Da domenica 6 Dicembre riparte “Casa Pagani”
Da stasera, domenica 6 Dicembre alle ore 21, riparte Casa Pagani con la seconda stagione: si tratta di un format in onda su YouTube ideato e prodotto da Futura Management e ATOM Production e condotto da Ludovica Pagani.
Per entrare più nello specifico, verranno pubblicate otto puntate, una ogni due domenica a partire da oggi: Ludovica Pagani intervisterà celebrità del mondo dello spettacolo, del web e della musica. Avremo quindi mondo di scoprire i loro progetti in ambito lavorativo e personale, il tutto in chiave ironica e divertente.
“Sono felice di essere tornata nel mio ‘salotto’ per intrattenere il pubblico con interviste fuori dagli schemi e sketch divertenti. In questa seconda edizione ci saranno molte novità. Una di queste sarà l’asta benefica a favore della Lega Italiana per la Lotta contro il Tumore al Seno: tutti coloro che parteciperanno alla mia trasmissione, doneranno qualcosa di personale che verrà poi messo all’asta e il ricavato verrà devoluto all’associazione”, dichiara in una nota la conduttrice.
Nella prima puntata l’ospite d’onore sarà Mara Maionchi, produttrice discografica, personaggio televisivo, conduttrice radiofonica e talent scout italiana. La Maionchi ha svelato, nel corso dell’intervista, alcuni retroscena del suo lavoro senza nascondere le difficoltà e i pregiudizi che ancora oggi colpiscono le donne che desiderano fare carriera. Con l’ironia che la contraddistingue ha risposto anche alle domande più irriverenti di Ludovica, come ad esempio ‘sesso occasionale, pro o contro?’. Si toccherà anche un altro tema molto importante: la produttrice ha combattuto – e vinto – una lotta contro il cancro al seno ed ha parlato della sua esperienza, sottolineando l’importanza della prevenzione, offrendo per l’asta di Casa Pagani una giacca di pelle dorata.
In questo primo episodio saranno altri due gli ospiti: Maurizio Merluzzo, doppiatore, youtuber e attore, e Favij, pseudonimo di Lorenzo Ostuni, uno tra i creator più seguiti su YouTube.
Sarà possibile seguire la trasmissione sul canale ufficiale su YouTube, ma anche nelle metropolitane e negli aeroporti di tutta Italia. Per quanto riguarda gli sponsor che hanno contribuito alla realizzazione del progetto, si ringraziano: THD, Guess, Desenio e Sharing Box.

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Intrattenimento
La rinascita del kung fu in Italia: Gabriele Mainetti riscrive le regole dell’azione

Non è spuntato all’improvviso un gigantesco cartellone con luci al neon per annunciare il grande evento, e non c’è stato un colpo di gong a scuotere il quartiere. Eppure, qualcosina si è mosso tra le vie del nostro cinema. Avete presente quella sensazione che si prova quando, nel bel mezzo di una cena con amici, qualcuno tira fuori un progetto che sembra assurdo e vi trovate a pensare: “Però… magari funziona davvero”? Ecco, l’arrivo de “La città proibita” di Gabriele Mainetti sembra proprio incarnare quell’entusiasmo. Uno slancio che unisce il fascino del kung fu, l’immaginario orientale, i grandi richiami di Hollywood e un’irriducibile impronta italiana.
È una scommessa che non ti aspetti. L’Italia, dopotutto, non è famosa per le arti marziali in sala. Siamo tradizionalmente associati ad altri generi: la commedia, il dramma autoriale, forse un pizzico di horror d’antan. E adesso? Sembra che Mainetti abbia deciso di confondere le carte, di lanciarsi su un terreno complicato e di provare a cucire insieme mondi apparentemente lontanissimi.
Quando il kung fu parla in italiano
Molti di noi, sentendo parlare di calci volanti, pensano subito a Hong Kong, Bruce Lee, Jackie Chan, magari a qualche scena girata con uno stile frenetico e coreografie impeccabili. Nessuno si sarebbe immaginato che, un giorno, si sarebbe tentato di innestare tutto ciò in una storia che profuma di vicoli italiani, di personaggi veraci, di quell’ironia un po’ pungente che ci fa sentire a casa. Invece, “La città proibita” lo fa sul serio.
Se vi state domandando come sia stata possibile un’impresa simile, sappiate che dietro c’è un lavoro maniacale. Mainetti, forte di esperienze precedenti che già mostravano un gusto per i progetti fuori dai sentieri più battuti, ha contattato esperti del settore per allenare gli attori e strutturare le scene d’azione. Ha coinvolto lo stunt coordinator Lian Yang (noto per aver collaborato a progetti come Deadpool & Wolverine), portando in Italia quella competenza necessaria a realizzare combattimenti spettacolari, a trasformare le scene di lotta in veri e propri momenti drammaturgici.
