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Custodia congiunta in aumento in Europa. E in Italia?

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L’aumento dei casi di divorzi o separazioni sta cambiando il panorama delle famiglie in Europa e la separazione dei genitori è un’esperienza sempre più comune per i bambini. Ma quali sono le modalità di custodia fisica che si stanno diffondendo? Una ricerca pubblicata su Demographic Research ha esaminato questo fenomeno in rapida evoluzione.

Lo studio

La ricerca utilizza un nuovo modulo sulle modalità di residenza dei bambini, con dati del 2021 provenienti dall’indagine dell’Unione Europea sulle condizioni di reddito e di vita. Il campione finale comprende 9.102 bambini provenienti da 17 paesi europei.

Uno su otto bambini provenienti da famiglie separate ha una custodia congiunta equa; un altro 8,2% trascorre almeno un terzo del proprio tempo con ciascun genitore (ma non esattamente la metà del tempo), quindi il 20,7% ha qualche forma di custodia congiunta. Le comparazioni dirette con stime precedenti mostrano un raddoppio della prevalenza della custodia congiunta in meno di 20 anni. Esiste una sostanziale variazione tra i paesi europei: nei paesi del Nord Europa, Belgio, Francia, Slovenia e Spagna, i bambini hanno maggiori probabilità di avere una custodia congiunta. Inoltre, i bambini nelle fasce d’età tra i 6 e i 15 anni hanno maggiori probabilità di avere una custodia congiunta rispetto ai più piccoli o più grandi.

Il fenomeno della custodia condivisa: una tendenza in crescita

Sempre più spesso, i bambini sono testimoni delle separazioni o dei divorzi dei loro genitori. In Europa, quando i genitori non convivono più, è necessario stabilire le modalità di residenza dei bambini, noto come custodia fisica. Questa pratica, per gran parte del secolo scorso, vedeva la madre ottenere la custodia esclusiva, con il padre limitato a visite programmate. Tuttavia, le politiche hanno subito un cambiamento significativo, dando ai padri maggiori opportunità di passare del tempo con i loro figli e offrendo ai genitori la possibilità di una custodia fisica congiunta, nota come Joint Physical Custody. Ora, i bambini possono vivere principalmente con uno dei genitori o trascorrere del tempo equamente con entrambi.

Questa tendenza riflette una crescente consapevolezza dell’importanza del coinvolgimento di entrambi i genitori nella vita dei figli. La Joint Physical Custody ha dimostrato di portare a esiti positivi sia per i bambini che per i genitori, promuovendo una migliore collaborazione genitoriale e riducendo i conflitti. Inoltre, è associata a un migliore benessere emotivo e psicologico per i bambini, riducendo i livelli di stress.

I risultati dello studio

I risultati della ricerca delineano un quadro variegato delle varie modalità di custodia fisica dei bambini nelle famiglie separate in Europa. Emergono tre principali organizzazioni:

la custodia congiunta uguale,
la custodia congiunta diseguale,
la custodia fisica esclusiva.

In Europa, il 12,5% dei bambini vive in arrangiamenti di custodia congiunta uguale, evidenziando un’importante tendenza verso la condivisione equa del tempo tra entrambi i genitori. Questo modello è particolarmente diffuso in paesi come la Svezia, dove il 42,5% dei bambini beneficia di questa organizzazione, seguita da Finlandia (23,8%) e Belgio (19,6%).

D’altra parte, l’8,2% dei bambini vive in arrangiamenti di custodia congiunta diseguale, dove il tempo trascorso con ciascun genitore non è esattamente uguale ma comunque significativo. Questo modello è più comune in paesi come la Danimarca, dove il 26,2% dei bambini ha questa tipologia di organizzazione, seguita da Svezia (11,2%), Slovenia (11,1%) e Belgio (10,7%).

Tuttavia, la maggioranza schiacciante, pari al 79,3%, dei bambini vive ancora nell’organizzazione più tradizionale della custodia fisica esclusiva, dove uno dei genitori detiene la responsabilità principale. Questo modello rimane predominante in tutti i paesi, ad eccezione della Svezia, e mostra una prevalenza più alta in alcune regioni dell’Europa orientale e meridionale.

