con lui, così che Giovanni poté tornare a casa e riprendere da settembre gli studi a Castelnuovo con la possibilità di una semi-pensione presso Giovanni Roberto, sarto e musicista del paese, che gli insegnò il proprio mestiere. A fine anno decise di andare a studiare a Chieri e l’estate la passò al Sussambrino, una cascina di Castelnuovo che suo fratello Giuseppe (1813-1862), insieme con l’amico Giuseppe Febraro, aveva preso a mezzadria.
Grazie all’aiuto del maestro, don Emanuele Virano, riuscì a recuperare tutto il tempo perduto ma, non appena questi fu nominato parroco di Mondonio e dovette abbandonare la scuola, il suo sostituto, don Nicola Moglia, di settantacinque anni, non riuscendo a contenere i suoi giovani studenti, fece perdere al giovane Bosco tempo prezioso, che egli comunque spese imparando diversi mestieri, quale quello del sarto, grazie all’aiuto di Giovanni Roberto, e quello del fabbro nella fucina di Evasio Savio, un suo amico, grazie ai cui insegnamenti egli in seguito riuscì a fondare laboratori per i ragazzi dell’Oratorio di Valdocco.
Il Seminario e l’amicizia con Luigi Comollo
A Chieri si stabilì a pensione presso la casa di Lucia Matta. Per mantenersi agli studi lavorò come garzone, cameriere, addetto alla stalla, ecc. Qui fondò la Società dell’Allegria, attraverso la quale, in compagnia di alcuni giovani di buona fede, tentava di far avvicinare alla preghiera i coetanei attraverso i suoi soliti giochi di prestigio e i suoi numeri acrobatici. Egli stesso raccontava che un giorno riuscì a battere un saltimbanco professionista, acquistandosi così il rispetto degli altri e la loro considerazione.
Durante gli anni di studio, Giovanni Bosco strinse forte amicizia con Luigi Comollo, nipote del parroco di Cinzano. Il giovane era spesso maltrattato dai suoi compagni, insultato e picchiato, ma accettava spesso con un sorriso o una parola di perdono queste sofferenze. Il giovane Bosco, dal canto suo, non sopportava di vedere il coetaneo così maltrattato e spesso lo difendeva, azzuffandosi con i suoi aggressori.
Le parole di Comollo e le sue incessanti preghiere turbarono profondamente l’animo di Giovanni, tanto che egli stesso un giorno ricordò nelle sue Memorie: “Posso dire che da lui ho cominciato a imparare a vivere da cristiano”. Grazie al suo atteggiamento così mansueto e innocente, il futuro santo comprese quanto fosse importante per lui raggiungere la salvezza dell’anima e ciò rimase talmente impresso nella sua mente che, quando fondò l’Oratorio a Valdocco, trascrisse su un cartello nella propria stanza: «Toglimi tutto, ma dammi le anime».
Nell’autunno del 1832, Giovanni Bosco incominciò la terza grammatica. Nei due anni seguenti proseguì regolarmente, frequentando le classi che venivano chiamate umanità (1833-34) e retorica (1834-35), dimostrandosi un allievo eccellente, appassionato dei libri e di grande memoria.
Nel marzo 1834 Giovanni Bosco, che si avviava a terminare l’anno di umanità, chiese di essere ammesso nell’ordine francescano, ma cambiò idea prima di entrare in convento, seguendo un sogno misterioso e il consiglio diretto di don Giuseppe Cafasso. Decise allora di vestire l’abito clericale, entrando in seminario. Don Giuseppe Cafasso gli consigliò di completare l’anno di retorica e quindi di presentarsi all’esame per entrare nel seminario di Chieri. Giovanni superò l’esame, che si tenne a Torino, il 25 ottobre prese l’abito ecclesiastico e il 30 ottobre 1835 si presentò in seminario.
Il 3 novembre 1837 Giovanni iniziò lo studio della teologia, fondamentale per gli aspiranti al sacerdozio. In quel tempo occupava cinque anni, e comprendeva come materie principali la dogmatica (lo studio delle verità cristiane), la morale (la legge che il cristiano deve osservare), la Sacra Scrittura (la parola di Dio), la storia ecclesiastica (storia della Chiesa dalle origini del cristianesimo all’età contemporanea).
In seminario Giovanni Bosco ritrovò l’amico Comollo con il quale poté così ristabilire la salda amicizia di un tempo. Ma il 2 aprile del 1837, Luigi Comollo, già debole fisicamente, cadde malato e si spense a soli 22 anni. Nella notte dal 3 al 4 aprile, notte che seguiva il giorno della sua sepoltura, secondo una testimonianza diretta di Giovanni Bosco e dei suoi venti compagni di camera, alunni del corso teologico, l’amico defunto apparve loro sotto forma di una luce che, per tre volte consecutive, disse: “Bosco! Bosco! Bosco! Io sono salvo!”. A ricordo dell’evento fu posta una lapide in un corridoio nel Seminario di Chieri. Il giovane chierico da quel momento in poi decise di “mettere la salvezza eterna al di sopra di tutto, a considerarla come l’unica cosa veramente importante”. Il suo motto, ispirato a Gn 14,21, che richiudeva il suo programma di vita, fu sempre: Da mihi animas, coetera tolle (“Dammi le anime, prenditi tutto il resto”), scritto a grossi caratteri su un cartello, che teneva nella sua stanza.
Ritratto giovanile di don Bosco durante i primi anni di sacerdozio.
Il 29 marzo 1841 ricevette l’ordine del diaconato, il 26 maggio incominciò gli esercizi spirituali di preparazione al sacerdozio che ricevette il 5 giugno 1841 nella cappella dell’Arcivescovado di Torino. Diventato prete, ricevette alcune proposte lavorative da parte di amici e conoscenti che, per ricompensare lui e la sua famiglia dei sacrifici fatti, lo volevano come istitutore a Genova o come cappellano. Egli però si rifiutò di accettare tali funzioni sia per una propria inclinazione all’umiltà, sia per le accese omelie di Giuseppe Cafasso, che accusava i sacerdoti di ingordigia e avidità, sia per la perentoria affermazione della madre Margherita: «Se per sventura diventerai ricco, non metterò mai più piede a casa tua».
Su invito del Cafasso, decise di entrare, ai primi di novembre del 1841, in convitto a Torino, in un ex-convento accanto alla chiesa di San Francesco d’Assisi, dove il teologo Luigi Guala, aiutato dal Cafasso, preparava 45 giovani sacerdoti a diventare preti del tempo e della società in cui dovranno vivere. La preparazione durò tre anni.
Ispirato dalle notizie riguardanti don Giovanni Cocchi, che pochi anni prima di lui aveva tentato di radunare all’interno di un Oratorio i ragazzi disagiati di Torino, Giovanni Bosco decise di scendere per le strade della sua città e osservare in quale stato di degrado fossero i giovani del tempo. Incontrò così i ragazzi che, sulla piazza di Porta Palazzo, cercavano in tutte le maniere di procurarsi un lavoro. Di questi giovani molti erano scartati perché poco robusti e in poco tempo destinati a finire sottoterra. Le statistiche confermano che in quel tempo ben 7184 fanciulli sotto i dieci anni erano impiegati nelle fabbriche.
In piazza San Carlo, don Bosco poteva conversare con i piccoli spazzacamini, di circa sette o otto anni, che gli raccontavano il loro mestiere e i problemi da esso generati. Erano molto rispettosi nei confronti del sacerdote che li difendeva molto spesso contro i soprusi dei lavoratori più grandi che tentavano di derubarli del misero stipendio.
Insieme con don Cafasso cominciò a visitare anche le carceri e inorridì di fronte al degrado nel quale vivevano giovani dai 12 ai 18 anni, rosicchiati dagli insetti e desiderosi di mangiare anche un misero tozzo di pane. Dopo diversi giorni di antagonismo, i carcerati decisero di avvicinarsi al sacerdote, raccontandogli le loro vite e i loro tormenti. Don Bosco sapeva che quei ragazzi sarebbero andati alla rovina senza una guida e quindi si fece promettere che, non appena essi fossero usciti di galera, lo avrebbero raggiunto alla chiesa di San Francesco.
