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“Il sesso è un fattore biologico”, così l’Inghilterra vuole...

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“Il sesso è un fattore biologico”, così l’Inghilterra vuole modifica il Sistema Sanitario Nazionale

È già polemica in Inghilterra per le proposte di modifica alla Costituzione del Sistema sanitario nazionale Uk (NHS). La proposta è stata presentata come una maggior tutela “per la privacy, la dignità e la sicurezza di tutti i pazienti” che “deve essere integrata nel modo in cui opera il Servizio Sanitario Nazionale secondo una nuova Costituzione che mira a modellare i principi e i valori” del servizio stesso.

Nella sostanza, però, prevede garantire che le cure intime siano effettuate solo da personale sanitario dello stesso sesso del paziente e che donne e uomini transgender siano ospedalizzati con persone del loro stesso sesso biologico. La riassegnazione di genere proteggerebbe i pazienti transgender, “quando possibile”, assegnando una stanza singola in un ospedale.

“Il sesso è quello biologico”

La segretaria per la sanità e l’assistenza sociale, Victoria Atkins, aveva già sottolineato negli scorsi mesi, in un’intervista al Telegraph l’importanza di sostenere che il “sesso è solo quello biologico” e che “dobbiamo rifiutarci di eliminare le donne dalla conversazione”. Il documento proposto oggi, 30 aprile, vede che gli operatori sanitari si impegnino nell’utilizzo di “termini chiari” per comunicare e tenere conto delle differenze biologiche. Ciò fa seguito all’impegno dei ministri di impedire al personale del servizio sanitario nazionale di usare termini come “allattamento al seno” e “persone che partoriscono”.

Ma vediamo nel dettaglio cosa prevedono tali modifiche.

“Cure intime da personale dello stesso sesso”

Come si legge sul sito del Governo inglese, nelle modifiche proposte alla Costituzione del NHS, i pazienti “avranno il potere di richiedere che le cure intime siano eseguite da qualcuno dello stesso sesso biologico, ove ragionevolmente possibile – scrivono -. Una Costituzione aggiornata del Servizio Sanitario Nazionale rafforzerebbe il proprio impegno a fornire reparti separati in base al sesso. Ciò include il collocare i pazienti transgender in una stanza singola, consentito ai sensi dell’Equality Act 2010, quando è possibile”.

“Vogliamo che sia assolutamente chiaro che, se un paziente desiderasse ricevere cure da persone dello stesso sesso, dovrebbe avervi accesso laddove ragionevolmente possibile – ha spiegato Victoria Atkins -.  Siamo sempre stati chiari sul fatto che il sesso è importante e i nostri servizi sanitari dovrebbero rispettarlo”.

Dello stesso parere, anche la ministra per la Strategia per la salute delle donne, Maria Caulfield, che ha dichiarato: “L’aggiornamento della Costituzione del Servizio Sanitario Nazionale è fondamentale per garantire i principi alla base del nostro lavoro. Si tratta di mettere i pazienti al primo posto, dando loro la dignità e il rispetto che meritano quando sono più vulnerabili. I nostri piani includono l’accoglienza delle richieste di cure intime da parte di persone dello stesso sesso e il rispetto dei reparti in base al sesso biologico”.

Ulteriori modifiche proposte dal governo britannico includono:

• implementare l’impegno per i pazienti e per i loro familiari in contesti specialistici, laddove le condizioni del paziente stiano peggiorando.
• rafforzare le responsabilità dei pazienti di annullare o riprogrammare gli appuntamenti e del servizio sanitario nazionale di comunicare chiaramente le informazioni sugli appuntamenti.
• chiarire che i pazienti possono aspettarsi che la loro assistenza sanitaria fisica e mentale sia centrata sulla persona, coordinata e adattata alle loro esigenze.
• rafforzare l’impegno del Servizio Sanitario Nazionale nei confronti degli assistenti sanitari non retribuiti.

La polemica

La notizia ha creato non poche polemiche. Le accuse ai rappresentanti dell’NHS riguarderebbero la scelta di proporre una “guerra culturale” nelle modifiche, piuttosto che una vera e propria rimodulazione del sistema sanitario.

Nicola Ranger, capo infermieristico e vicedirettore generale del Royal College of Nursing (RCN), ha sottolineato che i pazienti possono già richiedere che l’igiene intima venga effettuata da un membro del personale dello stesso sesso: “Secondo la modifica proposta dal governo, un ospedale sarebbe autorizzato a collocare un paziente transgender in una stanza singola se un altro paziente esprimesse il desiderio di essere in un ambiente dello stesso sesso”.