Esaminando le differenze di età, emerge che la custodia fisica esclusiva è più comune nei bambini più piccoli (0–5 anni), mentre la custodia congiunta, sia diseguale che uguale, diventa più comune nei gruppi di età intermedia (6–10 e 11–15 anni). Questo modello mostra una tendenza a formare una leggera forma a U invertita con l’età, essendo meno comune nei figli più piccoli e più grandi e più frequente nei gruppi di età intermedi.

Uno sguardo all’Italia

Mentre il fenomeno della custodia congiunta è in crescita in molti paesi europei, l’Italia si distingue per una prevalenza relativamente bassa di custodia congiunta. Solo il 5% o meno dei bambini italiani vive in arrangiamenti di custodia congiunta uguale, posizionando l’Italia tra i paesi con la minore adozione di questa modalità. Inoltre, l’Italia mostra una tendenza simile in termini di custodia congiunta diseguale. Sebbene questa modalità sia meno comune rispetto alla custodia esclusiva, alcuni bambini italiani beneficiano di un tempo significativo trascorso con entrambi i genitori.

Nel contesto delle differenze di età, l’Italia riflette tendenze simili a quelle osservate in Europa. La custodia fisica esclusiva è più comune tra i bambini più giovani, mentre la custodia congiunta, sia diseguale che uguale, diventa più prevalente tra i gruppi di età intermedi.

L’incremento della custodia congiunta dei figli solleva importanti questioni sociali e familiari. Se da un lato la custodia congiunta può portare a una migliore collaborazione tra i genitori e a un benessere psicologico dei bambini, dall’altro sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere appieno gli effetti di questa pratica e per valutare la necessità di adeguare le politiche sociali alle nuove realtà familiari.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Gli stereotipi di genere sono duri a morire, e anche le...

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Gli stereotipi di genere sono vivi e vegeti, e ancora condizionano le scelte delle persone. Delle donne, ma anche degli uomini, che spesso pensano che tali questioni non li riguardino ma che invece ne sono anch’essi vittime. Il problema più grande è che nessuno spiraglio di luce sembra venire nemmeno nelle nuove generazioni, immerse fino al collo nei pregiudizi e nei luoghi comuni. Il punto è che non parliamo di una giustizia generica e astratta, ma di qualcosa di molto pratico: i preconcetti pesano e indirizzano le scelte personali e lavorative, e in base ad essi giudichiamo gli altri e quello che fanno.

Una nuova ricerca conferma che il cammino verso l’abbattimento degli stereotipi è ancora lungo: l’Osservatorio Henkel ‘Genere e stereotipi’, in collaborazione con Eumetra, dal 2022 indaga i diversi ruoli nell’organizzazione e nella cura della famiglia su un campione rappresentativo della popolazione italiana, composto da 2.000 individui tra i 18 e i 55 anni appartenenti alla community del magazine ‘DonnaD, Amica Fidata’. In questa edizione, è stato realizzato un approfondimento su come e quanto i pregiudizi di genere influenzino le scelte personali, intervistando 1.000 persone, il 10% delle quali giovani della GenZ tra i 15 e 25 anni.

Intanto quello che emerge è che i preconcetti si abbattono con forza su ogni aspetto della vita: dalla scuola al lavoro al tempo libero, impedendo alle persone di essere realmente se stesse e di seguire i propri desideri e le proprie inclinazioni. Una situazione che va a svantaggio soprattutto delle donne ma che non risparmia nemmeno gli uomini, anch’essi vittime di luoghi comuni e di aspettative sociali che diventano gabbie. In definitiva, possiamo dire che gli stereotipi siano sinonimo di limite.

Ma la cosa davvero preoccupante che emerge dall’analisi è che le donne stesse sono parte attiva degli stereotipi, anche quando gli si ritorcono contro: anche loro infatti dividono il mondo, i gusti, le attività e in definitiva le opportunità tra quelle ’maschili’ e quelle ‘femminili’.