L’8 dicembre 1841 incontrò, prima di celebrare Messa, Bartolomeo Garelli nella sacrestia della chiesa di San Francesco d’Assisi. Questi fu il primo ragazzo che si unì al suo gruppo. Don Bosco aveva deciso così di radunare intorno a sé tutti i ragazzi degradati della zona, dai piccoli spazzacamini agli ex detenuti. Fondamenti della sua futura attività erano tre: l’amicizia con i giovani (che molto spesso erano orfani senza famiglia), l’istruzione e l’avvicinamento alla Chiesa. La sera di quello stesso giorno, Giovanni fece amicizia anche con i tre fratelli Buzzetti, provenienti da Caronno Varesino, che si erano addormentati durante la sua predica.
Quattro giorni dopo, durante la messa domenicale, erano presenti Bartolomeo Garelli insieme con un nutrito gruppo di amici e i fratelli Buzzetti, con seguito di compaesani. Quello sarebbe stato il primitivo gruppo che avrebbe dato il via all’Oratorio di don Bosco. Già poco tempo dopo il gruppo era talmente numeroso che il sacerdote chiese l’assistenza di tre giovani preti: don Carpano, don Ponte, don Trivero. Anche alcuni ragazzi di media cultura si avvicinarono a don Bosco, aiutandolo a tenere a bada i ragazzi più impulsivi e ribelli.
Nella primavera del 1842, al ritorno dal paese, i fratelli Buzzetti conducevano con loro il più piccolo, Giuseppe, che si affezionò molto a don Bosco e decise, in età adulta, di seguire la via del sacerdozio, divenendo così suo braccio destro nella gestione del futuro ordine salesiano.
Nell’autunno del 1844 don Giuseppe Cafasso comunicò a don Bosco la nomina a cappellano dell’Ospedaletto di Santa Filomena, ricovero per bambine disabili, fondato dai marchesi di Barolo (Tancredi Falletti e la moglie Giulia Colbert). Don Cafasso voleva inoltre che il giovane amico facesse conoscenza con don Giovanni Borel, sacerdote legato ai marchesi di Barolo, che avrebbe potuto aiutarlo economicamente nella gestione dell’Oratorio e che ne sarebbe divenuto in seguito il direttore.
Fondazione e sviluppo della Società salesiana
Il 12 aprile 1846, giorno di Pasqua, finalmente don Bosco trovò un posto per i suoi ragazzi, una tettoia con un pezzo di prato: la tettoia Pinardi a Valdocco.
Nel 1854 don Bosco diede inizio alla Società salesiana, con la quale assicurò la stabilità delle sue opere e del suo spirito anche per gli anni futuri. Dieci anni dopo pose la prima pietra del santuario di Maria Ausiliatrice. Nel 1848, i progressi dell’opera furono elogiati pubblicamente da Pio IX, amico personale di don Bosco, da due anni salito al soglio pontificio.
Agli inizi del 1867, don Bosco era a Roma ospite del conte Vimercati. Nel febbraio tornò verso il Piemonte passando dalle Marche e dalla Romagna. A Fermo incontrò, fra gli altri, il giovane Domenico Svampa, futuro vescovo e cardinale; a Forlì, dove la fama di don Bosco era già molto diffusa, fu ricevuto dal vescovo Pietro Paolo Trucchi, che era anche amico del conte Vimercati.
In quegli stessi anni molti collegi e istituti scolastici decentrati di stampo salesiano furono fondati in Piemonte, come ad esempio il collegio San Carlo a Borgo San Martino vicino ad Alessandria.
Nel 1872, con Maria Domenica Mazzarello, fondò l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, con lo scopo di educare, con il medesimo spirito, la gioventù femminile.
Sempre nel 1872 per interessamento dell’arcivescovo di Genova Salvatore Magnasco e con il finanziamento di alcuni benefattori don Bosco acquistò nell’allora cittadina di San Pier d’Arena, alle porte di Genova, la chiesa di San Gaetano e l’annesso convento già dei teatini, e nel novembre dello stesso anno i Salesiani vi avviarono la loro opera di assistenza. Nasceva così il primo istituto salesiano al di fuori del Piemonte, che negli anni successivi fu ampliato e divenne un importante punto di riferimento per la cittadina ligure, che in quel momento stava vivendo un periodo di forte sviluppo demografico legato all’imponente crescita industriale. Convinto che l’istruzione professionale dei giovani delle classi più povere fosse fondamentale per il miglioramento della loro condizione sociale e lavorativa, don Bosco aprì, oltre all’oratorio, una scuola professionale per la formazione delle figure operaie maggiormente richieste in quel tempo (calzolai, falegnami, meccanici, sarti, tipografi, stampatori e legatori).
I Salesiani, la storia
La congregazione venne fondata da Giovanni Bosco (1815-1888): secondo dei figli di Francesco e Margherita Occhiena, modesti agricoltori, perse giovanissimo il padre e, all’età di sedici anni, iniziò a studiare a Chieri per diventare sacerdote. Venne ordinato prete il 6 luglio 1841 dall’arcivescovo di Torino Luigi Fransoni e per i tre anni successivi soggiornò nel capoluogo piemontese dove perfezionò la sua formazione teologica presso il Collegio ecclesiastico.
Grazie all’amicizia con don Giuseppe Cafasso, suo conterraneo, don Bosco conobbe la drammatica realtà delle carceri giovanili. In quegli anni Torino stava conoscendo un periodo di rapida industrializzazione e molti giovani si trasferivano dalle aree rurali in città per cercare lavoro: l’8 dicembre 1841 diede inizio alla sua opera educativa in favore dei giovani iniziando a insegnare il catechismo a un apprendista muratore presso la chiesa di San Francesco. I ragazzi da lui seguiti divennero presto quasi duecento.
Inizialmente la marchesa di Barolo mise a disposizione di don Bosco e dei sacerdoti che collaboravano con lui dei locali presso il suo “Rifugio”, una casa di accoglienza per ragazze “pericolanti” e “traviate”: il 12 aprile 1846 l’opera trovò una sede stabile nella tettoia messa a disposizione da Francesco Pinardi a Valdocco. La tettoia divenne anche un centro per l’assistenza ai senzatetto e per i servizi domestici don Bosco fece giungere da Chieri sua madre, che collaborò all’opera del figlio fino alla sua morte, avvenuta nel 1857.
Don Bosco dedicò il suo oratorio a san Francesco di Sales (da cui poi il nome della congregazione), in onore del quale il 20 giugno 1852 venne eretta la prima chiesa della compagnia: il vescovo di Ginevra venne scelto come patrono dell’opera sia perché era uno dei santi più venerati del Piemonte, sia perché incarnava i principi di amorevolezza, ottimismo e umanesimo cristiano che erano fondamento del sistema pedagogico di don Bosco.
Per assicurare una buona formazione e la possibilità di trovare un lavoro ai suoi giovani, don Bosco eresse laboratori per apprendisti, una scuola serale, un ginnasio e una tipografia.
La nascita della congregazione
Il 26 gennaio 1854 don Bosco riunì quattro collaboratori per gestire l’opera. Il ministro liberale Urbano Rattazzi diede al fondatore alcuni suggerimenti importanti per la struttura organizzativa della sua opera: Rattazzi propose di non dare all’istituto un carattere apertamente religioso, ma di creare di un’associazione di liberi cittadini che collaborassero volontariamente al bene della gioventù povera e abbandonata, i cui membri conservassero i diritti civili e, se sacerdoti, portassero la veste del clero secolare; suggerì inoltre che coloro che detenevano degli uffici fossero chiamati con nomi profani come ispettore o direttore.
Nel 1858 don Bosco venne ricevuto a Roma da papa Pio IX che ne incoraggiò l’opera. Il 18 dicembre 1859 il fondatore e i suoi primi compagni si raccolsero nella nuova società religiosa impegnandosi a costituire una congregazione per promuovere la gloria di Dio e la salvezza delle anime più bisognose di istruzione e di educazione: la professione dei voti pubblici di povertà, obbedienza e castità da parte dei primi ventidue membri ebbe luogo il 14 maggio 1862.