Dello stesso parere è anche Matthew Taylor, amministratore delegato della Confederazione del NHS, che in una nota ha dichiarato: “La Costituzione del Servizio Sanitario Nazionale è una risorsa vitale che stabilisce i principi e i valori che lo governano e ciò che i pazienti, il personale e il pubblico in generale possono aspettarsi di ricevere dal servizio sanitario. Pertanto, noi e i nostri membri dovremo rivedere le proposte in dettaglio come parte del processo di consultazione del governo. Ciò che è assolutamente chiaro in questa fase è che dovrà essere mantenuta l’attenzione sull’assistenza di alta qualità per tutti e che il servizio sanitario nazionale non dovrà essere trascinato in un dibattito sulle guerre culturali pre-elettorali. Non è qui che si dovrebbero concentrare le energie”.

La Costituzione del Sistema sanitario nazionale per l’Inghilterra è stata aggiornata l’ultima volta nel 2015. Deve essere aggiornata almeno ogni dieci anni dal Segretario di Stato. Si tratta di un documento che delinea i diritti dei pazienti e del personale. La consultazione vedrà una prima fase di una revisione della Costituzione della durata di otto settimane. Il governo prenderà in considerazione le risposte di tutti, compreso il pubblico, i medici e gli operatori sanitari, i pazienti e le organizzazioni che li rappresentano, così come tutte le parti interessate nel settore sanitario, prima di pubblicare la risposta alla consultazione.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Social e internet, le ragazze sono più connesse dei...

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Sono nati quando internet e i social già esistevano ed erano già usati da tutti. Circondati da pc, smartphone o tablet, hanno imparato a navigare prima ancora che a leggere. Sono i nativi digitali, i giovani nati dopo l’inizio del nuovo millennio, in un mondo ormai immerso nel web. Tra questi, la fascia d’età tra gli 11 e 19 anni è stata oggetto di analisi da parte dell’istat, che ne ha identificato abitudini, desideri e prospettive nell’indagine ‘Bambini e ragazzi – anno 2023’, diffusa ieri. Un gruppo di oltre 5 milioni e 140 mila persone (al 1° gennaio 2024) ma destinato a ridursi anche considerevolmente in futuro, secondo quanto previsto dalle proiezioni demografiche.

Quali sono dunque le caratteristiche di questa generazione che non ha mai conosciuto un mondo che non fosse anche digitale, e l’ebbrezza di darsi appuntamento al muretto senza potersi più telefonare e comunicare eventuali contrattempi una volta usciti di casa?

La diffusione dei social e le relazioni con gli amici

Intanto si nota la predominanza dei social: quasi l’85% dei ragazzi tra 11 e 19 anni ha un proprio profilo, percentuale che supera il 97% nella fascia 17-19 anni. E sono soprattutto le ragazze ad averne uno: l’86,4% contro l’83,4% dei coetanei maschi.

E proprio attraverso i social passano e si sviluppano le relazioni sociali: l’8,4% dei giovanissimi è continuamente online o al telefono con gli amici (tramite chat, chiamate, videochiamate, ecc.), e il 40,3% è comunque online o al telefono con gli amici più volte al giorno.

Anche in questo caso sono le ragazze ad essere più connesse: tra di loro la quota di chi è in contatto online continuamente o più volte al giorno con amici e amiche è del 54,6%, a fronte del 43,2% dei maschi. Una differenza notevole, di oltre 10 punti percentuali.

Un punto importante è che chi ha più relazioni online ha anche più spesso relazioni dirette con i coetanei. Nello specifico, tra coloro che sono continuamente online il 29% vede gli amici tutti i giorni, contro una media del 21,4%, mentre tra chi non è mai on line con gli amici c’è un 19% che non li vede nemmeno mai ‘dal vivo’, contro una media dell’1,9%.

Nuove amicizie e amori nascono grazie a internet

Questo a dimostrazione del fatto che il digitale per i giovanissimi è solo un’ulteriore modalità di relazionarsi e di coltivare i rapporti con gli altri. Una considerazione confermata dal fatto che il 46% dei giovani tra 11 e 19 anni afferma di aver stretto nuove amicizie grazie a internet e quasi il 14% ha conosciuto sul web il proprio ragazzo o la propria ragazza.

Anche qui il genere conta: le ragazze hanno più frequentemente relazioni online con gli amici rispetto ai ragazzi, ma meno relazioni dirette: il 68% vede i coetanei tutti i giorni o almeno qualche a volta a settimana, a fronte del 76,8% dei maschi.

