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Cultura

Venezia, dal 30 maggio al 2 giugno torna in Laguna il...

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Venezia, dal 30 maggio al 2 giugno torna in Laguna il Festival dei Matti

fra gli ospiti dell'iniziativa che si articola fra Mestre e Venezia Ken Loach, Miguel Benasayg e Ilaria Cucchi. Il Festival si chiude con le percussioni dei S’ambarkamo e una danza collettiva in Campo San Samuele

(una iniziativa del Festival dei Matti del 2019, con Letizia Battaglia)

Dal 30 maggio al 2 giugno torna in Laguna il Festival dei Matti, iniziativa culturale indipendente ideata e curata da Anna Poma che dal 2009, ogni anno, a Venezia, si interroga e interroga la cittadinanza sulla questione del rapporto tra follia e normalità, tra salute e sofferenza mentale. 'Primavera non bussa. Futuri ri-belli', titolo che rende omaggio a Fabrizio De Andrè, "vuole essere un auspicio e un antidoto a un tempo gravido di minacce, a un lungo inverno di ferro e di fuoco, distruzioni, catastrofi ambientali, sopraffazioni, nuove e vecchie forme di esclusione, abusi, sofferenza senza cura", spiegano gli organizzatori in un comunicato stampa.

Il Festival "porterà in scena la primavera cantata da De André, che non bussa, entra sicura e prende per mano, sul filo della stagione culturale e politica che Franco Basaglia ha inaugurato e che per noi non smette di durare" con molti ospiti: Ernesto Venturini, Stella Goulart, Juliana Saúde Barreto e Rafael Costa, e Massimiliano Minelli, Francesco Vacchiano, Anna Toscano e Gianni Montieri, Mariasole Ariot e Francesco Deotto, Massimo Cirri, Erika Rossi, Gisella Trincas, Francesca Coin, Francesca Re David, Ilaria Cucchi, Luca Rondi, Stefano Cecconi, Marica Setaro, Mario Colucci, Miguel Benasayag, Ken Loach, Accademia della Follia, i collettivi Nuova generazione, e Assemblea di Salute e Cura di Padova, Teatro dell’oppresso, S’ambarkamo. "Il Festival interpella i versi dei poeti, le immagini di fotografi, registi, artisti, le parole delle scienze umane, la musica, la voce di chi ha attraversato esperienze di sofferenza psichica riaprendo giochi e prospettive su temi che riguardano la vita di ciascuno di noi. Come singoli e come comunità", si precisa.

La giornata inaugurale di giovedì 30 maggio, presso l’ Auditorium di M9 - Museo del ‘900 di Mestre, si aprirà con l’incontro 'Franco Basaglia in Brasile. Una primavera che non passa'. Protagonisti Ernesto Venturini, Stella Goulart e gli artisti Juliana Saúde Barreto e Rafael Costa che interverranno sul lascito del messaggio che Basaglia elaborò in Brasile nel 1979, l’anno prima della sua prematura scomparsa. Una serie di incontri che lo videro confrontarsi con moltissime persone (tra addetti ai lavori, cittadini comuni, studenti a San Paulo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte) "divenuti miccia di un discorso che in Brasile continua a generare pensiero critico, lotta alla violenza istituzionale, mosse di rianimazione sociale collettive, persino una giornata nazionale (il 18 maggio) di lotta antimanicomiale". "Nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Basaglia, vedremo immagini di quella giornata, assisteremo ad una performance, ci interrogheremo su come sia potuta accadere una presa che oggi in Italia, nonostante la straordinaria rivoluzione culturale che ha portato all’emanazione legge 180, sembri svuotata, resa innocua o comunque sospinta nelle retrovie del discorso e delle pratiche di salute mentale egemoni".