Per ottenere il riconoscimento pontificio dell’istituto, il fondatore inviò presso la Santa Sede la regola da lui abbozzata e una lettera di raccomandazione firmata da cinque vescovi (non quello di Torino, in quanto l’arcivescovo Luigi Fransoni era morto esule a Lione e la sede era vacante: il vicario capitolare Giuseppe Zappata aveva però promesso il riconoscimento diocesano). La Società Salesiana ricevette il pontificio decreto di lode il 23 giugno 1864.
Poiché la congregazione non aveva ancora ricevuto il pieno riconoscimento della curia diocesana torinese, i Salesiani non vennero però autorizzati a rilasciare le lettere dimissorie, cioè il permesso per i candidati al sacerdozio formati dalla comunità a essere lecitamente ordinati da un vescovo. Il nuovo vescovo, Alessandro Riccardi di Netro, si mostrò ostile all’opera di don Bosco e rifiutò l’ordine agli aspiranti che non avessero frequentato il seminario diocesano; anche Lorenzo Gastaldi, successore di Riccardi di Netro, cercò di impedire che l’opera di don Bosco venisse sottratta alla giurisdizione della curia torinese.
Don Bosco decise di trattare l’approvazione del suo istituto direttamente con la congregazione per i Religiosi che modificò sensibilmente le costituzioni redatte dal fondatore ma consentì al papa di approvarle definitivamente il 3 aprile 1874. Solo il 28 giugno 1884 la Società Salesiana ottenne dalla Santa Sede il privilegio dell’esenzione.
La pedagogia salesiana e le missioni
I principi educativi della Società Salesiana sono esposti in alcuni scritti del fondatore: Il giovane provveduto, Ricordi confidenziali ai direttori, Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, la Lettera da Roma e la Lettera circolare sui castighi.
Don Bosco respinge i metodi repressivi e propone il “metodo preventivo”: sostiene la necessità di far conoscere agli educandi le regole e le prescrizioni della comunità e invita gli educatori a vigilare con amore per impedire ai giovani di commettere mancanze, ponendo l’educando in condizione ottimali per raggiungere uno sviluppo armonico.
L’anima della pedagogia salesiana è la “carità pastorale”: gli educatori sono invitati ad agire con amore, cordialità e affetto. Bisogna, inoltre, far comprendere ai giovani di essere amati, poiché chi sa di essere amato ama a sua volta.
La prima richiesta ai Salesiani per l’apostolato missionario giunse dall’Argentina, per l’evangelizzazione della Patagonia. Il 12 maggio 1875 don Bosco scelse tra i suoi collaboratori i missionari: a capo della spedizione venne posto il futuro cardinale Giovanni Cagliero. Dall’Argentina i Salesiani si diffusero negli stati più a nord (in Uruguay e in Brasile, dove ebbero un ruolo importante nelle missioni in Amazzonia e Mato Grosso) e nel 1896 giunsero negli Stati Uniti d’America.
L’impegno in Africa era già stato nei progetti di don Bosco, ma solo dopo la morte del fondatore i primi Salesiani si stabilirono nel continente. Nel 1891 i Salesiani aprirono una casa a Orano, in Algeria, ma fu in Congo che l’apostolato della società ebbe i migliori successi: i missionari giunsero nel Katanga nel 1912 e nel 1925 il territorio venne eretto in prefettura apostolica.
Nel 1906, con l’arrivo dei primi missionari in India, i Salesiani estesero la loro missione all’Asia. Louis Mathias e Stefano Ferrando svolsero il loro apostolato nell’Assam e nelle regioni al confine con il Tibet e la Birmania. Nel 1926 Vincenzo Cimatti guidò la missione salesiana in Giappone.
Le missioni in Argentina di San Giovanni Bosco
Nel 1875 partì la prima spedizione missionaria per l’Argentina, terra della grande emigrazione italiana dell’Ottocento. Don Bosco fondò intanto i Cooperatori, considerati da don Bosco stesso come i «Salesiani Esterni». La presenza dei missionari era stata richiesta dall’arcivescovo, Mons. Aneiros. Informato dal console argentino Giovanni Battista Gazzolo sul lavoro dei Salesiani, propose a don Bosco di accettare la gestione di una parrocchia a Buenos Aires e un collegio di ragazzi a San Nicolás de los Arroyos. Don Bosco accolse la richiesta. Con una solenne celebrazione nella Basilica di Maria Ausiliatrice, in Torino, il giorno 11 novembre 1875, prese avvio la prima spedizione missionaria salesiana. Guidati da don Giovanni Cagliero, i missionari di don Bosco si imbarcarono dal porto di Genova il 14 novembre 1875. A Buenos Aires si insediarono in una parrocchia per emigrati italiani.
La seconda spedizione, giusto un anno dopo, il 14 novembre 1876, portò a sbarcare un altro gruppo di Salesiani. Li guidava don Francesco Bodrato. Con loro venne aperta, sempre a Buenos Aires, una scuola di arte e mestieri, dove si formavano sarti, falegnami, legatori. Altro personale arrivò con la terza spedizione missionaria nel 1877. Questa volta, insieme con i Salesiani, arrivarono le prime Figlie di Maria Ausiliatrice, guidate da Suor Angela Vallese.
Il sogno di don Bosco per l’Argentina mirava tuttavia alla Patagonia. Dopo anni di attesa, nel 1879 si presentò l’occasione. Il Governo argentino affidò al generale Julio Argentino Roca la spedizione militare il cui obiettivo era la “conquista del deserto”. Mons. Espinosa, vicario di Buenos Aires, e i Salesiani don Giacomo Castamagna e il chierico Botta accompagnarono l’esercito come cappellani. Venne così avviata la missione in Patagonia, Carmen de Patagones, la prima opera salesiana. Più tardi venne aperta Chos Malal, quindi Bahía Blanca, Junín de los Andes e gradualmente le altre case.
Grandi missionari, come don Milanesio e don Fagnano, dedicarono impegno e creatività pastorale a questa generosa terra e ai suoi abitanti, soprattutto gli indio delle pampa. Nel 1884 don Cagliero venne nominato vicario apostolico della Patagonia settentrionale e centrale e ricevette la consacrazione episcopale il 7 dicembre dello stesso anno. L’azione missionaria sognata da don Bosco cominciava a dare i suoi frutti ecclesiali. L’importanza dei Salesiani nella cultura del paese sudamericano è testimoniata indirettamente dal tango “Cambalache” (“bottega di rigattiere”), scritto e musicato nel 1934 da Enrique Santos Discepolo. Il testo, nonostante il pessimismo di fondo dell’autore, accosta don Bosco a figure positive come lo sportivo Primo Carnera e l’eroe nazionale argentino José de San Martín.
La morte e la canonizzazione
Don Bosco morì di bronchite a Torino all’alba del 31 gennaio 1888 all’età di 72 anni e il suo corpo è attualmente esposto all’interno di un’urna nel Santuario di Maria Ausiliatrice, in una cappella in fondo alla navata destra.
Il messaggio educativo si può condensare attorno a tre parole: ragione, religione, amorevolezza. Alla base del suo sistema preventivo ci fu un profondo amore per i giovani, chiave di tutta la sua opera educativa. Il 2 giugno 1929 papa Pio XI lo beatificò, dichiarandolo santo il 1º aprile 1934, giorno di Pasqua.
Tra le opere pittoriche raffiguranti San Giovanni Bosco la più conosciuta e divulgata, anche sotto forma di santino, è quella del pittore Luigi Cima, custodita nella chiesa di San Rocco a Belluno. Papa Giovanni Paolo II nel 1988 lo nomina padre e maestro della gioventù.
Il 16 agosto 2015, nel compimento dei 200 anni dalla nascita, nelle chiese salesiane d’Italia e del mondo sono stati svolti solenni festeggiamenti, compreso il pellegrinaggio a Roma in occasione dell’Angelus di Papa Francesco. Inoltre 5.000 giovani provenienti da tutto il mondo si sono riuniti, prima a Torino poi al Colle don Bosco, durante la settimana tra il 10 e il 16 agosto 2015 per festeggiare il bicentenario in un evento di scala mondiale. Questo evento è noto come SYM DON BOSCO e il suo motto è “LIKE Don Bosco WITH the young FOR the young” (ovvero “COME Don Bosco CON i giovani PER i giovani”). Il SYM è stato caratterizzato da spettacoli e celebrazioni in varie lingue, prevalentemente inglese, spagnolo e italiano.