Italiani e stranieri, abitudini diverse

L’Istat ha riscontrato differenze sia geografiche sia per quanto riguarda la cittadinanza. I ragazzi al Sud infatti hanno più spesso un profilo social: l’88,5% contro l’84,9% del Centro, l’82,7% del Nord-ovest e l’81,2% del Nord-est). Inoltre hanno una maggiore intensità di relazioni, sia dirette sia indirette: il 75,2% di ragazzi che vedono gli amici almeno una volta a settimana e il 51,4% di giovanissimi quotidianamente connessi con gli amici, superiore alla media nazionale (rispettivamente 72,6% e 48,7%).

Per quanto riguarda invece gli stranieri, questi dal canto loro hanno meno spesso un profilo personale (82,1%), in particolare i cinesi (69%). E mentre gli italiani in generale vedono gli amici tutti i giorni o almeno qualche a volta a settimana nel 73,5% dei casi, gli stranieri lo fanno nel 63,8% dei casi.

Anche sul tempo di connessione ci sono variazioni: i giovani italiani online continuamente o più volte al giorno sono il 50,2% mentre tra gli stranieri la quota resta al di sotto del 35%, soprattutto per il peso della componente cinese, pari al 24%, che abbassa la percentuale.

E se serviva un’altra prova per dimostrare che per i ragazzi la vita quotidiana passa e si svolge attraverso uno schermo, ecco che il 79% di loro ha riposto al questionario Istat utilizzando lo smartphone o il tablet.

Insomma, internet ormai è diventato una parte imprescindibile di ogni giorno, soprattutto per i giovanissimi per i quali l’uso del web e delle chat è del tutto naturale: sono lontani, e probabilmente nemmeno troppo da rimpiangere, i tempi delle cabine telefoniche, dei gettoni e delle telefonate alla propria ragazza cercando di non farsi sentire dai propri genitori e sperando che all’altro capo del filo non rispondesse il padre.

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Anziani intelligenti quasi quanto i giovani: perché il gap...

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Si dice che dai vent’anni circa le facoltà mentali inizino a subire un lento ma costante declino. Negli ultimi tempi, però, il gap di intelligenza tra anziani e giovani si è notevolmente ridotto, e non è mai stato così sottile. La domanda sorge spontanea: sono diventati meno intelligenti i giovani o più intelligenti gli anziani?

Le risposte arrivano dallo studio dell’università di Nottingham pubblicato sulla rivista scientifica “Developmental Review” e sul sito “The Conversation”, condotto dallo psicologo Stephen Badham e sono positive: il gap di quoziente intellettivo tra le generazioni si è assottigliato non per un peggioramento delle facoltà dei giovani ma per il miglioramento degli anziani, che ottengono punteggi sempre più alti nei test

Dalla metà del ventesimo secolo a oggi, i test cognitivi hanno rivelato infatti un trend sorprendente: gli anziani ottengono punteggi sempre più alti nei test sul quoziente intellettivo, avvicinandosi a quelli dei più giovani.

Badham ha spiegato: “Ho cominciato a incuriosirmi quando con il mio gruppo abbiamo notato risultati strani in laboratorio. Trovavamo differenze tra le classi di età molto ridotte, oppure assenti. Questo contrastava con le ricerche fatte prima degli anni Duemila”.

Le cause

Lo studio ha coinvolto volontari di diverse fasce d’età, monitorati per un periodo di sette anni. I risultati hanno mostrato miglioramenti significativi nelle aree dell’intelligenza che tendono a beneficiare dell’esperienza e dell’età, come il vocabolario e le abilità linguistiche. Questi miglioramenti sono stati particolarmente evidenti negli individui più anziani.

Mentre la demografia mondiale è in rapida evoluzione, non è facile individuare le cause che hanno portato ad una riduzione del gap. Lo studio precisa che le cause non sono attribuibili a mutazioni genetiche, dato che le generazioni considerate nello studio sono troppo vicine temporalmente perché l’evoluzione giochi un ruolo significativo.

Invece, si ipotizza che i miglioramenti siano dovuti a:

Cultura: l’accesso all’istruzione di massa ha fornito alle persone strumenti cognitivi più robusti;
Nutrizione: dieta e salute migliorata contribuiscono al benessere cerebrale;
Cure mediche: come ampiamente analizzato su queste pagine, i progressi nella medicina hanno aumentato la durata e migliorato la qualità della vita;
Stimolazione mentale: gli anziani di oggi sono più attivi mentalmente, grazie anche alla tecnologia e ai media.

