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Salute e Benessere

Il medico risponde: Che cos’è l’artrosi al...

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Il medico risponde: Che cos’è l’artrosi al pollice?

“Il Medico risponde”

Che cos’è l’artrosi al pollice?

DOMANDA

Buongiorno professore e complimenti per la rubrica. Ho delle domande per lei. Qualche giorno fa, ho accompagnato la mia nonna a fare delle compere e ho notato che le faceva male il pollice destro e che aveva dolore nel muoverlo. Le ho chiesto cosa le fosse successo e lei mi ha risposto che non era più giovane e che aveva un inizio d’artrosi. Ma che cos’è l’artrosi e poi al pollice, come mai? Quali trattamenti deve seguire? Si può operare?
Per favore mi risponda, non cestini la mia mail, la prego tengo troppo a nonna. Grazie e buna giornata.
Barbara

RISPOSTA

A cura del Dr. Ferdinando Martinez

ATTENZIONE: "Le informazioni contenute in questa rubrica medica, non devono ASSOLUTAMENTE, in alcun modo, sostituire il rapporto Medico di Famiglia/Assistito. Si raccomanda per buona regola, di chiedere SEMPRE il parere del proprio Medico di Famiglia, o Specialista di fiducia, il quale conosce in dettaglio la storia clinica del proprio Paziente. La nostra rubrica, non avendo fatto un'anamnesi di chi ci scrive, impossibile online, ha il solo ed esclusivo scopo  informativo, decliniamo quindi tutte le responsabilità nel mettere in pratica qualsiasi chiarimento o indicazione riportata al solo scopo esplicativo e divulgativo. Qualsiasi domanda umanamente  intrattabile via web, verrà automaticamente cestinata. Grazie per la gentile comprensione."

Salve Barbara, grazie per la fiducia ripostami. Mi accingo volentieri a rispondere subito alla sua interessantissima mail. Svitare e riavvitare il tappo di un barattolo, di una bottiglia, sbottonare e riabbottonare una giacca, una camicia, strizzare un panno, allacciarsi le scarpe, stringere il pugno con il pollice all’interno di esso… Quando questi gesti ripetuti provocano dolore, probabilmente è “rizartrosi o rizoartrosi”. Dal greco “rhiza” , “la radice”, questa artrosi situata alla base del pollice corrisponde alla progressiva distruzione della cartilagine dell’articolazione tra il trapezio, una delle otto ossa che costituiscono il polso, e il primo metacarpo. Legata all’usura del tempo, ai movimenti ripetitivi ma anche di origine ereditaria e ormonale, colpisce soprattutto le donne dopo la menopausa.

A volte erroneamente presa per tendinite, la diagnosi di rizartrosi è comunque facile, grazie ad un esame clinico confermato da una radiografia. Bisogna però stare attenti alla diagnosi precoce, un paziente può avere un’osteoartrite visibile ma potrebbe non avere mai dolore.

Tuttavia, il dolore di solito segna l’inizio della malattia. Modesto all’inizio, spesso evolve per focolai infiammatori, poi diventa cronico. Nelle forme più evolute, l’articolazione si irrigidisce e si deforma, provocando una perdita di forza del morsetto indice pollice, aggiungendo un ulteriore livello di fastidio. Anche i danni estetici sono fonte di preoccupazione per il paziente, soprattutto quando sono interessate altre articolazioni della mano.

Anche se la rizartrosi è spesso isolata, può essere associata all’osteoartrosi che colpisce altre articolazioni delle mani, principalmente delle falangi.

Quali trattamenti?

Se non è ancora possibile rigenerare la cartilagine distrutta, i sintomi possono essere alleviati. Il trattamento inizia con l’uso notturno di una stecca alla base del pollice, associata all’uso di analgesici in pomata o per via orale. Anche l’apprendimento degli esercizi di auto-riabilitazione e l’uso di oggetti ed attrezzi atti allo scopo, sono essenziali per mantenere la forza e la mobilità del pollice.

Le iniezioni di corticosteroidi sono spesso utilizzate per alleviare i pazienti durante le riacutizzazioni. Questi ultimi sono stati recentemente chiamati in causa dalla European League of Rheumatology (EULAR), per mancanza di prove di efficacia ed i seri danni procurati, in pratica, molti reumatologi quindi continuano ad utilizzarli solo in casi sporadici, quando i FANS sono risultati inefficaci, il dolore acuto continua ad essere ininterrottamente insopportabile e di rilevante intensità.
L’iniezione di plasma ricco di piastrine (PRP) o la viscosupplementazione (iniezione di acido ialuronico per “oliare” l’articolazione) non hanno posto nella gestione.