Matematica per i maschi, cura degli altri per le femmine

E si comincia presto, dall’istruzione: la convinzione di base è che ci siano scuole e indirizzi universitari per maschi e altri per femmine, perché fondamentalmente ci sarebbero attitudini diverse tra i due sessi. La pensa così il 53% degli uomini, il 52% delle donne, il 45% dei ragazzi GenZ e il 38% delle ragazze GenZ.

Il problema qui è a monte:

• per il 43% degli uomini, il 33% delle donne, il 42% dei ragazzi GenZ e il 32% delle ragazze GenZ i due sessi hanno capacità pratiche diverse
• per il 27% degli uomini, li 26% delle donne, il 33% dei ragazzi GenZ, e il 25% delle ragazze GenZ hanno capacità cognitive diverse.

Facile immaginare quali siano gli indirizzi abbinati all’uno o all’altro genere: gli stereotipi li conosciamo tutti. Perciò materie scientifiche, tecnologiche o pratiche sono ritenute ‘da maschi’, quelle umanistiche o dedicate alla cura della persona sono ‘da femmine’. E questo per natura. La donna biologicamente non capirebbe la matematica, l’uomo biologicamente non sarebbe portato a cambiare un pannolino, accudire un familiare malato o fare l’educatore d’asilo.

Il risultato è che, nonostante i tanti esempi di papà che riescono benissimo ad occuparsi dei propri figli o dei genitori anziani, e di donne con brillanti menti scientifiche, le ragazze continuano a non iscriversi agli indirizzi STEM (Science (scienza), Technology (tecnologia), Engineering (ingegneria) e Mathematics (matematica)). E questo perché si autolimitano prima, non ritengono di essere in grado semplicemente perché sono femmine, mentre è del tutto naturale che i maschi diventino fisici o ingegneri. Ed è altrettanto ovvio che i ragazzi non si iscrivano a lettere. O, allargando un po’, a danza classica.

Per gli uomini il calcio è uno sport da maschi

Anche lo sport infatti cade sotto la scure del pregiudizio: ci sono quelli da maschi e quelli da femmine. Il che si traduce nel fatto che il calcio è roba da uomini per il 63% di loro, mentre il 76% delle donne lo ritiene adatto a tutti. Lo stesso per la danza, vista come attività femminile dal 64% degli uomini, a fronte dell’83% delle donne che non condivide questa idea. In ogni caso il risultato è che il 18% della Generazione Z sceglie lo sport in base al proprio genere, con il 17% dei ragazzi e il 14% delle ragazze influenzato dalle scelte degli amici maschi o femmine.

La cura della famiglia è cosa da donne, i soldi da uomini

Tornando alle grosse scelte di vita, la musica non cambia: il 62% delle donne pensa che esistano lavori adatti a loro e altri ai maschi, opinione condivisa dal 74% degli uomini. Risultato: il 56% delle donne ritiene di avere una retribuzione più bassa dei colleghi uomini e solo il 38% pensa di ricevere uno stipendio equo. Non solo: il 33% della popolazione femminile afferma di aver dato priorità alla famiglia piuttosto che alla carriera, e potremmo aggiungere al lavoro in generale, visto che il tasso di occupazione femminile italiano tra i 20 e i 64 anni è solo del 55% (IV trimestre 2022) a fronte di una media europea del 69,3%. Il lato interessante è che il 25% degli uomini ritiene di fare rinunce a favore della famiglia, sebbene solo il 5% abbia lasciato il lavoro. Insomma, c’è un problema di percezione ampio, senza nulla togliere a quel 5% che si è effettivamente sacrificato.

D’altronde che il carico familiare e di rinunce sia ancora prerogativa prettamente femminile, lo confermano ulteriori stereotipi: la cura della casa e dei parenti è ancora appannaggio delle donne, mentre di burocrazia e soldi si occupano gli uomini. Attenzione: occuparsi significa anche decidere. E decidere significa potere, e libertà: se non puoi decidere non sei libero, e la mancanza di autonomia finanziaria è uno dei grandi problemi per i quali le donne rimangono in relazioni infelici se non addirittura tossiche. E più in generale spesso non possono determinare la propria vita.