Il bello è che questa volta, oltre alle mosse di arti marziali, c’è la volontà di inserire dettagli tipicamente nostri: quel sapore di realismo mediterraneo, i dialoghi impregnati di battute fulminanti, la passione che trasuda anche dal più piccolo personaggio di contorno. Il mix di oriente e occidente non è un semplice abbellimento, ma una vera fusione di codici: da un lato la tensione e la precisione tecnica del cinema di arti marziali, dall’altro il calore e l’improvvisazione dell’italianità.
Ricordando i pionieri
Non è la prima volta che il kung fu atterra sul nostro territorio. Chi è cresciuto a pane e film di arti marziali forse ricorda L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, in cui Bruce Lee scambiava calci proprio nei pressi del Colosseo. Già allora si percepiva un senso di straniamento, come se il maestoso anfiteatro non appartenesse più solo alla tradizione occidentale. In “La città proibita”, però, non si tratta di un cameo o di un semplice momento suggestivo. È il cuore stesso del racconto a battere con un ritmo diverso, collegando il DNA italiano all’estetica del combattimento.
Forse è un omaggio, magari un’eredità ripresa da Bruce Lee e poi rielaborata nel tempo. Oggi, registi come John Woo, Jackie Chan, ma anche figure più recenti come Chad Stahelski o Gareth Evans, hanno sdoganato l’idea che l’action possa essere raccontato in mille sfumature diverse, sovrapponendo culture distanti. Se siamo onesti, questa contaminazione ci affascina da sempre. E Mainetti è riuscito a declinarla in modo singolare, quasi fosse un assolo jazz su un tema classico: parte dalle regole del gongfupian ma poi le piega a una narrazione molto più vicina al nostro vissuto.
La sfida economica e la posta in gioco
Per tirare su un film che unisca arti marziali e scenari italiani, ci vogliono quattrini e coraggio. Non è un segreto: i combattimenti ben coreografati richiedono professionisti altamente specializzati, e una produzione che voglia sembrare competitiva con le grandi case americane deve investire non poco in effetti speciali, scenografie e sicurezza sul set.
In Italia, non tutti sono disposti a rischiare: c’è sempre la solita voce di corridoio che dice “da noi, un film di genere non funziona”. Eppure, siamo sempre stati abili nel reinventare i canoni internazionali. Pensiamo allo spaghetti western: partiva da una tradizione statunitense e ha finito per imporsi come fenomeno assoluto, con Sergio Leone a fare da pioniere. Anche qui, l’idea potrebbe sembrare ardita: cucire il western nel nostro tessuto cinematografico. E invece ha funzionato, diventando un marchio di fabbrica.
Con “La città proibita”, ci si chiede se accadrà qualcosa di simile. C’è chi dice che sarà un exploit fugace, chi invece lo vede come un apripista per nuove produzioni. In entrambi i casi, è innegabile che il progetto smuova un bel po’ di curiosità, perché spinge l’immaginario collettivo a immaginare un’altra strada, una commistione che nessuno si aspettava e che potrebbe far scattare una scintilla nei produttori più avventurosi.
L’azione come linguaggio narrativo
Non è solo questione di pugni e calci, intendiamoci. Nel cinema di arti marziali più raffinato, un combattimento diventa un momento di svelamento emotivo. Guardate i classici di Hong Kong, e noterete che ogni colpo, ogni parata, rispecchia un conflitto interiore. Bruce Lee non combatteva mai solo per mostrare la propria bravura, ma per difendere un principio o sbloccare un dilemma personale.
Allo stesso modo, Mainetti non vuole trasformare i suoi attori in semplici macchine da guerra. La coreografia serve a raccontare i rapporti tra i personaggi, a mostrare che dietro un colpo ben assestato c’è un groviglio di tensioni, rivalità, speranze. Poi ci sono i toni ironici, tipicamente italiani, che non mancano di alleggerire la drammaticità delle scene, aprendo spiragli di umanità in mezzo ai momenti più intensi.
Dal western al kung fu: i vecchi fantasmi del cinema di genere
Ripensiamo agli anni Settanta, quando l’Italia era maestra nel reinterpretare filoni stranieri: oltre al western all’italiana, c’erano l’horror, il poliziesco, persino la fantascienza artigianale. Registi come Mario Bava e Dario Argento hanno segnato l’immaginario di generazioni, mostrando che anche con budget non astronomici si potevano creare universi potentissimi. Poi, da un certo momento in poi, sembra che ci siamo rinchiusi in un porto sicuro, privilegiando commedie brillanti, drammi introspettivi, qualche eccezione sparsa.