I miracoli per la beatificazione
Ai fini della beatificazione la Chiesa cattolica ritiene necessario un miracolo: nel caso di don Bosco ha ritenuto miracolose le guarigioni di Teresa Callegari e Provina Negro.
A Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, la ventitreenne Teresa Callegari, nel novembre 1918, si ammalò di polmonite di origine influenzale. Ricoverata in ospedale guarì dalla polmonite ma, durante la convalescenza, si ammalò di poliartrite infettiva ribelle a ogni cura. La patologia si cronicizzò e nel 1921, anche a causa di complicazioni, la donna non riusciva più ad alimentarsi e i medici disperavano di salvarla.
Su consiglio di un’amica incominciò una novena a don Bosco, ripetuta nel luglio dello stesso anno. Il 16 luglio, ottavo giorno della novena, la situazione peggiorò ulteriormente e si pensò alla morte imminente della giovane. Quest’ultima però, alle 4 di mattina del 17, come raccontò in seguito, avrebbe visto avanzare verso il suo letto d’ospedale don Bosco che le ordinava di alzarsi: discese dal letto senza avvertire più alcun disturbo e, mentre vedeva svanire l’immagine del sacerdote, corse gridando verso le altre malate incredule.
Il giorno dopo i medici, tra cui il dottor Miotto, constatarono la guarigione, che fu confermata durante il processo apostolico anche dai dottori Ghisolfi e Fermi e, successivamente, dai dottori Chiays, Sympa e Stampa. Il processo di beatificazione durò fino al 1929, anno in cui, il 19 marzo, la Chiesa dichiarò miracolosa la guarigione che, istantanea, completa e definitiva, non appariva scientificamente spiegabile. In tale occasione fu dichiarata miracolosa anche la guarigione di suor Provina Negro, appartenente alla congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice: la sua improvvisa guarigione da una gravissima forma di ulcera allo stomaco era stata esaminata parallelamente a quella di Teresa Callegari, ed era stata attribuita all’intercessione di don Bosco.
Il sogno delle due colonne
In fondo alla basilica di Maria Ausiliatrice di Torino, voluta da don Bosco, si trova il dipinto raffigurante il famoso “Sogno delle due colonne”, considerato profetico sul futuro della Chiesa.
Il sogno, raccontato dal futuro santo la sera del 30 maggio 1862, descrive una terribile battaglia sul mare, scatenata da una moltitudine di imbarcazioni contro un’unica grande nave, che simboleggerebbe la Chiesa cattolica.
La nave, colpita ripetutamente, viene guidata dal papa ad ancorarsi, sicura e vittoriosa, fra due alte colonne emerse dal mare. Queste ultime rappresenterebbero la prima l’Eucaristia, simboleggiata da una grande ostia con la scritta “Salus credentium”, la seconda la Madonna, simboleggiata da una statua dell’Immacolata con la scritta “Auxilium Christianorum”.
La notte del 13 settembre 1953 il beato cardinale Schuster, allora arcivescovo di Milano, che si trovava a Torino come Legato Pontificio al Congresso Eucaristico Nazionale, durante il solenne pontificale di chiusura dedicò a questo sogno una parte rilevante della sua omelia.
Riconoscimenti
La città di Torino gli ha dedicato una via nel quartiere di San Donato. A Roma, si trova la Basilica di San Giovanni Bosco, nel quartiere omonimo. In Valle d’Aosta, due scuole parificate portano il suo nome: un istituto di educazione primaria a Aosta e la principale scuola di falegnameria della regione, situata a Châtillon.
Le frasi più belle di Don Bosco
“Basta che voi siate giovani perché io vi ami assai.“
“Dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende un buon o triste avvenire della società.“
“Amate ciò che amano i giovani, affinché essi amino ciò che amate voi.“
“Senza religione non vi è vera scienza, non vi è moralità, né educazione.“
“Fate conto che quanto io sono, sono tutto per voi. Non ho altra mira che procurare il vostro vantaggio morale, intellettuale e fisico. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, e per voi sono disposto anche a dare la vita.“
“Quando vedo i giovani tutti occupati nel gioco son sicuro che il demonio ha un bel fare, ma non riesce a nulla.“
“Il migliore consiglio è di fare bene quanto possiamo e poi non aspettarci la ricompensa dal mondo ma da Dio solo.“
“È una vera festa per Don Bosco il poter prendere cura delle anime dei suoi giovani.“
“Il percuotere in qualunque modo, il mettere in ginocchio con posizione dolorosa, il tirar le orecchie ed altri castighi simili si devono assolutamente evitare, perché sono proibiti dalle leggi civili, irritano grandemente i giovani ed avviliscono l’educatore.“
“Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati.“
“Date molto ai poveri se volete divenir ricchi.“
“Il demonio ha paura della gente allegra.“
“Chi sa di essere amato e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani.“
“Dite ai giovani che li aspetto tutti in Paradiso.” (Frase pronunciata sul letto di morte)
“La prima felicità di un fanciullo è sapersi amato.“
“In ognuno di questi ragazzi, anche il più disgraziato, v’è un punto accessibile al bene. Compito di un educatore è trovare quella corda sensibile e farla vibrare.“
“I ragazzi, se non li occupiamo noi, si occuperanno da soli e certamente in idee e cose non buone.“
“Confessatevi come se la vostra confessione fosse l’ultima della vita.“
“Non mai annoiare né obbligare i giovanetti alla frequenza dei santi sacramenti, ma porgere loro la comodità di approfittarne.“
“Parla poco degli altri e meno di te.“
“La più bella passeggiata e il più bel gioco che mi piacerebbe si è di poter condurre diecimila giovani in paradiso.“
“Se non ti metti a praticar l’umiltà, tu perdi la più bella delle virtù.“
“Quando un giovanetto sa distinguere tra pane e pane, e palesa sufficiente istruzione, non si badi più all’età e venga il Sovrano Celeste a regnare in quell’anima benedetta.”
“Agli altri perdona tutto, a te nulla.“
“La carità non conosce diversità di razze, né distanza di luoghi.“
“Preoccupati di farti amare, piuttosto che farti temere.“
“Si tenga lontano come la peste l’opinione di taluno che vorrebbe differire la prima comunione a un’età troppo inoltrata, quando per lo più il demonio ha preso possesso del cuore di un giovanetto a danno incalcolabile della sua innocenza.“
“È cosa sperimentata che i più validi sostegni dei giovani sono il sacramento della confessione e della comunione.“
*Fonte: Wikipedia (San Giovanni Bosco) e Wikipedia (Salesiani)

Attualità
Paddington torna a casa (anzi, in Perù): un’avventura che...

Ci sono storie che sembrano nate apposta per farci sorridere e sentire al sicuro, anche nei momenti in cui la vita corre troppo in fretta. La saga di Paddington rientra di diritto in questa categoria: c’è un calore intrinseco in quel suo cappello rosso, nel montgomery azzurro, e in quell’atteggiamento un po’ goffo ma così sincero da ricordarci che la gentilezza, dopotutto, è un valore potente. Ora, dopo anni di attesa, l’orsetto più amato del cinema sta per tornare in una nuova avventura, e lo farà in grande stile: il terzo capitolo, intitolato “Paddington in Perù”, è atteso nelle sale italiane dal 20 febbraio 2025.
Ed è un ritorno che si carica di un certo peso emotivo. Sapete, sono trascorsi ben otto anni dal film precedente, “Paddington 2” (uscito nel 2017). Nel frattempo, abbiamo visto i tempi cambiare, abbiamo fatto i conti con turbolenze globali e forse, abbiamo avuto ancora più bisogno di un personaggio che ci ricordi che un panino alla marmellata e un abbraccio possono creare momenti di magia. C’è chi ricorda ancora la prima visione del primo “Paddington” nel 2014, quel mix di comicità e tenerezza che colpì anche i critici più rigidi. E adesso eccoci qui, a chiederci se il terzo film saprà tenere alta l’asticella. A quanto pare, la risposta sembra già positiva.