Nella stessa giornata, dalle 21, Anna Toscano e Gianni Montieri racconteranno le primavere “Senza calendario” di Goliarda Sapienza e Juan Carlos Onetti, "scrittori dislocati fuori del tempo ordinario". Venerdì 31 maggio, nel chiostro dell’Accademia di Belle Arti, la giornata inizierà con il laboratorio del Teatro dell’oppresso 'Disa(r)marsi Di amori e dis-amori. Del sentirsi disarmati di fronte a modelli che non ci appartengono, del volersi disarmare di fronte alla violenza che prende il sopravvento' curato da Maddalena Martini insieme a Claudia Antonangeli e Alessia Mongelli. Alle 16.30 studentesse e studenti dell’Accademia di Belle Arti e dell’Università Ca’ Foscari Venezia racconteranno "del confine tra follia e normalità, del nostro stare a cavallo tra due dimensioni che ci abitano a partire dal confronto tra le proprie esperienze, inclinazioni, desideri e con gli attrezzi della loro diversa formazione". A seguire alle 18.00 con la Senatrice Ilaria Cucchi, Stefano Cecconi, Antonio Esposito e Luca Rondi si discuterà "dell’inverno della 'Sicurezza', "i luoghi 'chiusi' dell’istituzione totale- carceri, centri per il rimpatrio, residenze per la misura di sicurezza, reparti psichiatrici, luoghi di violenza legalizzata, aria sottratta, avvelenamenti e fughe chimiche, erosione dei diritti. E degli antidoti collettivi ancora da inventare". Alle 20.30 è previsto 'Vogliamo il pane e anche le rose', un dialogo videoregistrato che Ken Loach ha regalato al Festival, "un incontro con un grande regista che non smette di portarci primavere di parole e immagini, grazie al suo meraviglioso impegno civile contro ipocrisia, disuguaglianza, meccanismi burocratici schiaccianti e politiche che inchiodano la working class ad un male di vivere senza apparente via d’uscita". A seguire la proiezione dell’ultimo film del regista, The old Oak.

Sabato 1° giugno al Teatrino di Palazzo Grassi saranno in scena le primavere irriverenti dei giovani di Ultima Generazione "che scompaginano le regole del gioco, simulando distruzioni che non avvengono a dispetto di un ordine rassicurante e igienizzato. Un ordine che invece quella distruzione continua a produrla e a nasconderla". Insieme a loro, le ragazze e ragazzi dell’Assemblea di Salute e Cura di Padova, un collettivo "che prova a rammendare le ferite di un sociale senza comunità, che precipita ognuno nella disperazione, nella solitudine, nella malattia".

Nei successivi due incontri si parlerà di lavoro tra alienazione e riscatto: alle 11.30 insieme a Francesca Coin e a Francesca Re David il tema sarà quello delle 'Grandi dimissioni', "il gesto con cui sempre più persone in tutto il mondo si sottraggono a contesti lavorativi di sfruttamento radicale, regole tossiche e lesive di ogni diritto, condizioni che ammalano i lavoratori, consegnando loro la responsabilità di questa stessa sofferenza". Nel pomeriggio, dopo la proiezione di '50 anni di Clu' documentario prodotto da Cooperativa lavoratori uniti Franco Basaglia, Massimo Cirri e Erika Rossi, autori e regista, e Gisella Trincas, discuteranno della storia di una cooperativa di lavoro che ha accompagnato a Trieste il ritorno degli internati in manicomio alla cittadinanza, alla dignità, al riconoscimento e al contratto sociale e che ancora oggi, garantisce opportunità di lavoro non nocive a chi il mercato escluderebbe a priori.

Alle 18.30 l’incontro 'Oltre le passioni tristi' realizzato in collaborazione con Writers in Conversation dell’Università di Ca’ Foscari Venezia, vedrà protagonista Miguel Benasayg, il filosofo e psicoanalista argentino che "da anni si interroga sul male di vivere del nostro tempo, sui sortilegi e miti del neoliberismo, (individualismo, iperperformatività, antagonismo esasperati) sulle storture e aberrazioni della digitalizzazione delle vite, sul futuro fattosi minaccia, ma anche, al di là delle passioni tristi, su insperate traiettorie di cura collettiva. In un mondo che non sembra consentire alternative alla rassegnazione, al disimpegno, alla distrazione immersiva delle persone ridotte a profilo, Benasayag prefigura altri futuri possibili, nell’alleanza dei corpi e delle vite".