Spiraglio positivo: per l’80% dei giovani della GenZ, ci si deve occupare delle necessità familiari in maniera paritaria. Un passetto avanti rispetto al 18% degli intervistati che pensa che chi guadagna di più debba anche avere voce in capitolo sulle decisioni economiche. Peccato che nella maggior parte dei casi sia l’uomo a portare in casa più soldi, perché hanno lavori meglio retribuiti o perché a parità di mansioni prendono di più, perché le donne lasciano l’impiego per motivi familiari o perché ripiegano sul part time e la carriera spesso è un totale miraggio.

Ma un dato incoraggiante c’è, ed è che per il 68% degli uomini la cura della casa deve essere insegnata anche ai maschi, percentuale che raggiunge addirittura il 100% nella GenZ.

Tuttavia, le ragazze continuano a godere di minor libertà, e dunque di minori opportunità: il 53% di loro riceve una paghetta a fronte del 64% dei fratelli, il 57% non ha un coprifuoco quando esce a fronte del 74% dei ragazzi, il 66% non ha mai nemmeno parlato con i genitori di studiare all’estero mentre il 64% dei maschi ha potuto godere di un periodo formativo fuori dall’Italia.

Gli stereotipi sembrano davvero un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire, a maggior ragione perché si tramandano a partire dall’educazione, dal momento apparentemente innocente in cui si scelgono i giocattoli dividendoli in cose da femmine o da maschi (lo fa il 47% dei padri, mentre per il 62% delle madri i giochi non hanno genere). Le disuguaglianze di genere vengono perpetuate così, a vari livelli, anche nella vita quotidiana, attraverso scelte che sembrano banali ma che influiscono sui pensieri e la direzione che prenderà la vita di ognuno. A cominciare da quel vestitino rosa e da quelle scarpe con i dinosauri sopra, da quel bambolotto e da quelle macchinine regalate per Natale.

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Sexsomnia, cos’è il disturbo del sonno legato al sesso

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C’è chi nel sonno parla, chi si alza e fa una passeggiata, chi ha spasmi improvvisi e chi soffre di un disturbo molto più imbarazzante o problematico: la ‘Sexsomnia’. Si tratta di una particolare forma di parasonnia caratterizzata da un’attivazione motoria specifica che dà luogo a comportamenti sessuali inappropriati e involontari. Nella sexsomnia, i soggetti dopo essersi addormentati praticano o tentano di impegnarsi in comportamenti o rapporti sessuali insoliti, senza esserne consapevoli o ricordare di averlo fatto il mattino successivo.

Questi comportamenti consistono sia nel masturbarsi che nel tentare un approccio sessuale con un partner che dorme nello stesso letto, o con un’altra persona che non è il partner abituale, ma con cui condividono in quel momento la stanza. Ma scopriamo insieme cosa accade, quali sono i sintomi e come si cura.

Una storia di sexsomnia

Nel 2005, Marco ha notato per la prima volta che sua moglie Anna (nomi di fantasia, nrd) aveva strani comportamenti durante il sonno. La donna cercava approcci sessuali anormali, almeno due volte in un mese. Al risveglio, però, raccontava di non ricordare assolutamente nulla di quanto accaduto. Le ci sono voluti cinque anni prima di capire di essere realmente affetta da qualche disturbo del sonno legato al sesso. Così ha cercato assistenza medica. La storia, raccontata da National Center of Biotechnology Information, ha messo in luce un problema sconosciuto fino a qualche anno fa. La donna, infatti, si è rivolta ai medici perché non riusciva a credere a ciò che suo marito le riportava il mattino seguente.

