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Lavorare troppo a 20 anni e ritrovarsi depressi a 50: i...
Lavorare troppo a 20 anni e ritrovarsi depressi a 50: i risultati dello studio di Wen-Jui Han
Lavora tanto, fai gli straordinari, vai a dormire tardi finché sei giovane. Quante volte vi siete sentiti dire o dite voi stessi questa frase? Il ragionamento è semplice: bisogna sfruttare l’energia della gioventù per dare un boost alla propria carriera e assicurarsi un futuro più tranquillo in vecchiaia, quando sarà impossibile tenere certi ritmi.
Semplice, ma non logico. Secondo un recente studio guidato da Wen-Jui Han, professoressa della NYU Silver School of Social Work e pubblicato su PLOS One, lavorare troppo da giovani aumenta esponenzialmente il rischio di cadere in depressione e avere una cattiva salute già nella mezza età, intorno ai 50 anni.
Già la genesi dello studio è emblematica: dopo aver abbracciato per anni la mentalità della cultura della fretta e della produttività a tutti i costi, a 40 anni il medico curante di Han le ha detto che aveva l’età biologica di un sessantenne. Da allora, la ricercatrice esperta nel campo della sociologia e dello sviluppo della psiche ha deciso di approfondire questa tematica. Ne è emerso uno studio che rivela come i ritmi estenuanti e il lavorare fino a tarda notte abbiano ricadute negative sulla salute dei lavoratori quando hanno ancora tanti anni di vita davanti.
Dal lavoro standard al lavoro senza orari
Partiamo dalla fine, dalle conclusioni del rapporto dove si evidenzia una relazione diretta tra l’aumento della produttività e il sorgere di problemi di salute soprattutto per gli individui con orari di lavoro “non standard”.
I ricercatori hanno evidenziato che dagli anni Ottanta, l’occupazione è stata modellata dai progressi tecnologici e digitali globali, insieme all’ascesa e al predominio dell’economia dei servizi. “Questi cambiamenti – si legge nel rapporto – hanno prodotto conseguenze indesiderabili sulla salute, inclusa l’interruzione della nostra routine del sonno, un aspetto della nostra vita quotidiana fondamentale per preservare la nostra salute”, come abbiamo già sottolineato nel nostro articolo dedicato al fenomeno dell’early night.
Lo studio guidato dalla prof.ssa Wen-Jui Han ha fondamenta solide, basandosi sull’analisi degli orari di lavoro e delle condizioni di salute di 7.336 lavoratori americani nell’arco di trent’anni. Ne è emerso che solo un quarto dei partecipanti lavorava con orari diurni regolari.
Nello specifico, è stato definito orario di lavoro “standard” il lavoro che inizia alle 6.00 o più tardi e termina alle 18.00, “serale” il lavoro che inizia alle 14 o più tardi e termina entro mezzanotte, “notturno” il lavoro che inizia alle 21 o più tardi e con termine entro le 8. Una particolare criticità è emersa anche per chi lavora a turni, definito orario “variabile” nell’indagine, ovvero se il partecipante ha avuto turni o orari irregolari.
I risultati dello studio
L’indagine trentennale offre un confronto dettagliato tra i vari scenari. Prima di entrare nel dettaglio, segnaliamo che le evidenze su problemi di salute fisica e/o mentale sono stati intercettati tramite le interviste ai lavoratori tra i 22 e i 49 anni. In pratica, si è chiesto ai lavoratori stessi come si sentissero, soprattutto in relazione agli stati di ansia e depressione.
I lavoratori con orari di lavoro variabili o non standard hanno testimoniato conseguenze negative su:
– quantità e qualità del sonno;
– funzionalità fisiche e mentali;
– cattive condizioni di salute o sintomi depressivi.
Queste conseguenze sono state testimoniate anche tra i lavoratori che hanno iniziato la propria carriera con orari di lavoro standard ma sono poi passati a orari “volatili” dopo i 30 anni. Anche in questi casi è stato testimoniato un cattivo stato di salute già all’età di 50 anni.