Una nuova via terapeutica è in fase di ricerca sugli effetti dell’iniezione articolare di tossina botulinica, una proteina con un’azione analgesica più duratura e sicura rispetto ai corticosteroidi, che potrebbe rappresentare un’interessante opzione terapeutica per combattere il dolore associato alla rizartrosi. Finora, 40 pazienti sono stati inclusi in questo studio, i cui risultati sono attesi entro la fine del 2021.

La chirurgia?

Barbara, quando la rizartrosi diventa troppo debilitante, la chirurgia è l’ultima risorsa. Si possono quindi proporre due tipi d’intervento chirurgico: la trapezectomia, che si basa sull’asportazione dell’osso trapezio al fine di rimuovere l’area di stress articolare ed il posizionamento di una protesi trapeziometacarpale, l’equivalente in miniatura della protesi d’anca. Quest’ultimo ha il vantaggio di ricreare l’articolazione, ottenendo un rapido recupero ed un ulteriore guadagno di forza. Qualunque sia l’intervento scelto, il tasso di soddisfazione del paziente è generalmente, superiore al 90%.

Bisogna essere consapevoli, tuttavia, che nel caso di una protesi, l’usura o l’allentamento delle parti può talvolta richiedere un cambio dell’attrezzatura entro 15-20 anni dal primo intervento. Da qui il fatto che questo intervento è raramente offerto ai giovani che svolgono in particolare lavori manuali pesanti. In questi rari casi, si preferisce l’artrodesi, ovvero un blocco dell’articolazione mediante viti, che permetta di recuperare la forza della pinza ma non la sua mobilità.

In definitiva, non appena compare un accenno di dolore, è meglio evitare di perdere troppo tempo nel rimuginare se, come e quando, un eventuale opportuno controllo medico va eseguito senza indugio. Consiglio di recarsi sollecitamente da uno specialista o dal proprio medico curante, il prima possibile, perché l’inizio repentino di un trattamento medico appropriato limiterà l’aggravamento futuro e consentirà di continuare le attività quotidiane in maniera soddisfacente e non invalidante.

Buona domenica Barbara a lei e alla sua Nonna.

Aspettiamo le vostre domande, inviatecele via mail a info@sbircialanotizia.it

Docente di Medicina Clinica e Chirurgia Generale: si occupa principalmente della nostra rubrica “Il medico risponde”, ma anche della creazione di articoli riguardanti il campo della medicina. Tutti gli articoli vanno considerati a scopo esclusivamente informativo.

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Festa della mamma. Avere un figlio dopo un tumore al seno,...

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La chirurga Salgarello spiega gli eventuali limiti della ricostruzione coi lembi e l’allattamento. La storia di Luciana che ha realizzato il suo sogno dopo la diagnosi a soli 26 anni

Festa della mamma. Avere un figlio dopo un tumore al seno, come cambia il corpo

Diventare mamma dopo essere guarita da un tumore al seno è ormai sempre più possibile. È il caso di Luciana, che ha ricevuto la diagnosi di a soli 26 anni. "Al Policlinico Gemelli è stata sottoposta a una mastectomia sinistra e ad una ricostruzione immediata con protesi, durante la quale siamo intervenuti con una piccola protesi anche sull’altro seno, quello sano, per un risultato estetico più simmetrico. Luciana oggi ha 39 anni ed è mamma di una bimba nata tre anni fa. Ha avuto non solo la possibilità di realizzare il suo sogno di maternità, ma anche di allattare sua figlia dal seno destro, quello sottoposto all’intervento per renderlo più simile a quello ricostruito", racconta Marzia Salgarello, chirurgo plastico ricostruttivo alla Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs e presidente Beautiful After Breast Cancer (BABC) Italia Onlus

A fronte di una maggiore sopravvivenza nelle donne con tumore al seno, è importante occuparsi della vita dopo la malattia, anche perché la diagnosi può coinvolgere anche pazienti molto giovani. Che non devono oggi rinunciare alla maternità.