“La città proibita” segna, a suo modo, un ritorno a quell’audacia. E non è tanto per fare un omaggio nostalgico, quanto per ribadire che, se si vuole, il cinema di genere può risorgere dalle sue ceneri. Magari con un taglio diverso, adatto ai gusti di oggi, più aperto al cross-over culturale. E la testimonianza che un film di arti marziali in salsa italiana possa avere senso sta proprio nella cura messa in questa produzione. Si sente il desiderio di dimostrare che sì, anche noi sappiamo girare sequenze mozzafiato, senza rinunciare all’autenticità del racconto.
Il segnale di Mainetti: osare ancora
Quando ci si trova di fronte a qualcosa che scardina le abitudini, è inevitabile che si generino opinioni contrastanti. A volte l’entusiasmo è alle stelle, a volte scatta lo scetticismo. Ma la bellezza di un progetto così consiste nel suo invito a riconsiderare i limiti che diamo per scontati. Chi l’ha detto che, in Italia, si debbano fare sempre e solo commedie o film d’autore? “La città proibita” propone un’altra via, fa intravedere la possibilità di un cinema che non teme di misurarsi con i maestri dell’azione.
Forse ci troveremo di fronte a un nuovo filone, o forse rimarrà un esperimento singolo. Tuttavia, il coraggio di Mainetti potrebbe innescare una reazione a catena: se questo film funzionerà – al di là dei giudizi di critica e pubblico – dimostrerà che l’Italia può rispolverare la sua vena creativa più spericolata, che il “genere” non è morto, che si può ancora puntare su scenari inediti.
E adesso tocca a voi
C’è un’energia tangibile nel cinema che sa osare, un’energia che può contagiare altri registi e produttori, spingendoli a esplorare nuovi sentieri. È come se “La città proibita” ci ricordasse che, in fondo, lo spaghetti western o l’horror di scuola italiana nacquero proprio da un colpo di testa di chi voleva provare strade diverse.
Certo, non è detto che questa formula – kung fu più spirito italiano – conquisti tutti. Alcuni potranno storcere il naso, altri usciranno dalla sala con l’adrenalina addosso, pronti a raccontare agli amici come sia stato sorprendente vedere certe mosse in un contesto così familiare. In ogni caso, l’effetto sorpresa è garantito, e forse è proprio di questa sorpresa che il nostro panorama cinematografico aveva bisogno.
In definitiva, ci troviamo di fronte a una storia di passione. Quella di un regista che, rifiutando di rimanere nei binari, ha deciso di girare un film così controcorrente da sembrare un azzardo purissimo, ma che in realtà parla di noi, dei nostri desideri, delle nostre voglie di raccontare storie diverse. Il kung fu in chiave tricolore – se fatto con intelligenza e rispetto per i modelli d’origine – può trasformarsi in un linguaggio universale, capace di unire platee diverse e stimolare l’immaginario collettivo.
E allora, potremmo persino scoprire che l’idea di un Bruce Lee a Roma non era un semplice aneddoto stravagante, bensì una traccia del futuro, un segnale lasciato in giro per chiunque avesse il coraggio di raccoglierlo. Mainetti l’ha raccolto: “La città proibita” è il suo modo di dirci che è ancora possibile creare qualcosa di estremamente pop e, allo stesso tempo, profondamente italiano. Sta a voi decidere se questa contaminazione funzioni o meno. Ma, a volte, la vera vittoria sta nel provarci, nel regalare a tutti noi un orizzonte nuovo che non pensavamo potesse esistere. E chissà che non sia l’inizio di un’avventura destinata a lasciare il segno.
Intrattenimento
Westworld, il desiderio di un finale continua a pulsare

Ogni volta che qualcuno dice “Westworld” senti qualcosa, no? Cioè, non è solo una serie tv che guardi e passi avanti. È più come un sentimento, una roba che ti prende lo stomaco, ti stringe un po’ il cuore. È futuristico, ok, figo, ma anche un po’ folle, un po’ disordinato. E noi lì, incollati episodio dopo episodio dal 2016, a perderci dentro questo mondo assurdo, fino a quel maledetto giorno del 2022 che hanno detto basta, stop, cancellato.