Ci sono poi di modelli occupazionali che prevedono orari standard ma con alcune ore variabili. Qui, i lavoratori testimoniano risultati significativamente peggiori in relazione al sonno e alla salute, ma rispetto ai lavoratori per cui l’orario variabile è (o è diventato) una regola, questi lavoratori non riferiscono conseguenze significative sulla funzionalità mentale.
Qualche riflessione nell’era della great resignation
I risultati di questo studio emergono in un momento storico particolare, caratterizzato dall’acuirsi della forbice sociale tra ricchi e poveri e dal fenomeno della great resignation. Sempre più persone preferiscono dare rilevanza alla propria salute prima che all’inquadramento lavorativo. Un recente report, frutto della collaborazione tra la piattaforma digitale Hacking Talents e Factanza Media, ha rilevato che il bisogno principale di Millenials e Gen Z è quello di instaurare relazioni autentiche ed empatiche all’interno dell’ambiente lavorativo, che favoriscano l’ascolto e la libertà di esprimersi.
Il report evidenzia che solo il 15% delle persone intervistate si sente completamente libera di esprimere la propria opinione sul lavoro, mentre il 64% dichiara di sperimentare stress quotidiano sul luogo di lavoro. Una situazione allarmante: “Quando il lavoro diventa un fattore di stress quotidiano, quelle viste nel report sono le conseguenze che ci si può aspettare 30 anni dopo”, spiega la professoressa Han.
Il tutto mentre le relazioni umane assumono un ruolo prioritario tra i giovani lavoratori, con la necessità di creare legami autentici ed empatici con i colleghi per favorire un ambiente lavorativo sostenibile. Insomma, il lavoro non è più visto come il focus principale, ma come un mezzo di crescita economica e professionale. L’idea sempre più frequente tra i giovani è che la vera vita sia altrove, fuori dal lavoro.
Certo, per qualcuno una buona retribuzione può ancora far chiudere un occhio, anche se questo non ha alcuna conseguenza benefica sulla salute. In ogni caso, difficilmente questo qualcuno lavora in Italia dove gli stipendi sono immobili da trent’anni acuendo la distanza tra imprese e dipendenti.
Non è solo una questione di salute
Ascoltare le richieste dei nuovi lavoratori non è solo una necessità etica per la loro salute. Lo studio condotto da Wen-Jui Han dimostra che ad un aumento dei sintomi depressivi corrisponde una diminuzione della produttività, altro tasto dolente del sistema Italia.
Dunque, i risultati suggeriscono che i modelli occupazionali che prevedono orari di lavoro non standard o variabili possono avere un impatto negativo sulla salute e sul benessere dei lavoratori, e che i datori di lavoro dovrebbero considerare l’impatto dei loro modelli occupazionali sulla salute e sul benessere dei propri dipendenti.
Ma allora perché si continua a lavorare con ritmi che il nostro organismo si rifiuta di assecondare? Per l’estrema competitività del sistema, che tenderà ad aumentare con l’enorme crescita demografica prevista a livello globale.
“Percepiscono che la cultura del loro lavoro richiede che lavorino a lungo, altrimenti potrebbero essere penalizzati”, spiega Han che aggiunge laconicamente: “Il lavoro dovrebbe permetterci di accumulare risorse, ma per molte persone questo non accade, rendendole al contrario più infelici nel tempo”. Dopo 30 anni di studio e a fronte dei lampanti risultati emersi ci sarebbero diverse frasi da poter citare della curatrice dello studio, una su tutte: “Il nostro lavoro oggi ci rende malati e poveri”.
Sia chiaro: non lavorare non è la soluzione. Il rapporto evidenzia che a chi non lavora o lavora/ha lavorato poco è associato una probabilità significativamente più elevata di cattive condizioni di salute e una funzionalità fisica significativamente inferiore rispetto ai lavoratori.
Dai romani a Lenny Kravitz
Forse la soluzione sarebbe tornare ai classici e a quell’“In medio stat virtus”, tanto caro ai romani quando la produzione non era un’ossessione e c’era ancora del tempo da dedicare sé stessi, alla filosofia, allo stare in piazza con gli altri consociati interrogandosi sui problemi concreti e sulle domande più esistenziali.