Il paradosso digitale

Dallo studio di Badham emerge quello che possiamo definire “il paradosso del digitale”: se la scienza è concorde nel ritenere che la eccessiva esposizione allo schermo stia peggiorando la salute mentale dei giovani, pare anche vero che proprio l’uso degli smartphone abbia effetti positivi sulle facoltà mentali dei più anziani.

Negli ultimi anni, sempre più studi dimostrano che la socialità svolge un ruolo fondamentale nella salute delle persone. Impossibile evitare il riferimento all’attuale contesto sociale e demografico: in Ue, e in particolare in Italia, anche a causa della crisi demografica e delle migrazioni interne, ci sono sempre più anziani soli. Nel 2022 il 30,52% degli ultra 65enni italiani viveva da solo e la tendenza è a peggiorare. Per molti di loro, le connessioni digitali rappresentano il più frequente, se non l’unico, mezzo di contatto con i propri cari. Molti nonni vivrebbero molto peggio se non potessero vedere i propri nipoti, fosse anche a distanza.

Un’indagine di Harvard impostata a partire dagli anni Trenta fa luce su questi aspetti. Le informazioni sono oggi archiviate nell’Università di Boston e contengono i dettagli sui partecipanti, dallo stato di salute agli amici, dai test sulle performance intellettuali alle risonanze magnetiche del cervello.
Il risultato è chiaro: i legami personali forti lasciano segni nelle emozioni, nei sentimenti, nel modo di pensare. I professori di Harvard hanno scoperto che le persone più appagate dalla vita sociale avevano un numero maggiore di sinapsi rispetto a quanti erano meno soddisfatti.

Sotto il profilo più “fisico” che “psicologico”, altri studi dimostrano persino la correlazione tra la solitudine e gli elevati livelli di infiammazione cronica presenti in alcuni pazienti. Secondo uno studio del 2014 dell’Università di Chicago, perdere i contatti con gli altri, dopo i cinquant’anni, può essere letale due volte di più dell’obesità.

Insomma, digitale croce e delizia. Ciò che va senz’altro perseguito ai fini di una migliore salute fisica e mentale dei giovani è l’eccessivo utilizzo di smartphone e social, come stanno provando a fare diverse inziative in Europa e non solo.

Ricadute sulla silver economy

Lo studio di Stephen Badham apre la strada a una nuova comprensione dell’invecchiamento e della demografia, specialmente per una popolazione sempre più anziana come quella italiana.

La crisi demografica obbliga a cercare soluzioni su più cambi: mentre si cerca di invertire il trend della denatalità, occorre assegnare un nuovo ruolo agli anziani nella società, come già avviene in altre parti del Mondo. Esemplare il caso dell’isola di Okinawa, dove gli anziani non sono un “peso sociale”, ma contribuiscono alla ricchezza sociale ed economica del posto sfruttando le proprie capacità.

L’Italia, che conta un over 65 ogni quattro abitanti (dati Istat), è prima nelle classifiche Ue per aspettativa di vita, non accompagnata, però, da un’aspettativa di buona salute. Sono circa 3 milioni e 860mila (28,4%) gli over 65 con gravi difficoltà nelle attività funzionali di base. Secondo l’Osservatorio Sanità UniSalute, realizzato in collaborazione con Nomisma, il 40% degli italiani, cioè oltre 17 milioni di persone tra i 18 e i 75 anni, soffre di almeno una patologia cronica.

E all’aumentare degli anni, aumentano le difficoltà. In prospettiva, dunque, il numero di non autosufficienti crescerà. Un fenomeno da affrontare, tenendo conto che già nel 2021 la spesa pubblica per il Long Term Care ha richiesto l’1,9% del Pil (33,73 miliardi), di cui il 73,6% per soggetti con più di 65 anni. Per i prossimi anni, si prevede un aumento della spesa pensionistica, sanitaria e assistenziale.

Con la crisi demografica che avanza e mette a repentaglio il welfare, occorre dunque una strategia per incanalare la ricchezza degli anziani in maniera efficiente anche per sostenere la sanità pubblica, in grave affanno.

Secondo uno studio Swg, gli over 70 in Italia detengono una quota consistente della ricchezza complessiva del Paese rappresentandone il 30% dei consumi annuali (220 miliardi) e più del 30% del patrimonio di ricchezza complessivo (3.200 miliardi). Diventa fondamentale integrarli laddove possibile e rispondere alla crescente domanda di beni e servizi crescente, diversificata e sempre più significativa, della silver economy. Questo settore ha un valore in Italia stimato, tra Pil diretto, indiretto e indotto, di circa 620 miliardi di euro.