Secondo l’uomo, la 42enne, originaria del Brasile, la notte gemeva nel sonno e pronunciava nomi di altri uomini, di oggetti o frasi a contenuto sessuale che non era solita pronunciare durante il giorno. In alcuni episodi, sempre secondo il marito, si sarebbe anche masturbata. Questo tipo di disturbo del sonno, però, ha portato a conseguenze complesse nel rapporto dei due. La donna ha riferito di essersi svegliata nel bel mezzo del rapporto sessuale, al quale il marito aveva “ceduto” dopo insistenti sue richieste, sentendosi però un po’ abusata: dal suo punto di vista lui la forzava ad avere rapporti sessuali senza consenso durante il sonno. Dal canto suo, invece, l’uomo sosteneva di avere dei dubbi sulla fedeltà della donna, perché dai racconti che pronunciava mentre dormiva, apparivano altri uomini, tra i quali anche un collega. Un’altra motivazione che ha spinto la donna a rivolgersi ad un gruppo di esperti è stato l’episodio testimoniato da suo figlio di nove anni, che l’ha sentita gemere sessualmente ad alta voce durante il sonno.

Al momento della prima visita, la donna negò l’uso di farmaci o droghe oltre alle pillole contraccettive e non vi era alcuna storia pregressa di abuso di alcol. La 42enne, inoltre, lavora nel campo dell’informatica e ha raccontato di subire di un notevole stress sul lavoro, legato alle scadenze, e alla pressione da parte del suo capo di completare molte attività da sola in un breve periodo di tempo.

“Abbiamo eseguito uno studio video-polisonnografico sincronizzato (VPSG) di notte, monitorando continuamente il suo sonno tramite elettrooculogramma, elettromiografia delle regioni sottomentale e tibiale anteriore, le posizioni assunte a letto, russamento, flusso d’aria orale e nasale, sforzo respiratorio addominale e toracico, saturazione di ossigeno dell’emoglobina periferica ed elettrocardiogramma ad una derivazione”, hanno spiegato gli esperti che si sono occupati del suo caso. Dalle analisi è emerso che, inconsciamente, Anna vive una forma di insonnia/parasonnia con conseguente ricerca o messa in pratica di comportamenti legati alla sfera sessuale. Questo tipo di problema può avere ripercussioni coniugali e legali nei casi più gravi o in cui sono coinvolti minori. La sua diffusione non è nota a causa della rarità con la quale viene scoperto il fenomeno.

Uno studio del 2010 ha interrogato 1.000 adulti selezionati casualmente in Norvegia e ha scoperto che circa il 7% aveva sperimentato la sexsomnia almeno una volta nella vita, mentre quasi il 3% conviveva attualmente con questa condizione. “Ci sono alcune persone che intraprendono attività sessuali con il proprio partner, e questo non dà fastidio a nessuno dei due. Quindi è possibile che questo possa essere consensuale per alcuni”, ha detto Jennifer Mundt, assistente professore di medicina del sonno, psichiatria e scienze comportamentali presso la Feinberg School of Medicine della Northwestern University di Chicago. Ma non sempre è così.

Cause, sintomi e cura

I sintomi della sexsomnia variano a seconda della persona, ma la caratteristica di fondo di questa parasonnia è che una persona addormentata mostra comportamenti sessuali di cui non è consapevole. Questi comportamenti possono includere:

• Masturbazione
• Gemiti sessuali
• Movimenti sessuali
• Ricerca di attività sessuale
• Aggressività sessuale
• Violenza sessuale

La sexsomnia può manifestarsi insieme ad altre parasonnie, tra cui il sonnambulismo e il parlare nel sonno. Sembra essere fino a tre volte più comune negli uomini che nelle donne. Oltre ai comportamenti sessuali, i segnali più frequenti sono:
• Mancanza di risposta o reattività minima alla conversazione o all’ambiente
• Incapacità di svegliarsi
• Amnesia dei comportamenti sessuali una volta svegli
• Trauma ai genitali, spesso dovuto ad abrasione

Il fenomeno non va confuso con l’eccitamento notturno, molto più frequente, dovuto sia ad una risposta fisica al rilassamento del corpo, sia ad una più profonda entrata nella fase del subconscio e mondo onirico. Queto tipo di insonnia, invece, assume dei contorni più intensi e violenti.