Negli ultimi decenni, invece, l’equilibrio è silenziosamente passato in secondo piano fino a scomparire nelle vite di miliardi di persone e il consiglio dei romani diventa una domanda nervosa, energica, tristemente senza risposta: “Where are we running?”, “Dove stiamo correndo”?
Difficile dirlo, mentre le parole di Lenny Kravitz risuonano nelle nostre teste: “We need some time to clear our heads. Where are we runnin’? Keep on working ‘til we’re dead”, “Abbiamo bisogno di rifrescare le nostre teste. Dove stiamo correndo? Lavoriamo fin quando non siamo morti”.
A noi il compito di dar vita a un’altra risposta, prima che diventi troppo tardi.
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Due milioni di dollari all’anno per tornare giovane, la...
Cosa fareste se ogni anno vi avanzassero 2 milioni di dollari? Comprereste una mega villa al mare? Mandereste a quel paese il capo e vi trasferireste sulla famosa spiaggia in Messico? Beh, forse dovreste rivedere le vostre priorità. Potreste piuttosto investirli nella routine per la longevità messa a punto da Bryan Johnson, 47 enne ‘guru del tech’ multimilionario con un chiodo fisso in testa: tornare ad avere il corpo di un 18enne. E che per farlo spende, appunto, 2 mln di dollari all’anno.
Curiosi di sapere in cosa mai consisterà questa costosa e miracolosa (forse) routine? È presto detto.
Il protocollo BluePrint: la giornata-tipo
L’innovativo, diciamo così, protocollo, che si chiama BluePrint, prevede in sintesi una dieta vegana di 2250 calorie assunte nell’arco di sei ore, 1 ora al giorno di ginnastica, 111 integratori, una routine del sonno molto rigida, trasfusioni di sangue da adolescenti, tra cui il figlio di Johnson, monitoraggi e test continui dei vari parametri corporei. Ma andiamo a scoprire nel dettaglio questo protocollo, se vi venisse voglia di seguirlo.
Appena alzato, Johnson procede con la colazione: all’inizio prevedeva di farla bevendo alcol, ma poi ha smesso perché erano troppe calorie inutili. Perciò ha cominciato a bere un succo spremuto a freddo che chiama il “gigante verde”, insieme a 60 pillole. La sua posizione è molto chiara: “Ogni caloria deve lottare per la sua vita“, ha spiegato al podcast ‘The Diary of a CEO’, aggiungendo: “Non c’è una sola caloria in tutto il mio protocollo di vita che esista per qualsiasi motivo diverso dal servire un obiettivo nel corpo”. Johnson ha anche detto che mangia circa 31 kg di verdure al mese. Chissà cosa ne pensa il nutrizionista, ce ne sarà pur uno tra gli oltre 30 medici ed esperti che lo seguono…
Dopodiché si allena per un’ora, poi mangia un pasto ‘super vegetariano’ a base di broccoli, cavolfiori, zenzero, semi di canapa, cioccolato fondente, arricchito da un cucchiaio di olio extra vergine di oliva (ne ha addirittura tre a disposizione ogni giorno). Quanto al cioccolato, deve essere “fondente, non olandese, testato per i metalli pesanti e con un alto numero di polifenoli”, ha detto Johnson al New York Post.
Ma il guru si tratta bene, ed ecco dunque che a metà mattina si concede un dessert, il ‘budino di nocciole’: un mix di noci di macadamia, noci, semi di lino, succo di melograno, cioccolato e frutti di bosco. E un’ora dopo, consuma il suo terzo e ultimo pasto delle 24 ore. Alle 11 in pratica smette di mangiare, se ne riparla la mattina dopo.
Ad ogni modo, a fine giornata gli integratori ingurgitati sono 111, un cocktail che dovrebbe riportare i suoi organi – tra cui cervello, fegato, reni, pene e retto – ma anche denti e pelle, a funzionare come da adolescente.