La giornata di sabato si chiude con lo spettacolo 'Quelli di Basaglia, a 180 gradi....'. Protagonista è l’Accademia della Follia, "compagnia di un teatro che agisce da 'progetto anticorpo' smontando i confini tra normalità e follia, confini geografici, culturali, di generazione, di classe". L’Accademia ritorna sulla scena del Festival con un omaggio a Franco Basaglia e alla straordinaria epopea di un movimento e di una storia che hanno cambiato i destini di migliaia di persone e sbarrato, per tutti noi, la possibilità di cadere fuori dal contratto sociale perché giudicati matti da una diagnosi che è sempre una sentenza". Domenica 2 giugno, sempre al Teatrino di Palazzo Grassi, l’ultima giornata di appuntamenti si apre con l’incontro 'Franco Basaglia Fare l’impossibile' a partire dalle recenti pubblicazioni di Mario Colucci e Marica Setaro, "due testi importanti che riportano in luce la vocazione critica del pensiero e dell’opera di Franco Basaglia, la diffidenza dinanzi ad ogni pacificazione dei conflitti e della cancellazione delle contraddizioni che non smettono di riaprirsi. Basaglia vi appare come un uomo determinato ma anche pervaso dai dubbi, consapevole dei rischi di una battaglia collettiva che apre le grandi questioni del rapporto tra scienza e democrazia, tra cura e custodia, tra un’esclusione che annienta e un’inclusione che recupera il diverso solo per renderlo funzionale alla propria organizzazione".

A seguire, in 'Schegge di rivolta', i poeti Francesco Deotto e Mariasole Ariot "racconteranno dell’altrove che ci abita e dei luoghi confine in cui tentiamo di trattenerlo e cancellarlo. Con uno sguardo che disloca il dentro nel fuori e il fuori nel dentro e si fa specchio delle contraddizioni di cui siamo fatti, di un dolore che è anche spiazzamento e rottura, sottrazione, dissenso e scheggia di rivolta". Alle 17.30 si tornerà al Brasile e alle sue primavere basagliane, con un incontro che, "da un punto di vista teorico e antropologico, proverà ad indagare con Francesco Vacchiano, Massimiliano Minelli, Ernesto Venturini e Stella Goulart il lavoro di decostruzione istituzionale e le pratiche di liberazione marginali che fanno del Brasile ancora oggi un terreno sorprendente di alternativa al discorso egemonico sulla salute mentale". A chiudere il Festival alle 18.30 saranno le percussioni dei S’ambarkamo e una danza collettiva in Campo San Samuele "a celebrare la Primavera che non bussa e ha in corpo futuri ri-belli".

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Cultura

Dalla pietra all’Ia, la storia delle armi in...

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I due autori ripercorrono il lungo viaggio compiuto dalla storia delle armi dal paleolitico ai giorni nostri, dai primi utensili di pietra ai missili più moderni

Dalla pietra all'Ia, la storia delle armi in '200 generazioni' di Breccia ed Ercolani

L'umanità, nella sua lenta evoluzione, è passata dall'uso dei primi utensili di pietra ad armi sempre più efficaci e dirompenti. Strumenti di difesa e non solo che hanno accompagnato lo sviluppo del genere umano dal paleolitico fino ai nostri giorni. Fino, soprattutto, alla nascita dell'Intelligenza Artificiale. Dagli archi alle fionde, così come dalle lance alle spade, il percorso che le armi hanno compiuto nella storia dell'umanità per approdare ai missili e ai sistemi più avanzati è stato lungo e progressivo. Un itinerario iniziato quando l'idea di servirsi di arnesi in grado di difendersi è balenata nella mente degli ominidi. Un itinerario che Gastone Breccia, docente di Storia bizantina e Storia militare antica all'Università di Pavia e Alessandro Ercolani, ingegnere elettronico, top manager di numerose industrie internazionali in ambito industria, aerospazio e difesa, ripercorrono nel saggio '200 generazioni. Dalla pietra all'Ia: storia delle armi nella storia dell'umanità', pubblicato da Il Mulino.