La leggenda di un orsetto educato: come è nata la “febbre da Paddington”
Prima di tuffarci nella nuova pellicola, è bene fermarsi un attimo per ricordare perché l’orso col cappello è diventato così popolare. Paddington nasce dalla penna dello scrittore inglese Michael Bond nel 1958. Un personaggio pensato per i bambini, con storie piene di dolcezza, ma anche di buffi disastri. E, un po’ alla volta, quel suo modo ingenuo e delicato di vivere il mondo l’ha reso un’icona, amata non solo dai piccoli.
Quando uscì il primo film di Paddington nel 2014, nessuno si aspettava nulla di speciale. “Sarà carino, dai.” E invece. BOOM. Paul King ha tirato fuori dal cilindro un film che non era solo dolce e buffo, ma anche caldo, accogliente, di quelli che ti fanno venire voglia di abbracciare il primo che passa.
E quell’orsetto con il cappellino rosso? Ha spopolato. Critica, pubblico, tutti innamorati. Più di 250 milioni di dollari al botteghino e un bel 97% su Rotten Tomatoes, che non è mica roba da poco. Ma poi… poi arriva il sequel nel 2017. E che succede? Succede che Paul King ci regala un sequel ancora più bello. Una storia in cui Paddington vuole solo comprare il regalo perfetto per zia Lucy ma ovviamente finisce nei guai. E chi c’è a rendere tutto ancora più epico? Hugh Grant, in una delle sue interpretazioni più divertenti di sempre.
Risultato? BOOM (di nuovo). Rotten Tomatoes lo premia con 99% di recensioni positive e il totale degli incassi? Vicino ai 500 milioni di dollari. Una roba pazzesca per un film che parla di un orsetto goloso di marmellata.
(Ri)scoprire le origini: “Paddington in Perù” e la trama che ci aspetta
E ora, cambiamo scenografia. Addio Londra grigia e piovosa, con i suoi taxi e gli ombrelli sempre aperti: in “Paddington in Perù” l’orso parte per il Sudamerica, accompagnato dalla fidata famiglia Brown. Il motivo? Visitare la cara zia Lucy, trasferitasi in una casa di riposo per orsi tra le Ande. Tuttavia, non c’è spazio per la semplice cartolina turistica: all’arrivo, Paddington e i Brown scoprono che zia Lucy è misteriosamente scomparsa, lasciando dietro di sé solo qualche indizio come gli occhiali e un braccialetto. Ed ecco che la vacanza si trasforma in una spedizione a dir poco rocambolesca. L’idea di un’orsetta anziana in pericolo accende subito la curiosità: quali segreti nasconde il passato della famiglia orsi? E soprattutto, chi potrebbe averla fatta sparire?
Secondo voci certe, questa volta Paddington si ritroverà addirittura a esplorare la giungla, ad attraversare i fiumi amazzonici e a percorrere sentieri impervi tra le vette peruviane. Risate, suspense, ma anche un pizzico di commozione, perché si tratta di un ritorno alle radici: in fondo, lui è nato in Perù, e l’idea di scoprire da dove viene davvero sembrava inevitabile per chiudere il cerchio. O forse per aprirne uno nuovo?
Dietro la macchina da presa: Dougal Wilson prende il timone
Se c’è un elemento che ha incuriosito fin da subito gli appassionati, è il cambio in cabina di regia. Dopo due capitoli acclamati dalla critica, Paul King ha deciso di passare la palla, pur restando coinvolto come co-autore del soggetto e produttore esecutivo. A dirigere questa nuova avventura è Dougal Wilson, un creativo britannico famoso per spot pubblicitari e videoclip. Un artista con uno stile originale ma alla sua prima esperienza in un lungometraggio per il grande schermo.
Quando Wilson ha confermato il suo ingaggio, non ha nascosto un misto di entusiasmo e timore, dichiarando: “Sono da sempre un grande fan di Paddington e farò di tutto per onorare la passione che il pubblico nutre per questo personaggio straordinario”. In altre parole, la voglia di metterci il cuore c’è. E, considerando le recensioni delle anteprime in Gran Bretagna (dove il film è arrivato a novembre 2024), sembra che la magia non si sia persa. Diversi critici hanno elogiato la continuità di tono con i primi due capitoli, pur notando un leggero cambio di registro in alcuni momenti. Insomma, il timone è passato di mano, ma la nave punta decisa nella stessa direzione.
Cast vecchio e nuovo: addii, ritorni e sorprese inattese
È impossibile parlare di Paddington senza considerare la sua “famiglia umana”: la famiglia Brown. Henry Brown, interpretato da Hugh Bonneville, e Mrs. Bird, affidata a Julie Walters, sono ormai presenze imprescindibili, così come i giovani Judy (Madeleine Harris) e Jonathan (Samuel Joslin). E se c’è un personaggio che non poteva mancare, quello è Mr. Gruber, l’amico antiquario di Paddington, interpretato da Jim Broadbent. Dall’altra parte, però, un cambio rilevante salta subito all’occhio: Sally Hawkins, che era Mary Brown nei primi due film, non torna. Al suo posto, troviamo Emily Mortimer, attrice britannica chiamata a vestire i panni della mamma di casa.
Non basta. Chi dobbiamo ringraziare per la voce di Paddington? In versione originale, ancora una volta c’è Ben Whishaw. Noi, in Italia, ascolteremo il doppiaggio di Francesco Mandelli. Per quanto riguarda le new entry, la curiosità è tutta per Olivia Colman, premio Oscar, che qui interpreta la Reverenda Madre, una suora canterina che gestisce la casa di riposo per orsi in Perù (immaginatevi un mix di rigore e simpatia). Poi, c’è Antonio Banderas, nei panni di Hunter Cabot, un esploratore sulle tracce di un tesoro leggendario. Pare che questo personaggio riserverà momenti di comicità e azione, un po’ come accadeva con Phoenix Buchanan, il villain del secondo film. E a proposito di quest’ultimo: a quanto pare Hugh Grant comparirà anche qui, con un cameo non accreditato. Una di quelle chicche che fanno sussultare i fan e creano l’effetto “caccia all’ospite segreto” in sala.
A completare il quadro di novità, Carla Tous (giovane attrice spagnola) prende il posto che inizialmente doveva essere di Rachel Zegler, costretta a rinunciare a causa dei conflitti di date legati allo sciopero SAG-AFTRA esploso a Hollywood durante la lavorazione. Tous interpreta Gina Cabot, figlia di Hunter, e presumibilmente compagna di viaggio di Paddington e dei Brown nei meandri della foresta. Ciliegina sulla torta, Hayley Atwell fa una comparsata in un ruolo secondario, di cui ancora si sa poco ma che promette di aggiungere un ulteriore tassello colorato al mosaico.
Il viaggio (di produzione) nel cuore del Sudamerica
Hanno davvero girato in Sudamerica! Non era scontato, eh. Potevano fare tutto con i soliti sfondi finti, un po’ di CGI ben piazzata e via, invece no. Hanno preso baracca e burattini e sono andati davvero tra Colombia e Perù. Foreste pluviali vere, montagne andine vere, non un surrogato da studio. Deve essere stata un’impresa da pazzi. Tra fango, umidità, altitudine… già mi immagino il regista a imprecare dietro la macchina da presa mentre un macchinista lotta con una telecamera appannata dal caldo. Ma alla fine, ne è valsa la pena. Il film avrà quell’anima autentica che ti fa sentire il profumo della terra bagnata e il canto degli uccelli della giungla, non un freddo rendering digitale.
E mentre il cast e la troupe si davano da fare, fuori dal set il mondo del cinema era nel caos. SAG-AFTRA in sciopero, produzioni ferme, un macello. Eppure, contro ogni pronostico, ce l’hanno fatta. Girato tutto entro ottobre. Tempismo perfetto per non far slittare l’uscita del film, che sbarcherà nelle sale italiane a febbraio 2025. E tra un ciak e l’altro? Beh, qualcuno se l’è presa comoda. Tipo Antonio Banderas, che durante le pause ha pensato bene di postare su Instagram un panino colmo di marmellata, con la frase: “Preparate un panino con marmellata extra per un’avventura davvero grande!” Ditemi voi se non è perfetto. Un attore immerso nello spirito del film fino in fondo. Chapeau.