Johnson ha anche una sua routine notturna: prima di andare a dormire, indossa occhiali che bloccano la luce blu (questo è in effetti un dispositivo normalmente in vendita, anche se è ancora da capire quanto serva realmente). E poi, mentre dorme, è collegato a una macchina che conta il numero di erezioni notturne.
Monitoraggi continui e radiazioni in eccesso
Il protocollo BluePrint stabilisce infatti il monitoraggio costante dei parametri corporei, tra cui peso, indice di massa corporea, grasso corporeo, livelli di glucosio nel sangue, frequenza cardiaca e qualsiasi cosa i moderni dispositivi ‘wearable’ consentano di misurare. Previsti anche continui esami medici quali ecografie, risonanze magnetiche (quindi incamerando quantitativi di radiazioni inutili che bene bene non fanno), colonscopie ed esami del sangue.
Ciliegina sulla torta (di cioccolato olandese e macadamia, ovviamente), il protocollo prevedeva delle trasfusioni dal figlio diciottenne, che ha donato il sangue a Johnson mentre lo stesso Johnson lo donava al padre settantenne. Un triplo scambio di sangue tra generazioni che però non sembrerebbe aver dato risultati tali da far continuare su questa strada. C’è da dire che, se non altro, si tratta di un passo avanti rispetto alla folle idea di Erzsébet Báthory, la contessa ungherese vissuta a fine 1500 la quale, anch’essa ossessionata dal mito dell’eterna giovinezza, ha ucciso centinaia di giovani per fare il bagno nel loro sangue e in questo modo non invecchiare mai.
Even my Face ID is confused. I’m transitioning… pic.twitter.com/6AU5mtU5j6
— Bryan Johnson /dd (@bryan_johnson) April 9, 2024
BluePrint tra ‘scienza’ e marketing
A questo punto la domanda sorge spontanea: questi 2 milioni di dollari all’anno, sono ben spesi? Insomma, BluePrint funziona o no?
Johnson, che si definisce “esploratore delle nuove frontiere dell’essere umano”, è arrivato questa routine per la longevità dopo un decennio di depressione cronica e scarso controllo sulla propria vita; tutti fattori, si è reso conto, che avevano influito negativamente a 360 gradi sul suo benessere. Quindi bisognava reagire, e lui lo ha fatto a modo suo.
Ora, se dovessimo giudicare dalle foto, onestamente rimarremmo un po’ perplessi. Ma il punto centrale del protocollo è che si basa su dati e misurazioni, quindi su un approccio di tipo ‘scientifico’, almeno in teoria, e non solo su una semplice dieta o un programma di attività fisica. Occorre perciò guardare i numeri.
Qualcuno ha provato a replicare il protocollo, ovviamente adattandolo alle proprie possibilità. Come riporta il New York Post, il 23enne Andrew Boyd ha testato il metodo BluePrint per 75 giorni. Ebbene, dopo un mese e mezzo il ragazzo ha sostenuto che la sua età biologica fosse scesa a 19,2 anni. Dal canto suo, anche Johnson sostiene che funzioni: tra le altre cose, dice che 100 marcatori risulterebbero più bassi rispetto all’età che si possiede e che mediamente in 500 giorni si possa ringiovanire di 12 anni.
Quello che, presumiamo, funziona molto bene, è il business sorto attorno a tutto ciò (non dimentichiamo che Johnson è un imprenditore, diventato milionario intorno ai 30 anni quando ha venduto la sua società di elaborazione dei pagamenti Braintree Payment Solutions a EBay per 800 milioni di dollari). Sul suo sito, Johnson vende infatti vari prodotti, dall’olio al cacao, dagli integratori al merchandising (magliette, felpe) fino a uno ‘starter kit’ in arrivo per chi volesse cimentarsi nell’operazione giovinezza. A prezzi calmierati, si spera.
In ogni caso, costi a parte, BluePrint sembra davvero molto faticoso da seguire, anche considerando le probabili ripercussioni sociali di un regime così particolare e così rigido. Forse è meglio guardare ai consigli più accessibili e di maggior buon senso di Gwyneth Paltrow, la quale recentemente si è espressa su come invecchiare in salute.