"Ci sono volute molte migliaia di anni - scrivono nella premessa i due autori - per portare l'umanità dall'uso di utensili in pietra scheggiata a complesse macchine in grado di pensare autonomamente, dotate di un patrimonio di conoscenza superiore a quello dell'umanità stessa". Un viaggio che i due autori analizzano a partire da un aspetto "controverso" e "cruciale". Ovvero "come l'essere umano sia riuscito, partendo da una punta di pietra, a ideare e sviluppare nuove armi, funzionali ai bisogni essenziali, capaci di sconfiggere i nemici e di aiutarlo ad ampliare i suoi orizzonti". Armi che rispondono ad esigenze diverse. Sono oggetti funzionali alla necessità di sconfiggere il nemico in guerra ma allo stesso tempo - annotano Breccia ed Ercolani - sono "fattore di progresso economico e sociale".

Cominciando dall'età del bronzo del ferro e dell'acciaio, quando il concetto della guerra entrò nella storia dell'uomo, Breccia ed Ercolani esaminano i diversi passaggi della storia delle armi. Un viaggio scandito da diverse tappe: l'età del fuoco; l'età della massa e del movimento; l'era nucleare; l'era delle macchine e dell'intelligenza artificiale. "Lance, fionde, archi, catapulte, spade, fucili, la bomba nucleare e l'IA erano parte di questo grande viaggio dell'uomo creatore. Non erano mai state 'male'. Forse erano state usate male. Erano state sempre parte di quella ricerca di progresso e benessere. Era stato sempre l'uomo a decidere'", scrive Alessandro Ercolani nel capitolo finale del saggio intitolato 'L'era delle macchine e dell'Intelligenza artificiale'.

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Cultura

Giartosio: ‘Felice di essere nella sestina del premio...

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lo scrittore, "è un bene innescare un circolo virtuoso in cui una strada più sperimentale arriva a contatto con tanti lettori"

Giartosio: 'Felice di essere nella sestina del premio Strega con una nuova idea di letteratura

Le parole che raccontano una vita. I modi di dire, il lessico quotidiano, i lemmi che hanno scandito il passare del tempo. Le parole rassicuranti e talvolta caotiche pronunciate dalla madre e quelle più stringenti del padre. Il linguaggio di ogni giorno e quello più ufficiale che insegue ciascuno di noi fin da quando eravamo ragazzi. Un microcosmo fatto di espressioni che disegnano, mano a mano, la biografia di una persona. Frasi che rappresentano l'identità più profonda di Tommaso Giartosio, autore di 'Autobiogrammatica' (Minimum Fax). E' il libro in un certo senso sperimentale entrato a fare parte della sestina del premio Strega in rappresentanza dei piccoli editori, come prevede il regolamento del riconoscimento da qualche anno a questa parte. Nato con l'obiettivo di ricostruire la vita di una persona attraverso le parole, il libro ha finora convinto i votanti tenendo fede a una delle tante vocazioni del premio: quella di aprirsi alle novità e alla sperimentazione in campo narrativo.

Un risultato che procura a Giartosio una grande "emozione" che nasce innanzi tutto dalla possibilità di partecipare alle fasi finali del riconoscimento con "un piccolo editore e con un romanzo che cerca di fare qualcosa di simile a quello che hanno fatto libri lontani nel tempo che si avviavano su strade nuove", dice lo scrittore intervistato dall'AdnKronos citando come esempio 'Ferito a morte' di Raffaele La Capria che vinse l'alloro nel 1961. "Quello era un momento in cui lo Strega era anche una vetrina di modi di fare letteratura molto innovativi. Certo, non voglio paragonarmi a un'opera come quella di La Capria", osserva.

La 'promozione' di 'Autobiogrammatica', riflette Giartosio, "compie una vocazione del premio dandole continuità. Credo sia un bene che un premio letterario riesca a fare circolare libri che cambiano la nostra idea di fare letteratura o ci provano. Si innesca un circolo virtuoso in cui una strada più sperimentale arriva a contatto con un numero di lettori molto più vasto".