Non sono chiare le cause che scatenano il fenomeno, ma pare che non tutta la sexsomnia sia collegata a una causa medica sottostante. Alcuni casi sembrano essere causati da fattori ambientali o legati allo stile di vita. La diagnosi è complessa perché chi manifesta i sintomi non sempre li segnala al proprio medico, per vergogna o perché associa il disturbo a diagnosi di insonnia già esistenti. Il trattamento prevedere la prescrizione di benzodiazepina o terapia anticonvulsivante. In Italia sono circa 13,4 milioni le persone che soffrono di disturbi del sonno, ma non ci sono numeri o stime precise su quanti siano coloro i quali manifestano questo particolare tipo di parasonnia.

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Il Giappone e la sfida demografica delle case vuote

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Il Giappone si trova ad affrontare una sfida che mina le fondamenta della sua società ed economia: il proliferare delle case vuote. Con oltre nove milioni di abitazioni disabitate (akiya) sparse per il paese, il paese nipponico si trova di fronte a un’enorme problematica che continua a crescere in proporzione al declino demografico e all’invecchiamento della popolazione.

Negli ultimi 20 anni, il Giappone ha visto un aumento impressionante del numero di case abbandonate, con un aumento dell’80%. Questo fenomeno è stato alimentato da una serie di fattori interconnessi, tra cui il declino demografico nelle aree rurali, la migrazione verso le grandi città, e cambiamenti nella struttura familiare. Con una popolazione in diminuzione e una maggiore urbanizzazione, molte comunità rurali si trovano con un eccesso di alloggi non utilizzati, mentre le famiglie più piccole e i cambiamenti nei modelli abitativi portano a una diminuzione della domanda di abitazioni più grandi, lasciando molte case vuote e non sfruttate.

I dati recentemente pubblicati dal Ministero degli Affari Interni e delle Comunicazioni delineano una realtà spietata: il numero di case vuote è aumentato di oltre mezzo milione rispetto al precedente sondaggio del 2018. Questo aumento allarmante riflette una crisi profonda che si radica nella depopolazione delle regioni rurali e nell’indifferenza verso la gestione e il destino delle proprietà ereditate.

L’impatto demografico

L’invecchiamento della popolazione giapponese e la depopolazione delle aree rurali sono fenomeni intimamente connessi che stanno plasmando in modo significativo il paesaggio demografico e sociale del Giappone moderno.

Con un’inversione demografica che vede un aumento della popolazione anziana e una diminuzione del tasso di natalità, il Giappone si trova di fronte a una situazione in cui un numero sempre maggiore di persone anziane muore o si trasferisce in strutture di assistenza a lungo termine. Questo lascia dietro di sé un’eredità di case vuote, contribuendo al fenomeno delle “akiya”. Nonostante gli sforzi del governo centrale e delle autorità locali, la gestione di queste proprietà disabitate rimane una sfida complessa e multifattoriale.

Le ragioni dietro questo accumulo di akiya sono diverse e complesse. Una percentuale significativa di queste proprietà è costituita da case ereditate, ma un numero ancora più grande di persone che ereditano queste case dichiara di non volerle gestire o demolire.

La depopolazione nelle regioni rurali è un’altra causa fondamentale di questo problema. Con il declino del tasso di natalità e il costante flusso migratorio verso le grandi città in cerca di opportunità di lavoro e istruzione, molte aree rurali si trovano ad affrontare un eccesso di case vuote. Questo esodo ha lasciato un vuoto demografico nelle campagne, con un numero crescente di abitazioni che rimangono disabitate e inutilizzate.

Ma la crisi delle case vuote non è confinata alle regioni rurali; anche le città sono colpite da questo fenomeno dilagante. La combinazione di un invecchiamento della popolazione e una mancanza di interesse nell’occupare, ristrutturare o demolire queste proprietà contribuisce all’aumento dell’abbandono delle case, con centinaia di migliaia di abitazioni disabitate che punteggiano gli skylines urbani.