Ma siamo evidentemente su piani diversi (ringiovanire/invecchiare bene), mentre Jonhson sta spostando l’asticella ancora più in là. Dice sul suo X: “Death is now our only foe”, ovvero ‘La morte è ora la nostra unica nemica’. E come tale va sconfitta: ‘Don’t die’. ‘Non morire’, è il suo pacato invito, ed è anche il titolo di un suo libro in cui presenta le strategie sociali e filosofiche necessarie per gabbare la nera signora, sia individualmente che come specie.
Probabilmente, la nuova frontiera e il nuovo imperativo della società della performance.
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Denatalità, Sistema sanitario nazionale a rischio: analisi...
“Guardare al Giappone per le politiche sugli anziani e alla Francia per quelle per i giovani”. Questo è quello che propone Walter Ricciardi, docente di Igiene all’Università Cattolica di Roma, in un’intervista all’Adnkronos Salute. A poche settimane dagli Stati generali della natalità 2024, in programma a Roma il 9 e 10 maggio, una riflessione su quello che sta succedendo sul piano demografico in Italia è necessaria anche in relazione ad un “irreversibile declino quantitativo della popolazione” che riguarderà “la sostenibilità di un sistema sanitario pubblico”, le cui conseguenze si prevedono essere “catastrofiche”. Dello stesso pare è Antonello Maruotti, ordinario di Statistica all’Università Lumsa, la preoccupazione cresce: vediamo insieme analisi e previsioni.
“Necessarie misure emergenziali”
A parlare sono i numeri: nel 2050 ci sarà 1 giovani per ogni 3 anziani. Questo apporterà delle conseguenze a sistemi di welfare, compreso quello sanitario. “Qualsiasi Paese prenderebbe misure emergenziali – sostiene il dott. Ricciardi -. Invece concrete iniziative politiche non se ne vedono da noi. Di fatto la famiglia è lasciata sola”. Ma non è così dappertutto, “basterebbe vedere le politiche sociali fatte dai Paesi del Nord Europa”, aggiunge Ricciardi, ribadendo che il fenomeno in Italia “ormai è irreversibile, ma serve mettere mano rapidamente almeno ad azioni per la mitigazione delle conseguenze. In particolare, sostenendo le famiglie, ma con politiche serie complessive: da una parte bisogna incentivare la natalità, dall’altra bisogna mettere in moto dei meccanismi, per esempio di gestione dell’immigrazione”.
La combinazione che mette più a rischio questo tipo di comparto, secondo il dottore, è quella tra fiscalità, demografia e epidemiologia. “L’unico Paese comparabile all’Italia, per l’invecchiamento della popolazione, è il Giappone, ma quel Paese sta combattendo il problema sia con una grande rivoluzione tecnologica, sia con una grande prioritarizzazione dei servizi sociali. Dovremmo guardare al Giappone per quanto riguarda le politiche per gli anziani e alla Francia per le politiche per i giovani e le nuove famiglie“.
Invecchiamento della popolazione
Sulla stessa linea d’onda è l’analisi di Antonello Maruotti, ordinario di Statistica all’Università Lumsa, che all’Adnkronos Salute ha ribadito: “Una famiglia con un over 75 ha un rischio più alto di andare incontro a spese catastrofiche”. L’invecchiamento della popolazione, infatti, è tra le principali cause del presagio negativo che si preannuncia.
Un’Italia con sempre meno figli e una popolazione anziana che aumenta, “avrà un peso determinante sul welfare, ma soprattutto sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale. Quello che oggi conosciamo non reggerà all’impatto e sarà necessario il contributo dell’assistenza complementare che dovrà sopperire alle carenze del Ssn che già oggi è in difficoltà con le liste d’attesa e in futuro dovrà aumentare i servizi del 30-40% per dare una risposta ad una popolazione prevalentemente anziana, si spera in buona salute, ma con malattie croniche”.