Dalle emozioni suscitate dalla possibilità di giocarsi le proprie carte fino al traguardo della serata finale del 4 luglio al Ninfeo di Villa Giulia di Roma, Giartosio traccia poi gli elementi principali del metodo che ha seguito per la stesura del libro. "Sono partito - spiega - dalla constatazione che siamo assediati dalle autobiografie, dall'autofiction e dai memoir. Si tratta, certo, di un assedio virtuoso che evidentemente risponde al nostro tempo. Assedio di cui quindi anch'io sono parte. Io stesso sono un avido lettore di racconti autobiografici".

In questo senso, prosegue, "mi interessa in particolare l'idea di un progetto di narrazione della propria vita che sia ampio e che abbia delle ragioni forti. Da una parte abbiamo le autobiografie di star del cinema oppure di sportivi, scritte magari con l'aiuto di un giornalista professionista". Dall'altra "ci sono le persone comuni. Se vogliono raccontare la propria vita devono poter mostrare che hanno da dire qualcosa che merita l'attenzione del lettore. Nel mio caso per farlo mi è parso che la cosa migliore fosse utilizzare il linguaggio come chiave di lettura".

Questo perché "il linguaggio è qualcosa che possediamo tutti, sono profondamente convinto che ciascuno di noi abbia un rapporto profondo con le parole. La stessa psicoanalisi è basata sull'idea che le parole dell'uomo comune e della donna comune sono cariche di significato. Quindi raccontare una vita attraverso l'asse del rapporto con il linguaggio mi è sembrato un progetto interessante". Un progetto che prende avvio "addirittura da una sorta di silenzio prelinguistico che per me si collega alla figura del padre".

Una figura che con il suo eloquio "è di volta in volta taciturno, elusivo, oppure ufficiale. Però, al tempo stesso, lascia spazio alle parole dei figli che possono trovare il proprio linguaggio". Accanto a quello del padre, c'è poi il linguaggio della madre. "E' proliferante, caotico, una giungla di espressioni, battute ricorrenti, modi di dire. Una forma di generosità linguistica ma anche qualcosa in cui puoi rimanere catturato", dice Giartosio che fa riferimento a un esempio illustre. "Il paragone ovvio, che anch'io rendo esplicito, è quello con il 'Lessico familiare' di Natalia Ginzburg".

La scrittrice prendeva in considerazione il linguaggio mettendone in luce gli aspetti positivi, sottolinea lo scrittore, che evidenzia: "Raccontava il lessico come una sorta di felicità. Scrive nel suo libro - ricorda infatti Giartosio - che se si fosse trovata con i suoi fratelli in una grande caverna, o in una grande piazza con milioni di persone intorno, si sarebbero riconosciuti attraverso le parole. In questo caso quindi il lessico familiare è come un'armoniosa occasione di riconoscersi. Io penso, però, che il linguaggio sia qualcosa in cui ti riconosci ma anche in cui rimani intrappolato, qualcosa che vuoi fare tu ma da cui devi anche svincolarti".

Il libro di Giartosio non assume i toni e il passo del saggio ma di una narrazione piena e composita. "Raccontare il linguaggio di mio padre e di mia madre corrisponde anche alla descrizione di com'erano mettendo in luce i loro conflitti e i loro tormenti. Tutto il capitolo sulla madre - rimarca - è orchestrato attorno alla sua malattia fino alla sua morte. Un passaggio in cui emerge anche il modo in cui cambia il rapporti con i figli. Ho cercato di introdurre e sostenere un forte elemento narrativo proprio perché dovevo in qualche modo bilanciare la presenza di un tessuto espositivo sul linguaggio", conclude.

(di Carlo Roma)

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Cultura

Record per il melone di Chardin, venduto per 26,7 milioni...