Così, dal nulla. Ma adesso, dopo tutto sto tempo che abbiamo messo via la speranza, arriva Aaron Paul a dire che forse, magari, chissà, una quinta stagione potrebbe esserci davvero e stavolta finirebbe come si deve. Non lo so voi, ma a noi questa cosa fa un po’ tremare dentro.
Una serie che ha lasciato il segno
Quando Jonathan Nolan e Lisa Joy hanno deciso di mettere le mani su Westworld, non stavano solo rifacendo qualcosa di vecchio, sai? C’era un’intenzione dietro, qualcosa di serio, forte: cercare di capire fin dove siamo davvero liberi e quando invece c’è qualcosa—un algoritmo, una macchina, boh—che decide per noi. La prima stagione ci ha stregato tutti, inutile far finta che non fosse così. Era un disordine bellissimo, ci sentivamo dentro qualcosa di nuovo, diverso, eppure familiare, con quella tensione pazzesca tra uomo e macchina. C’era energia, c’era passione, c’erano cose che ti facevano esplodere il cervello.
E poi è successo quello che succede sempre, perché la perfezione mica esiste. Qualcosa è andato storto, inutile girarci attorno. Ascolti che calavano, scelte discutibili, fan che si spaccavano in due, tre, mille fazioni diverse. Fino a quel giorno, autunno 2022, quando è arrivato l’annuncio che nessuno voleva sentire: fine della corsa. Uno stop improvviso, una botta secca che ci ha lasciati tutti un po’ spaesati, delusi, amareggiati. Una storia interrotta a metà, con mille domande ancora aperte che ti rimangono lì, ferme nello stomaco. Ed è questa la verità, la dura, brutta verità.
Aaron Paul e la prospettiva di un addio meno amaro
Da allora abbiamo sentito qua e là varie opinioni, alcune più disilluse, altre smaniose di un ritorno, anche simbolico. È stato però Aaron Paul, l’attore che ha dato vita al personaggio di Caleb Nichols a partire dalla terza stagione, a riaccendere i riflettori sulla possibilità di un’ultima corsa. In un’intervista rilasciata a ComicBook, Paul ha confessato di aver avuto un confronto con Nolan su come avrebbe dovuto concludersi tutto. Ha ammesso di non voler alimentare false speranze, eppure un filo di ottimismo nel suo sguardo si è intravisto eccome. Ha detto di avere “le idee molto chiare”, spiegando che l’intenzione esiste, sebbene resti tutto appeso a mille variabili.
Il punto è questo: chi ha seguito Westworld non vuole solo una chiusura rapida o uno special di un’ora. C’è un desiderio di coerenza e di completamento, lo stesso che trapela dalle parole di Aaron Paul. Sembra quasi che l’intero cast – almeno in parte – abbia la necessità di concludere la storia nel modo in cui era stata originariamente pensata.
Jonathan Nolan e quella voglia di finire il lavoro
Prima ancora della cancellazione ufficiale, Jonathan Nolan non aveva fatto segreto di voler portare a termine il progetto. Ad aprile 2024 ribadiva la sua intenzione di dare alla serie un approdo naturale, dichiarando: “Siamo dei perfezionisti… Vorremmo portare a termine la storia che abbiamo iniziato”. A prescindere dai calcoli di produzione o dai numeri d’ascolto, appariva chiaro che la visione dei creatori non era affatto conclusa.
Ora, a distanza di tempo, si risente la stessa spinta ideale. Nolan non mostrava rimpianti per come si erano svolte le cose, eppure parlava di un desiderio molto forte di concludere l’arco narrativo rimasto in sospeso. Ed è qui che la speranza di molti si riallaccia: dare un senso definitivo a vicende, personaggi, visioni futuristiche e atmosfere western che hanno fatto scuola.
Uno spiraglio di luce
A noi, in fondo, interessa sapere se Westworld potrà davvero tornare. È difficile prevedere se le parole di Aaron Paul si trasformeranno in un vero contratto di produzione per una quinta stagione. Tuttavia, questa piccola scintilla di ottimismo sembra sufficiente a riavvivare l’entusiasmo attorno a un universo narrativo che non ha mai smesso di far discutere.
Forse non è ancora finita. E se mai dovesse arrivare l’occasione di vedere Westworld chiudere in grande stile, saremmo pronti a sederci di fronte allo schermo con la stessa trepidazione di quel lontano 2016. Perché alcune storie meritano un addio degno di essere ricordato, e ci auguriamo che, un giorno, l’ultima parola spetti davvero al parco dei sogni (e degli incubi) più futuristico del piccolo schermo.
Intrattenimento
James Cameron e l’ombra personale dietro Jake Sully: quando la fantasia si intreccia con...