“Recentemente abbiamo pubblicato un’analisi sull’impatto delle spese sanitarie delle famiglie quando nel nucleo c’è un over 75 – ha ricordato Maruotti – Esce un quadro molto allarmate: chi ha un anziano a casa ha il 50% di rischio in più di andare incontro a ‘spese catastrofiche’ rispetto – a parità di tutte le altre condizioni – di chi non ne ha. Vuol dire che una fetta importante delle spese mensili per curarsi, al netto di quelle alimentari, vanno sull’assistenza sanitaria”.
Un altro dato sul quale Maruotti ha posto l’attenzione è il rischio d’impoverimento di queste famiglie che, “spendendo di più ‘out of pocket’ per le cure – continua lo statistico – potrebbero scendere sotto la soglia di povertà e questo poi porta a cambiare le abitudini alimentari con evidenti ripercussioni sulla qualità della vita e sul rischio di ammalarsi”.
C’è poi anche un altro fronte: l’indice di diseguaglianza generazionale. Secondo dati Oecd, per ogni euro in welfare per i giovani “ne diamo sette per gli anziani, questo non fa che aumentare il divario tra generazioni”, avverte Maruotti. Come si dovrebbe intervenire per rimettere in equilibrio il sistema?
“Con un welfare più forte, l’assegno unico per i figli indipendente dall’Isee – risponde l’esperto – mettere i giovani in condizioni di fare i figli aiutandoli con asili nido, flessibilità al lavoro. I miei colleghi in Norvegia e in Germania fanno figli, mentre qui in Italia è sempre più difficile. L’Italia sta vivendo un declino demografico e non possiamo far finta che questo non avrà, anzi già ha, un effetto sull’economia e la società”.
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Siamo sempre più miopi, sempre prima: sotto accusa...
“Non stare troppo davanti alla televisione, non leggere troppo! Ché ti si rovina la vista!” Le nonne avevano -e hanno – ragione. Siamo sempre più miopi, sempre prima. È una vera epidemia quella di questo difetto della vista, che rende difficile o impossibile vedere da lontano e che può diventare un serio problema non solo nel quotidiano ma anche nelle scelte di vita, ad esempio quelle che riguardano il lavoro. Molte occupazioni, infatti, richiedono i famosi 10/10 posseduti da un occhio sano, quindi chi è miope ne è escluso a priori.
Inoltre, e forse questa è una cosa meno conosciuta, oltre le cinque diottrie in meno la miopia si associa a una maggiore incidenza di glaucoma e cataratta e a una maggiore frequenza di distacco della retina, un evento grave che è una delle cause più diffuse di perdita della vista. Secondo uno studio statunitense – pubblicato su ‘Scientific Reports’ – effettuato su oltre 85 milioni di persone, chi ha una miopia elevata il rischio di distacco retinico cresce di 39 volte, nei miopi più lievi è comunque triplo rispetto alla norma. Senza contare infine l’ansia e il disagio che derivano dal vedere male, più o meno sfocato, il mondo intorno a noi: un aspetto questo a volte sottovalutato ma da tenere invece presente.
Cos’è la miopia e quali sono i sintomi
La miopia è il difetto della vista più diffuso: il soggetto vede bene da vicino ma tutto sfocato, in modo più o meno accentuato, da lontano. La causa è un difetto nella rifrazione della luce, che cade su un piano posto davanti alla retina invece che dietro.
Diversi i motivi per cui può accadere ciò:
• bulbo oculare più lungo del normale
• curvatura della cornea o del cristallino maggiore della norma
• eccessivo potere di rifrazione del cristallino
• genetica
• traumi
• farmaci o condizioni cliniche come l’iperglicemia
• stili di vita errati
Quali sono invece i sintomi della miopia?