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Il dipinto del pittore francese, maestro delle nature morte, è stato aggiudicato da Christie's a Parigi

Record per il melone di Chardin, venduto per 26,7 milioni di euro

Il dipinto "Le melon entamé" ("Il melone tagliato") del pittore francese Jean Siméon Chardin (1699-1779), maestro delle nature morte, è stato venduto all'asta da Christie's a Parigi per 26.730.000 euro, tasse comprese. Il quadro, che non ha vincoli o restrizioni di esportazione, è stato al centro di una lunga gara al rialzo, nella serata di mercoledì 12 giugno, tra più acquirenti e alla fine è stato aggiudicato per oltre tre volte la stima base di 8.000.000 di euro ad un collezionista europeo, come ha fatto sapere un portavoce della casa d'aste all'Adnkronos. Il prezzo di "Le melon entamé" ha stabilito in un'unica volta due record: è il dipinto della categoria "Old Masters" più costoso mai venduto in Francia e la pittura francese del XVIII secolo più cara al mondo.

I prezzi delle opere di Chardin si sono impennati in modo clamaroso dopo che nel 2022 il suo "Cestino di fragole di bosco" è stato venduto per 24,3 milioni di euro all'asta da Artcurial a Parigi, una natura morta su cui poi il Museo del Louvre ha esercitato la prelazione per farlo entrare nelle sue collezioni.

"Le melon entamé" è una delle opere più importanti dell'artista francese ed ha fatto parte delle collezioni Marcille e Rothschild. Per Pierre Etienne, direttore internazionale di Christie's per i dipinti antichi, questo quadro è "un esempio di pura poesia pittorica, un momento sospeso nel tempo che racchiude tutta la magia di Chardin: l'equilibrio della composizione, della luce, del colore e della forma". Il dipinto fu esposto per la prima volta al Salon annuale dell'Académie de Peintures et de Sculptures nel 1761 a Parigi, insieme al suo pendant, "Le bocal d'abricots" (ora all'Art Gallery of Ontario di Toronto) e al famoso "Cestino di fragole di bosco" acquisito nel febbraio scorso dal Louvre.

Il formato ovale, quasi circolare, di "Le melon entamé" sottolinea la natura intima della scena vissuta dallo spettatore. Rara nell'opera dell'artista, questa forma è stata scelta da Chardin per un motivo specifico: diventa, come nel caso di questo dipinto, un'estensione della composizione. In un certo senso, è un'ode alla rotondità. Questa forma è raramente utilizzata dall'artista e, come ha affermato lo storico dell'arte Pierre Rosenberg, è "tra le più belle".

Dopo il Salon del 1761, "Le melon entamé" è entrato a far parte di diverse raccolte prestigiose, acquisite da collezionisti che hanno svolto un ruolo essenziale nella riscoperta del pittore e nella creazione della sua eredità, o i cui nomi sono un segno di eccellenza nel campo dell'arte e del collezionismo in tutti i settori.

"Le melon entamé" è uno dei trenta dipinti di Chardin che hanno fatto parte della rinomata collezione Marcille, tramandata di padre in figlio. Il collezionista François Martial Marcille (1790-1856) fu, all'inizio del XIX secolo, la prima persona che riconobbe e riscoprì tutto il meglio del Settecento e le sue grandi opere d'arte in un'epoca in cui erano state completamente dimenticate. Dopo la morte di François, i figli Camille (1816-1875) ed Eudoxe Marcille (1814-1890), entrambi eccellenti collezionisti, si spartirono la collezione. Soprattutto, colsero il significato del gruppo nel suo insieme, di cui organizzarono mostre pubbliche, contribuendo così a restituire a Jean Siméon Chardin il posto che gli spetta nella storia dell'arte.

"Le melon entamé" fu uno dei lotti venduti alla morte di Camille Marcille nel 1875, quando venne acquistato da Stéphane Bourgeois, mercante d'arte che agiva per conto della baronessa Nathaniel de Rothschild (1825-1899). Come Marcille, il nome Rothschild è il marchio di una dinastia di collezionisti che in ogni campo incarna la raffinatezza, l'erudizione e il gusto impeccabile.

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