Musica e dettagli di scena, perché l’anima del film passa anche da qui
Un aspetto che abbiamo imparato ad apprezzare nei film di Paddington è la colonna sonora, sempre giocosa e capace di sottolineare momenti teneri o buffi con grande delicatezza. Questa volta, la responsabilità di riempire la sala con note emozionanti è affidata a Dario Marianelli, il compositore italiano premio Oscar per “Espiazione”. La scelta non è casuale: c’è bisogno di qualcuno capace di passare da un’epica spedizione nella giungla a un tono più leggero, quasi da commedia, e Marianelli sembra la persona ideale. Avere un compositore che sa fondere tensione e malinconia potrebbe essere la carta vincente per accompagnare la ricerca della zia Lucy tra le foreste e i villaggi andini.
Non possiamo poi dimenticare i costumi, che nel caso di Paddington assumono un ruolo speciale: quell’iconico montgomery, il berretto rosso che fa capolino in mezzo alla folla, l’ombrello che magari torna utile contro la pioggia londinese ma è del tutto superfluo in mezzo alla giungla… Sono dettagli che ci fanno percepire quel sapore di gentile strampaleria. Dalle foto trapelate, si intravedono anche abiti peruviani e cappelli tradizionali, a testimonianza di un impegno nel rispetto delle culture locali. Tutto, a quanto pare, pensato per creare un contrasto tra la confortevole normalità di casa Brown e l’esotico battito del Sudamerica.
L’attesa del pubblico e le prime recensioni oltre confine
L’uscita di “Paddington in Perù” è uno degli eventi cinematografici family più chiacchierati degli ultimi tempi. Non è una sorpresa: la saga ha già raccolto una fan base trasversale, dai bambini ai loro genitori (e anche ai nonni). In Gran Bretagna, il film è approdato con un certo anticipo, a novembre 2024 e le reazioni dei critici non si sono fatte attendere. Molti elogiano il tono leggero ma mai banale, la capacità di far divertire senza rinunciare a una certa profondità. Qualcuno ha perfino scritto che, pur non raggiungendo la perfezione di “Paddington 2” – considerato una delle più brillanti commedie per famiglie degli ultimi decenni – questo terzo capitolo si avvicina molto, regalando un’avventura colma di cuore.
A destare particolare entusiasmo sono state le performance di Olivia Colman, che sembra incarnare una suora dal piglio canterino e allo stesso tempo, dal grande senso dell’umorismo, e di Antonio Banderas, che con il suo Hunter Cabot pare richiamare un po’ l’eccentricità di Phoenix Buchanan (il personaggio di Hugh Grant). Un paragone non da poco, visto quanto fu amato il villain narcisista del secondo film. C’è chi predice che la coppia Colman-Banderas possa entrare nella classifica dei duetti più divertenti di questa trilogia.
Perché l’orso con la valigia ci mancava così tanto
Se vogliamo capire il perché di tanto fervore, basta fermarsi a pensare a ciò che rappresenta Paddington. Non è solo un orsetto tenero che si riempie la bocca di marmellata: è un simbolo di accoglienza, di buone maniere, di curiosità verso il prossimo. In un mondo sempre più veloce e a tratti un po’ cinico, lui rimane quel personaggio che ti guarda con occhi sinceri e ti offre un panino perché “chiunque potrebbe aver fame.” Forse è questo il segreto del suo successo trasversale: non si tratta di insegnare ai bambini come comportarsi, ma di ricordarlo un po’ anche a noi adulti.
Lo abbiamo visto quando Paddington è apparso in un famoso video del 2022 con la Regina Elisabetta II, in occasione di un evento celebrativo. Il Paese intero lo ha accolto come un vecchio amico, l’orsetto gentile che riesce a strappare un sorriso a chiunque. Ora, immaginiamo di ritrovarlo, dopo otto lunghissimi anni di assenza, in un film che lo porta lontano da Londra, fino alle radici della sua storia. Non stupisce che l’aspettativa sia alle stelle e che molti prenoteranno il proprio posto al cinema con largo anticipo.
L’appuntamento in sala (e nel cuore)
A questo punto, non resta che segnare la data: “Paddington in Perù” arriva in Italia il 20 febbraio 2025. Manca pochissimo. Ci aspettiamo una pellicola che mescoli ironia, sentimenti e un po’ d’avventura esotica. Del resto, il marchio di fabbrica di questa saga è proprio questa capacità di farti sorridere mentre, in qualche modo, ti scalda il cuore.
Sarà interessante vedere come il pubblico nostrano accoglierà la sostituzione di Sally Hawkins con Emily Mortimer, o l’esordio di Dougal Wilson al posto di Paul King. Ma sembra che l’entusiasmo non manchi. La vera domanda, quasi inevitabile, è: riusciremo a trattenere le lacrime quando Paddington abbraccerà finalmente la sua zia Lucy? E soprattutto, quante fette di pane con la marmellata dovremo prepararci prima di entrare in sala?
Potreste storcere il naso di fronte a queste riflessioni semiserie ma noi siamo convinti che un po’ di coinvolgimento emotivo sia il sale di un buon film per famiglie. E se c’è un franchise che ha saputo unire i più piccoli e i più grandicelli in un coro di risate e sorrisi, è proprio questo. Il successo planetario di Paddington, l’orsetto gentile che viene da lontano, ci ricorda che c’è ancora spazio nel cinema per raccontare storie fatte di buone azioni, di pasticci e di amicizie improbabili.
Ci siamo quasi. Il grande giorno si avvicina e già immaginiamo la sala buia, il profumo dei popcorn, quel momento in cui le luci si abbassano e l’avventura ha inizio. Paddington torna e con lui torna anche un pezzo della nostra infanzia. Pensateci: è un viaggio tra i colori del Perù e l’eleganza tutta british, una storia che sembra cucita su misura per farci sorridere e scaldarci il cuore. Un film per bambini? Certo. Ma anche per chi bambino lo è stato e sente ancora quella piccola fiamma accesa dentro.
E allora, biglietto alla mano, lasciamoci trasportare. Con la valigia in una mano e un panino alla marmellata nell’altra. Perché, diciamocelo, non esiste viaggio senza un po’ di dolcezza. Ecco perché, nonostante l’inevitabile incertezza che accompagna ogni nuovo capitolo di una saga di successo, ci sentiamo di dire che “Paddington in Perù” potrebbe essere una di quelle piccole gemme capaci di restare nella memoria collettiva a lungo. Un invito a osare la gentilezza e a metterci in viaggio, valigia in mano e cuore aperto, alla volta di orizzonti inesplorati. Magari, chi lo sa, con un panino alla marmellata in tasca. Perché in qualunque posto si vada, un pizzico di dolcezza è sempre il modo migliore per sentirsi a casa.
Attualità
Sanremo 2025: Iva Zanicchi, una vita di musica, un premio...

Sanremo, 14 febbraio 2025 – Che notte, ragazzi. Quella che non ti scordi più. L’Ariston in delirio, la gente in piedi, un applauso infinito. E lei, Iva. Uno sguardo che dice tutto, gli occhi lucidi, il sorriso che prova a contenere l’emozione… ma è impossibile. Perché dopo sessant’anni di carriera, sessant’anni di musica, è impossibile non sentirsi travolti da un’ondata d’affetto che ti fa tremare le gambe.
Il Premio alla Carriera “Città di Sanremo”, una targa, un riconoscimento ufficiale, sì. Ma è molto di più: è un grazie collettivo, è il pubblico che ti dice “sei parte della nostra vita”. E lei lo sa. Iva lo sente, lo vive, lo respira.
Vestita di nero, elegantissima, quasi a voler ricordare a tutti che la classe non ha età, non ha tempo. Ottantacinque anni e la voce che ancora sa graffiare, accarezzare, far venire i brividi. “Non pensavo di emozionarmi così“, dice stringendo il premio, mentre il pubblico la ricopre d’amore. L’Aquila di Ligonchio ha spiccato il volo ancora una volta. E nessuno ha avuto il coraggio di farla atterrare.