Ma come cambia in gravidanza il corpo di una donna dopo la ricostruzione con la protesi mammaria? "A differenza delle altre donne, la paziente che ha fatto la mastectomia e la ricostruzione con la protesi mammaria - spiega Salgarello - non vedrà aumentare il volume del seno 'nuovo', poiché questo è costituito interamente dalla protesi. Infatti, anche se l’aspetto esterno è apparentemente normale perché è presente l’areola e il capezzolo, come accade nella mastectomia nipple-sparing, la ghiandola mammaria è stata asportata e quindi non può crescere sotto lo stimolo degli ormoni della gravidanza".

Oppure può trattarsi di una donna che ha fatto la ricostruzione con i propri tessuti e non con la protesi, un tipo di intervento che dà risultati più stabili e naturali nel tempo, ma che necessita di “attingere” tessuto, principalmente dall’addome. "Questo tipo di ricostruzione permette al seno ricostruito di modificarsi nel tempo, seguendo i cambiamenti fisiologici del corpo: ingrassa se la paziente prende peso, invecchia e scende come fa il seno originario. In questo caso, in gravidanza il seno ricostruito con i lembi di pancia si modifica, ovvero può aumentare di volume per l’ingrassamento della paziente, ma certamente non può allattare, poiché il seno è costituito di tessuto adiposo addominale e non di tessuto ghiandolare", sottolinea Liliana Barone Adesi, dirigente medico dell'Uo di Chirurgia Plastica, Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs e vicepresidente Babc Italia Onlus.

"Bisogna inoltre evidenziare che dopo la ricostruzione con il tessuto addominale è opportuno aspettare la stabilizzazione delle cicatrici e dei tessuti per circa un paio d’anni prima di pensare ad intraprendere la gravidanza", aggiunge Salgarello.

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Giornata degli infermieri, Fnopi: “Senza non...

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Mangiacavalli: "Subito la valorizzazione della professione nei percorsi formativi, di carriera e contrattuali'

Giornata degli infermieri, Fnopi:

La Giornata internazionale dell’infermiere coincide quest'anno con la Festa della Mamma: gli infermieri sono per il 76% donne e oltre 270.000 sono mamme che devono conciliare questa professione impegnativa con i carichi familiari (oltre la metà ha due o più figli). “Siamo la spina dorsale del Servizio sanitario nazionale, ma stiamo assistendo a un momento particolarmente critico, fatto di carenze importanti, di diminuzione dell'interesse da parte dei giovani per la scelta di questa professione, di valutazione da parte di chi è già inserito di ‘migrare’ verso altre strutture in alcuni Paesi europei e nordamericani”. A dirlo è Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), alla vigilia della ricorrenza del 12 maggio, giorno della nascita di Florence Nightingale, madre dell’infermieristica moderna.

“Nutriamo la salute” è lo slogan scelto da Fnopi per l'edizione 2024: “Abbiamo voluto cogliere questa occasione – spiega Mangiacavalli – per tornare all’origine della radice etimologica del termine anglosassone Nurse che deriva dal latino Nutrix e rimanda al concetto della nutrizione, del prendersi cura di chi ha bisogno. Questo fa l’infermiere nella sua attività quotidiana".

“In questa giornata importante - sottolinea la presidente di Fnopi - abbiamo bisogno di richiamare le istituzioni e la politica sul tema della carenza infermieristica, perché non è più un problema della nostra professione, ma del Paese tutto, è un tema di tutti i cittadini perché senza infermieri non c'è futuro, senza infermieri non c'è salute, non c'è assistenza per una popolazione sempre più anziana, fragile e sola". È "necessario quindi rilanciare politiche di valorizzazione della professione sia nei percorsi formativi che in quelli di carriera e contrattuali. Avere dunque coraggio per innovare i modelli assistenziali affinché i nostri cittadini possano sempre beneficiare di questa componente essenziale che, insieme a tutte le altre professioni sanitarie, ha fatto sì che il nostro Ssn sia tra i primi al mondo e il nostro Paese goda della di un alto tasso di longevità", conclude.

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Sla, al via corso formativo promosso da Aisla e Asp Reggio...