• visione sfocata guardando lontano
• necessità di strizzare gli occhi per ‘mettere a fuoco’
• col buio il disturbo peggiora
• affaticamento degli occhi con conseguenti mal di testa, bruciori e fastidi di vario genere
Una ‘miopidemia’
Si stima che nel mondo 2,6 miliardi di persone soffrano di questo difetto della vista, il 30% della popolazione europea. Ma la cosa ancora più preoccupante è che se attualmente è miope un under 14 su 3, nel 2050 lo sarà 1 su 2. In pratica è in corso una ‘miopidemia’, ovvero un’epidemia di miopia, come la chiama Paolo Nucci, docente di Oculistica all’università Statale di Milano, che lo ha ribadito recentemente alla conferenza di presentazione del III congresso nazionale della Società italiana di scienze oftalmologiche (Siso) che si è svolta a Roma.
Continua Nucci: “Oggi si stima che il 30-35% dei ragazzi sia miope. Negli ultimi dieci anni il numero dei bambini e degli adolescenti che vede male da lontano è raddoppiato, con una accelerazione improvvisa negli ultimi due anni”.
Ma quali sono le cause di questa impennata?
Le abitudini moderne rovinano la vista
Sembra che la colpa della miopidemia siano alcune abitudini sviluppate dalle civiltà contemporanee, ma anche conquiste come l’istruzione per tutti. “A far male ovviamente è passare troppo tempo concentrati su libri e video, e stare pochissimo all’aperto“, spiega in modo chiaro Nucci. Quindi, sul banco degli imputati c’è anche lo studio, che costringe a leggere per molto tempo.
Ma se questa non è certamente qualcosa su cui si possa tornare indietro, il discorso è ben diverso per quanto riguarda il telefonino, il cui uso si protrae per ore e ore e oltretutto a distanza ravvicinatissima (il che causa anche problemi di postura, costringendo il collo e la testa sempre piegati in giù), o la tv. Ridurre il tempo passato davanti alla televisione, al tablet o al telefonino fa bene da qualsiasi punto di vista, e sarebbe sicuramente possibile farlo visto che spesso si tratta di attività inutili o addirittura dannose. E quindi rinunciabili.
Come contrastare la miopia
Per contrastare la miopia, la soluzione degli oculisti è molto semplice (ma non facile, a quanto pare):
• innanzitutto, è fondamentale stare all’aria aperta, in modo che gli occhi si sforzino meno perché devono guardare lontano e non sono costretti all’iperaccomodazione come accade davanti a un display. Altro vantaggio dell’abbandonare le 4 mura di casa: i raggi del sole stimolano la produzione di dopamina, sostanza in grado di inibire le metalloproteasi, un enzima che rendendo la sclera più elastica favorisce l’allungamento del bulbo oculare e la miopia
• fare sport, sempre per agevolare lo sguardo da lontano. Ideale il tanto amato calcio
• screeening obbligatori a partire dai tre anni
• scuole che stimolino le attività all’aria aperta
• un più largo uso di terapie, ottiche e farmacologiche in grado di frenare l’evoluzione della patologia. A tal proposito specifica Scipione Rossi, segretario Siso e direttore dell’Unità complessa di Oculistica dell’ospedale S. Carlo di Nancy di Roma: “Quando la prevenzione e i comportamenti adatti a evitare l’insorgere della miopia o il suo peggioramento non bastano possiamo ricorrere a speciali lenti da occhiale che servono per bloccare la progressione della miopia: in associazione a un collirio a base di atropina molto diluita possono bloccarne la progressione e – in qualche caso – anche bloccarla. Ma se non si fa nulla, se il difetto non viene scoperto e curato, diventerà miopia degli adulti, con tutti i costi sociali che comporta”
• e per tutti coloro che lavorano al computer, rimane sempre valido il consiglio di fare un quarto d’ora di pausa ogni ora. Se proprio non è possibile, almeno staccare gli occhi dallo schermo per 20 secondi guardando un punto lontano.
Un ultimo aspetto sottolineato dagli esperti riguarda le politiche sanitarie: “Noi oculisti sappiamo cosa sta succedendo. Ma assurdamente non abbiamo dati precisi sull’impennata di miopia infantile, perché nel nostro Paese, e in tutta Europa, non esiste un sistema di sorveglianza epidemiologica del disturbo. Il che è grave, perché finché non si hanno le dimensioni del fenomeno si tende a sottovalutarlo e a non mettere in atto contromisure”, conclude Nucci.