Un riconoscimento alla carriera da record
Il Premio alla Carriera è stato consegnato a Iva Zanicchi direttamente dal conduttore e direttore artistico Carlo Conti, affiancato dal maestro Pinuccio Pirazzoli. Si tratta di un tributo prestigioso, una sorta di “blasone” per una vera signora della musica italiana – come Conti stesso l’ha definita – che vanta ben tre vittorie al Festival di Sanremo (nel 1967, 1969 e 1974). “Che emozione!”, ha esclamato Iva appena ricevuto il premio, visibilmente emozionata di fronte al teatro gremito. Conti l’ha presentata al pubblico sottolineando la sua statura artistica – “una donna straordinaria” – e ricordando con affetto di aver condiviso con lei un’esperienza televisiva a Domenica In molti anni fa.
Discorsi, ringraziamenti e ironia sul palco
Durante il suo discorso di ringraziamento, Iva Zanicchi ha più volte espresso gratitudine. “Grazie, sono veramente onorata”, ha dichiarato con semplicità, rivolgendosi sia a Conti che al pubblico dell’Ariston. L’artista non ha nascosto la propria emozione per essere celebrata nella “sua” Sanremo: “Sono passati 60 anni dal mio primo Festival… quando ritirerò questo premio rivivrò tutta la mia vita, perché io sono nata qua”, aveva confidato alla vigilia, ricordando il suo esordio sanremese nel 1965. Sul palco, Zanicchi ha voluto dedicare simbolicamente il riconoscimento alle due persone a lei più care, rendendo omaggio alla madre – che fin da giovane l’aveva sostenuta con grandi sacrifici – e al compagno di una vita, Fausto Pinna, scomparso pochi mesi fa: “Lo dedico a mia mamma… E a Fausto, mio marito, da poco scomparso”.
Fedele al suo carattere gioviale, Iva ha saputo stemperare la solennità con l’ironia che da sempre la contraddistingue. “Come mi hanno detto in tanti, meglio un omaggio da viva che da morta”, ha scherzato la cantante, strappando sorrisi e applausi durante i ringraziamenti finali. Un momento divertente si è avuto quando Conti le ha chiesto di regalare al pubblico un assaggio dei suoi brani più celebri: inizialmente Iva ha risposto ridendo che avrebbe preferito ascoltare i Duran Duran (ospiti internazionali della serata) piuttosto che esibirsi. Convinta dall’entusiasmo del teatro, ha poi accettato con un sorriso, pronta a cantare per il suo pubblico.
Non sono mancati piccoli fuori programma scherzosi: al momento della consegna fisica del trofeo, quando il maestro Pirazzoli è salito sul palco per porgerle il premio, la cantante – nel salutarlo affettuosamente – si è lasciata sfuggire una battuta sulla sua età: “Sei un po’ rincogl”, gli ha detto ridendo. La frase colloquiale, rivolta a un amico di vecchia data, ha creato un attimo di sorpresa divertita in platea, testimonianza dello spirito vivace di Iva anche in diretta televisiva.
L’esibizione: un medley di successi intramontabili
Dopo la premiazione, Iva Zanicchi ha incantato l’Ariston con la sua voce, dimostrando una volta di più la forza interpretativa che l’ha resa celebre. Su invito di Conti, ha proposto un medley dei suoi brani più amati, in particolare le tre canzoni con cui conquistò Sanremo negli anni ’60 e ’70. Dal palco sono risuonate le note di “Non pensare a me” (vincitrice nel 1967), “Zingara” (trionfo del 1969) e “Ciao cara come stai?” (primo posto nel 1974). L’artista ha accennato anche qualche altro motivo del suo repertorio e di colleghi a cui è legata: ad esempio ha intonato poche note de “L’arca di Noè” di Sergio Endrigo, omaggiando un grande della musica italiana che aveva condiviso con lei il palco in passato.
La performance ha messo in luce l’intonazione e la potenza vocale di Zanicchi, rimaste impressionanti nonostante l’età. La cantante, 85 anni compiuti a gennaio, ha dominato il palco con una presenza scenica energica “che ha più energia di alcuni giovani”, come notato ironicamente da commentatori in rete. La sua voce calda e inconfondibile ha suscitato grande nostalgia nei fan di lunga data e sorpresa nelle nuove generazioni, regalando al Festival uno dei momenti musicali più alti e celebrativi della serata.
Ovazioni del pubblico e applausi della critica
L’omaggio a Iva Zanicchi si è trasformato in una vera festa collettiva. Già al suo ingresso, il pubblico dell’Ariston l’ha accolta scandendo a gran voce il suo nome (“Iva, Iva, Iva!”) in un coro affettuoso. Al termine del medley, l’intera platea si è alzata in piedi tributando all’artista una calorosa standing ovation. È stato un tributo spontaneo e prolungato, con Zanicchi visibilmente commossa mentre stringeva al petto il premio appena ricevuto.
Le reazioni entusiaste non si sono limitate al teatro. Sui social network, durante e dopo l’esibizione, sono fioccati i commenti ammirati: molti utenti hanno celebrato la “voce incredibile che Iva ha ancora alla sua età”, lodando la sua grinta e la sua vocalità senza tempo. Tweet e post con l’hashtag #Zanicchi hanno sottolineato come l’artista ottantacinquenne abbia saputo tenere testa – in fatto di talento e carisma – a colleghi ben più giovani, ribadendo il suo status di icona amata da generazioni.
Anche la critica e gli addetti ai lavori hanno riconosciuto quello di Iva come uno dei momenti clou di Sanremo 2025. Nella sala stampa dell’Ariston, tradizionalmente severa, l’omaggio alla Zanicchi ha scatenato addirittura un’insolita ondata di entusiasmo: i giornalisti si sono lasciati andare a una “ola” collettiva mentre la cantante si esibiva, un fatto mai visto nelle serate precedenti. “Standing ovation anche per la Iva nazionale, icona del nazional-popolare”, ha titolato efficacemente un commentatore, a rimarcare il sentimento unanime di stima verso un pilastro della musica leggera italiana. Nel complesso, stampa e pubblico hanno concordato nel definire la premiazione di Iva Zanicchi come un momento storico e toccante del Festival, capace di unire generazioni davanti alla TV e di ricordare a tutti l’importanza della memoria musicale collettiva.
Un tributo alla carriera e alla storia della musica italiana
La serata del 13 febbraio non ha celebrato solo l’artista Iva Zanicchi ma anche il suo contributo indelebile alla cultura popolare italiana. Con oltre sei decenni di carriera, Zanicchi ha attraversato epoche e mode, restando sempre fedele a se stessa e conquistando successi in ambito musicale, televisivo e perfino politico. Le sue interpretazioni hanno segnato la storia del Festival di Sanremo – è l’unica cantante donna ad aver vinto tre edizioni, record che la iscrive nell’albo d’oro della manifestazione – e brani come “Zingara” o “Ciao cara come stai?” fanno parte del patrimonio della canzone italiana. Non a caso, questo Premio alla Carriera all’Ariston ha voluto riconoscere proprio l’impronta lasciata da Zanicchi nella musica italiana, celebrandone il timbro potente, la personalità vulcanica e la capacità di emozionare il grande pubblico attraverso le generazioni.
Sul palco, Iva stessa ha sottolineato il legame profondo con Sanremo, definendolo il luogo dove artisticamente è “nata” e cresciuta. “Qui c’è il cuore”, ha confessato parlando della città dei fiori, “è sempre molto emozionante tornare”. Sanremo per lei non è solo un palco. È casa. È vita. È quel posto che l’ha vista crescere, cambiare, diventare un pezzo di storia della musica italiana. Ma Iva non si è fermata lì. Negli anni ’70 e ’80 ha fatto cantare gli italiani in TV, li ha emozionati nelle loro case, ha portato la sua voce forte e vera ovunque. E non è finita lì: è stata anche all’Eurovision nel ‘69, ha calcato i teatri, ha scritto libri, ha persino vissuto un’esperienza in politica, sempre con quella grinta che la rende unica. Però, diciamocelo, la musica… la musica è sempre stata il suo cuore, la sua anima. E quello non l’ha mai tradito.
La celebrazione di Sanremo 2025 ha dunque suggellato un percorso artistico ricchissimo. Ma Iva Zanicchi guarda ancora avanti. Dopo aver spento 85 candeline il mese scorso, l’inarrestabile artista ha rivelato di avere nuovi progetti musicali in cantiere: “Sto preparando un nuovo album con brani del passato ma anche canzoni nuove, inedite”, ha confidato, a testimonianza di un entusiasmo creativo che non si è affievolito col tempo. La serata della premiazione si è conclusa tra applausi scroscianti, fiori e abbracci, con Iva che lascia il palco felice e visibilmente emozionata, ringraziando ancora una volta Sanremo – il palcoscenico dove tutto ebbe inizio – per averle regalato un’altra notte indimenticabile.