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Obiettivo finale migliorare assistenza ai pazienti con sclerosi laterale amiotrofica della provincia

Sla, al via corso formativo promosso da Aisla e Asp Reggio Calabria

I pazienti con sclerosi laterale amiotrofica (Sla) residenti a Reggio Calabria mancano soprattutto di supporto territoriale, specialmente per quanto riguarda la gestione pneumologica e palliativa. Per affrontare questa problematica, l'Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla) e l'Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Reggio Calabria hanno avviato da oggi un percorso formativo innovativo che si focalizza proprio sulle esigenze di questi pazienti. I professionisti coinvolti avranno così l'opportunità di approfondire gli aspetti disciplinari legati alle diverse fasi della malattia da docenti altamente qualificati. L'obiettivo finale è quello di migliorare l'assistenza fornita ai pazienti con Sla nella provincia di Reggio Calabria.

Il percorso formativo di Aisla e Asp Reggio Calabria sul Pdta Sla e la legge 219 del 2017 - nato dalla presa d'atto con Dldg n. 664 del 3 luglio 2023 del Pdta interaziendale per le Malattie neurologiche a interessamento neuromuscolare (Mninm) tra l'Asp di Reggio Calabria e il Gom BianchiMelacrino-Morelli - è rivolto a medici chirurghi, logopedisti, psicologici, infermieri, fisioterapisti, tecnici della riabilitazione ed esperti in ausili Caadm dell'Asp reggina. Il corso, spiega una nota, si articola in 8 moduli che offriranno approfondimenti ad ampio spettro sull'importanza di una presa in carico precoce e completa dei pazienti.

"Questo percorso formativo all'interno di un Pdta interaziendale - afferma Francesca Genovese, consigliere nazionale e presidente di Aisla Reggio Calabria - rappresenta un passo significativo verso una migliore qualità dell'assistenza per i pazienti affetti da Sla nella nostra comunità e dimostra l'impegno congiunto delle istituzioni e delle associazioni per affrontare questa sfida. Le risorse investite da Aisla Calabria sono importanti e ci auguriamo che i professionisti sappiano cogliere questa importante opportunità di crescita professionale loro offerta".

Nel corso formativo verranno trattati argomenti legati alla gestione dei sintomi e delle complicanze della Sla, come la scialorrea, gli spasmi, la disfagia e l'insufficienza respiratoria, ma anche dell'utilizzo corretto dei dispositivi medici e delle tecnologie assistive. Saranno inoltre affrontati gli aspetti psicologici ed emotivi legati alla malattia, al fine di fornire un supporto adeguato ai pazienti e alle loro famiglie. Verrà quindi dedicato un modulo alla legge 219/2011 e alla Pianificazione condivisa delle cure, che garantisce l'autodeterminazione sulle opzioni di cura disponibili e il pieno rispetto dei propri diritti e della dignità della persona malata. La proposta formativa - dettaglia la nota - prevede un accompagnamento costante della durata di 3 anni, con tutoraggio svolto sulle équipe territoriali attraverso strumenti teorici e pratici, anche a distanza. Saranno coinvolti i migliori esperti dei centri di riferimento per la cura della Sla in Italia, al fine di formare i professionisti sanitari competenti nell'assistenza e nella gestione delle persone con questa patologia.

"La formazione rappresenta l'anima della cultura aziendale – sottolinea Lucia Di Furia, direttore generale Asp Reggio Calabria - questo progetto rappresenta un passo significativo verso una migliore qualità dell'assistenza rivolta ai pazienti fragili affetti da Sla. L'azienda ha ritenuto importante impegnarsi, in maniera congiunta con Aisla Reggio Calabria, per organizzare un corso Ecm qualificato. L'obiettivo è garantire una formazione il più possibile completa per tutti i professionisti che assistono i pazienti affetti da Sla consentendo di attivare su tutto il territorio dell'Asp" reggina "il Pdta interaziendale, migliorando l'assistenza domiciliare nel rispetto della realizzazione della casa come luogo di cura".

Il percorso formativo, che terminerà il 18 ottobre 2024, prevede lezioni in aula e darà diritto ai partecipanti a 50 crediti, riconosciuti a livello nazionale, confermando l'impegno dell'associazione nel fornire una formazione specializzata di alto livello. Dal 2008, infatti, Aisla offre formazione gratuita e specialistica sulla gestione e presa in carico delle persone con Sla. Ad oggi, ha realizzato 352 moduli di formazione in cui hanno partecipato 8.200 discenti. Solo nel 2022, sono stati formati 560 professionisti della salute. Ulteriori informazioni sono disponibili su aisla.it.

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