Case vuote e abbandonate

Le case vuote e abbandonate rappresentano una sfida crescente per il Giappone, con conseguenze che si estendono ben oltre le cifre di un rapporto statistico. Attualmente, nel Paese del Sol Levante, si contano circa 9 milioni di akiya, termine che indica una casa senza residenti regolari. Di questi, ben 3,85 milioni sono classificate come hochi akiya, ovvero “case abbandonate“, che rappresentano il 5,9% di tutte le abitazioni in Giappone. Questo numero impressionante è in costante crescita, con un aumento di 36 milioni rispetto all’ultimo censimento del 2018 e un raddoppio rispetto al 1998.

L’aumento delle case abbandonate ha implicazioni significative per la sicurezza pubblica, l’economia locale e la coesione sociale. Le case abbandonate sono spesso vulnerabili ai danni strutturali, all’infestazione da parassiti e ad altri problemi, rappresentando una minaccia per la sicurezza dei residenti e la qualità della vita nelle comunità circostanti. Inoltre, il fenomeno delle case abbandonate ha un impatto diretto sull’economia locale, con meno fondi disponibili per la manutenzione delle infrastrutture e una diminuzione del valore immobiliare nelle aree colpite.

Mentre alcune di queste case potrebbero trovare un nuovo scopo tramite la vendita, l’affitto o la ristrutturazione, il numero di unità vuote senza un uso secondario è significativo, pari al 42,8% del totale. Questo fenomeno non riguarda solo le zone rurali, ma anche le città, dove la presenza di appartamenti e unità condominiali vuote rappresenta una preoccupazione crescente. Nel complesso, oltre 5 milioni di unità condominiali sono rimaste vuote, di cui quasi 847.000 sono state abbandonate, con un aumento dell’8,6% rispetto al 2018.

Le conseguenze di questo fenomeno sono complesse e richiedono soluzioni che vanno oltre la mera demolizione delle strutture. I governi locali stanno adottando varie misure per affrontare il problema, come tassare le proprietà abbandonate o fornire incentivi fiscali per la ristrutturazione. Tuttavia, le sfide rimangono, con molte case abbandonate che si trovano in aree dove la domanda residenziale è bassa e la mancanza di manutenzione ha reso molte di esse inabitabili senza significativi lavori di restauro.

Per affrontare questa situazione in continua evoluzione, il Giappone sta cercando di rafforzare le associazioni di gestione condominiale e di abbattere gli ostacoli alle ristrutturazioni. Tuttavia, il problema delle case vuote e abbandonate rimane complesso e richiede un impegno a lungo termine da parte di tutte le parti interessate, al fine di garantire una gestione sostenibile delle risorse abitative del paese.

Opportunità per gli investitori stranieri

C’è un crescente interesse tra gli stranieri per queste proprietà vuote, specialmente per le case tradizionali giapponesi conosciute come kominka. Queste possono essere viste come un’opzione per un alloggio unico ed economico, ideale sia per le vacanze che per il turismo. Sebbene possa sembrare un’opportunità allettante, sono molti i fattori da considerare. Innanzitutto, queste proprietà sono rimaste vuote per una ragione: di solito sono al di là del punto di utilizzo e richiedono notevoli lavori di ristrutturazione o addirittura la demolizione e la ricostruzione da zero. In altre parole, l’acquisto potrebbe sembrare economicamente vantaggioso all’inizio, ma richiederebbe un investimento significativo per renderlo abitabile.

Inoltre, acquistare proprietà immobiliari in Giappone, non garantisce alcun beneficio in termini di immigrazione. Possedere una casa nel paese del Sol Levante non conferisce automaticamente il diritto di risiedervi legalmente. È necessario avere un motivo legittimo per ottenere il permesso di soggiorno. Infine, se l’intento è quello di acquistare una proprietà per affittarla, è importante considerare che si dovranno pagare le relative imposte sulla proprietà e sul reddito generato dall’affitto.

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