Siamo abituati a pensare ai film di Avatar come a spettacolari avventure su mondi lontanissimi, ma dietro le quinte si nasconde un dettaglio ancora più intrigante: l’autore di tutto questo, il regista James Cameron, ha ammesso di avere infuso qualcosa di se stesso in uno dei protagonisti. E non parliamo solo di tratti caratteriali vagamente ispirati, bensì di un vero e proprio riflesso di certe sue sfumature, compresi i lati più “scomodi”.
“Jake Sully ha un po’ del mio carattere… un po’ str**, come me.”
Questo, in sintesi, il fulmine a ciel sereno che Cameron ha rivelato durante un’intervista, e ci ha fatto quasi balzare sulla sedia. Ma perché un regista di tale calibro dovrebbe confessare una cosa del genere? Forse, per aiutarci a capire che, dietro l’incredibile battaglia dei Na’vi contro gli invasori umani, c’è un universo di emozioni reali. E proprio nel cuore di questo universo, c’è un padre – e c’è Cameron – alle prese con responsabilità, timori e durezza. Sì, perché “Jake è tosto, severo con i figli,” come sostiene lui stesso, e c’è una ragione se certi attributi risuonano tanto vicini al regista.
Il successo di un’idea più grande di ogni record
Nel 2009, il primo Avatar ha sbancato i botteghini ed è diventato il film col maggiore incasso nella storia del cinema. Non era solo questione di tecnologia rivoluzionaria o di mondi esotici: la storia di Jake Sully, ex marine paraplegico interpretato da Sam Worthington, ci ha catapultati su Pandora e ci ha mostrato un percorso di identità e appartenenza.
Quel viaggio epico ha convinto milioni di persone a tornare più volte in sala, trasformandolo in un fenomeno planetario. Eppure, la vera sostanza di tutto rimane la complessità dei personaggi. Cameron, insieme ai co-sceneggiatori (tra cui Amanda Silver e Rick Jaffa), non voleva limitarsi a costruire figure ideali e imbattibili. Cercava, al contrario, di rendere i protagonisti un po’ più umani e fallibili.
Un padre che impara a combattere su più fronti
Nel sequel del 2022, Avatar: La via dell’acqua, Jake e Neytiri (interpretata da Zoe Saldaña) diventano il cuore di una famiglia in perenne conflitto fra battaglie esterne e problemi interni. È qui che, secondo Cameron, si nota di più il riflesso delle esperienze personali. Lo vediamo mentre Jake cerca di proteggere i suoi figli da un pericolo sempre più pressante e, nello stesso momento, li spinge a crescere come guerrieri. Non è un compito facile. Anzi, il regista lo definisce un approccio “duro,” che nasce dalla paura di perdere ciò che si ama e dal desiderio di forgiare la resistenza futura.
L’apice di questo conflitto familiare è la morte del primogenito Neteyam (Jamie Flatters), evento che getta Jake e Neytiri nello sconforto e ci fa sentire, quasi sulla nostra pelle, quanto sia amaro il prezzo da pagare per difendere una casa in cui si crede fermamente.
Prospettive future: “Avatar: Fuoco e cenere” e oltre
Le difficoltà che Jake affronta come padre non sono destinate a sparire. Cameron lo ha già anticipato: nei prossimi capitoli – a partire da Avatar: Fuoco e cenere, previsto per quest’anno – il tema familiare sarà ancora più centrale. Non aspettatevi, però, un Jake schiacciato dal senso di colpa: sembrerebbe che la storia voglia spingersi a esplorare il rapporto tra genitori e figli da prospettive sempre nuove.
Dunque, la saga di Avatar continua a essere un contenitore di grandi temi, non solo visivamente sorprendente ma anche emotivamente ricco. E a chi si chiede se davvero un regista pluripremiato abbia bisogno di specchiarsi nelle proprie creature, ci viene da rispondere che forse sta proprio qui la chiave del suo successo. Mostrare la parte più vera, perfino un po’ “str****,” di sé.
In fondo, Avatar ha conquistato il mondo perché ci regala una storia in cui conflitti e sentimenti sono tangibili. Una storia in cui un padre, sia pure in un corpo alieno, combatte fino all’ultimo respiro per difendere la sua famiglia. Ed è una storia che, per quanto lontana nello spazio, risuona vicinissima a chiunque abbia mai provato l’istinto di proteggere ciò che ama. Ecco, forse è questa la magia di James Cameron: la sua capacità di prendere un’epopea futuristica e riempirla di parole, sguardi e debolezze che – in un modo o nell’altro – riflettono la vita di tutti noi.