“Ci sono voci che non appartengono solo a chi le possiede ma a un intero popolo. Iva Zanicchi ha dato voce ai battiti del cuore di generazioni intere. E mentre la sua voce si alza ancora, vibrante e intensa, ci ricorda che la musica non ha età, ma solo emozioni da donare. Perché leggende come lei non si ascoltano soltanto: si sentono dentro, per sempre.” (Junior Cristarella)
Attualità
Gli Anelli del Potere 3, tutto quello che sappiamo sulla...

La passione per la Terra di Mezzo non si è mai veramente assopita, e sembra che il futuro ci riservi nuovi capitoli da scoprire. Ci siamo lasciati trascinare, negli ultimi anni, dalle vicende di “Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere” come se fossimo lì, in mezzo a elfi, nani e stregoni, annusando l’aria frizzante di boschi incantati. Ora, la notizia del rinnovo per una terza stagione ci ha fatto vibrare d’emozione: non è semplice curiosità, è un attaccamento viscerale a mondi in cui adoriamo perderci, pagina dopo pagina, episodio dopo episodio.
Un percorso già tracciato… e ancora da scrivere
A dire il vero, l’idea di realizzare fino a cinque stagioni aleggia da tempo. Patrick McKay e JD Payne, gli showrunner che hanno preso per mano la serie fin dal principio, non hanno mai nascosto l’ambizione di raccontare una storia davvero estesa. Con la conferma della terza stagione, ci avviciniamo ancora di più a quel disegno originario.
Ecco, però, una piccola puntualizzazione: secondo quanto riportato da Variety, la stanza degli sceneggiatori non si è ancora messa ufficialmente al lavoro. Nessuno, dunque, sta ancora scrivendo i copioni. Ma, stando alle voci che filtrano, McKay e Payne sono già in fermento creativo: idee, appunti, possibili snodi narrativi. Tutto è lì, in attesa di trovare forma e ritmo.
Un cambio di set che racconta l’evoluzione della serie
C’è sempre qualcosa di affascinante quando una produzione di questa portata decide di cambiare location. Prima erano i Bray Studios a fare da quartier generale, ora sembra che il testimone passerà agli Shepperton Studios, sempre in Regno Unito.
È un segno di crescita? Forse, o magari è solo la naturale evoluzione di un progetto che cerca spazi e strutture capaci di supportarne le ambizioni. Quel che ci rende entusiasti è la presunta data d’inizio riprese: primavera 2025.
Uno sguardo indietro: dove ci eravamo lasciati
È sempre utile fare un rapido tuffo nel passato, per capire come siamo arrivati fin qui. La prima stagione è atterrata su Prime Video il 2 settembre 2022, conquistando un pubblico vastissimo. La seconda, in arrivo il 29 agosto 2024, già promette di approfondire le dinamiche tra personaggi chiave come Galadriel, Elrond e il misterioso Straniero (che, stando a quanto è trapelato, scopre di essere Gandalf).
Il destino degli elfi e la sorte di Durin IV sembrano intrecciarsi a un’oscurità sempre più palpabile, mentre i pelopiedi – e tutti coloro che ruotano attorno a loro – potrebbero trovarsi di fronte a sfide inaspettate. Insomma, c’è moltissima carne al fuoco e la terza stagione arriva a rimestare ancor di più il calderone.
Produzione extra-large e tempi lunghi
Dai, diciamolo: tutti abbiamo la stessa domanda che ci gira in testa. Quando esce? Eh, bella domanda. Per ora, niente di ufficiale. Ma facendo due conti – la seconda stagione è finita nel 2024, le riprese della terza iniziano nel 2025 – il 2026 sembra un’opzione plausibile. Magari pure l’inizio del 2027. Sì, è un’attesa lunga, lo sappiamo.
Ma, oh, mica si può buttare su una roba del genere in fretta e furia! Effetti speciali pazzeschi, scenari da togliere il fiato, una storia che deve respirare e crescere. Insomma, ci tocca aspettare. Ma se l’attesa significa qualità, allora va bene così. L’importante è che quando arriverà, ci lascerà di nuovo senza fiato.
Dietro le quinte: registi e volti noti
Dietro ogni grande storia c’è sempre qualcuno che tira le fila, e stavolta tornano nomi che ormai conosciamo bene. Charlotte Brändström, che ha già lasciato il suo tocco nelle prime due stagioni, sarà di nuovo in cabina di regia, stavolta con un ruolo ancora più importante come executive producer. Accanto a lei, Sanaa Hamri, che già aveva diretto alcuni episodi della seconda stagione e Stefan Schwartz, pronto a fare il suo debutto in questo universo narrativo. Insomma, un mix di mani esperte e nuovi sguardi, il che può solo far bene.
E il cast? Ma dai, davvero ce li togliamo dalla testa Robert Aramayo (Elrond), Morfydd Clark (Galadriel), Cynthia Addai-Robinson (regina reggente Míriel) e Ismael Cruz Córdova (Arondir)? No, perché diciamocelo: li abbiamo seguiti, ci hanno fatto arrabbiare, emozionare, ci hanno strappato il cuore a pezzi e poi ce lo hanno ricucito. E ora, con tutto quello che hanno vissuto, con tutto quello che ci hanno fatto vivere… come si fa a immaginare il viaggio senza di loro? Hanno ancora troppe battaglie da combattere, troppi passi da fare, troppi dubbi da sciogliere.
Poi ci sono quelli che ci hanno sorpreso nel secondo capitolo: Rory Kinnear come Tom Bombadil, quel tipo fuori da ogni schema, Gabriel Akuwudike e Sara Zwangobani, che hanno saputo ritagliarsi il loro spazio. Nessuno ha detto niente di ufficiale, nessun contratto nero su bianco, ma certe storie non possono esistere senza i loro volti, le loro voci, il loro respiro.
E noi? Noi siamo qui, già pronti ad accoglierli. Perché certe storie restano addosso, ti si infilano dentro, e non puoi far altro che aspettare di ritrovare quei volti come vecchi amici che, finalmente, tornano a casa.
Nulla di certo su trailer ed episodi
Lo ammettiamo, un bel trailer adesso ci risolleverebbe l’umore, permettendoci di sbirciare nel futuro e anticipare le emozioni in arrivo. Ma non è ancora il momento. Nessun teaser, nulla di tangibile e ci mancherebbe: le riprese non sono nemmeno iniziate. Quanto al numero degli episodi, le prime due stagioni ne hanno proposti otto ciascuna, quindi c’è da aspettarsi un formato simile, ma l’ufficialità scarseggia. Meglio, forse, non correre dietro a indiscrezioni sprovviste di basi concrete.
Un approdo globale su Prime Video
Resta, invece, una certezza: la prossima stagione verrà distribuita su Prime Video in oltre 240 Paesi. Un bacino impressionante che racconta la portata globale di quest’avventura. È incredibile come un racconto ambientato in un mondo di fantasia continui a unire persone di culture e lingue differenti, tutte accomunate dal desiderio di vedere come prosegue il viaggio di elfi, umani, nani e hobbit. Eppure, è proprio questa la magia di Tolkien e di chi oggi cerca di onorarlo attraverso una serie che ne riprende i temi, i personaggi, le paure e le speranze.
La strada che conduce alla terza stagione potrebbe essere lunga e incerta, ma non ci spaventa. In fondo, fa parte della meraviglia di chi ama seguire una saga: attendere, sperare, discutere tra amici e immaginare come si incastreranno i pezzi di un mosaico tanto vasto. E allora, continuiamo a tenere gli occhi puntati sugli aggiornamenti, pronti a gettarci – ancora una volta – nel cuore della Terra di Mezzo appena quel grande portale si riaprirà. Nel frattempo, possiamo solo custodire l’entusiasmo e lasciare che la curiosità ci guidi. Un po’ come fanno gli hobbit quando si avventurano oltre i confini della Contea.