Lo studio di Stephen Badham offre un nuovo e più roseo scenario sulla possibilità di impiegare e coinvolgere gli anziani nella società, grazie al miglioramento delle loro capacità intellettive. Un progresso che l’Italia non può ignorare.

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Le donne vivono più a lungo ma peggio, la causa è...

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Meglio un giorno da leone o cento da pecora? Un quesito universale che non ha una risposta univoca: ognuno dà la sua, in base al proprio modo di intendere la vita. Sicuramente, però, a nessuno piace invecchiare male. Altre due certezze: l’aspettativa di vita si sta alzando e le donne vivono di più degli uomini (per l’Oms, gli uomini vivono in media 69,8 anni mentre le donne 74,2).

Di più, ma peggio come riporta un nuovo studio pubblicato su Lancet dove si dimostra che mediamente le donne hanno una salute peggiore di quella degli uomini, soprattutto quando si diventa anziani. Per lo studio, i ricercatori hanno utilizzato il Global Burden of Disease Study 2021, un database che si concentra sulle circa 20 patologie più gravi per la salute sopra i 10 anni di vita in oltre 200 Paesi.

Dopo aver raccolto e analizzato i risultati, Lancet lancia un monito alle istituzioni: “Le notevoli differenze di salute tra donne e uomini evidenziano l’urgente necessità di politiche basate su dati specifici per sesso ed età”.

I risultati dello studio Lancet

Il fulcro dello studio sta nel fatto che le condizioni di salute vengono fortemente influenzate anche dal genere, che si riferisce a un costrutto sociale legato ai ruoli e ai comportamenti socialmente attribuiti di uomini e donne e di persone con diversità di genere, oltre che dal sesso, che determina i fattori biologici associati ai cromosomi sessuali e all’anatomia riproduttiva.

Ma quali sono le differenze più evidenti tra donne e uomini?

Per analizzare le differenze uomo-donna i ricercatori hanno utilizzato un indicatore chiamato Disability-Adjusted Life Years (Daly), che è la somma degli anni di vita persi a causa della mortalità prematura e degli anni vissuti con una disabilità. Nonostante la generale condizione peggiore delle donne, i tassi di anni di vita sana persi a causa di una malattia sono risultati più alti negli uomini in 13 delle 20 condizioni analizzate.

Le sette patologie con Daly più elevati nelle donne rispetto agli uomini erano invece: lombalgia, depressione, mal di testa, ansia, disturbi muscoloscheletrici, demenza e HIV.

Quando si crea il gap

Le differenze uomo-donna sotto il profilo patologico iniziano a maturare nell’età adolescenziale “un’età cruciale, quando le norme e gli atteggiamenti di genere si intensificano e la pubertà rimodella la percezione di sé”, scrivono gli autori dello studio insistendo sulla necessità di indagare oltre il sesso, approfondendo la tematica di genere.

Anche un’analisi sull’uso dello smartphone in età adolescenziale o infantile mostrava un forte gender gap tra bambini e bambine.

Una ricerca condotta da Sapiens Lab, organizzazione no profit che studia la salute mentale, ha intervistato quasi 28.000 giovani tra i 18 ei 24 anni, in quattro continenti.

La ricerca ha dato dei risultati netti: i bambini che hanno ricevuto i telefoni in giovane età hanno una salute mentale peggiore, anche dopo essersi adattati agli incidenti segnalati di traumi infantili. Nello specifico:

tra le bambine che hanno ricevuto il loro primo smartphone all’età di 6 anni la percentuale con problemi di salute mentale è del 74%;
tra le bambine che hanno ricevuto il loro primo telefonino a 18 anni, la percentuale crolla fino al 46%;
i bambini che hanno ricevuto lo smartphone già a 6 anni hanno avuto problemi di salute mentale nel 42% dei casi;
i bambini che hanno ricevuto il cellulare a 18 anni, invece, hanno riscontrato problemi di salute mentale nel 36% dei casi.

Pochi studi sulla salute delle donne

Gli autori dello studio Lancet ammettono che l’indagine ha i suoi limiti perché risponde a un quadro binario (femminile o maschile) che non rispecchia la complessità della tematica. Risulta però evidente che dal 1990 al 2021 ci sono stati pochi progressi nel colmare il divario sanitario tra uomini e donne. Basti pensare che prima del 1993, le donne erano escluse dalle sperimentazioni cliniche, fatta eccezione per alcune patologie femminili.

Ancora oggi, la percentuale di donne coinvolte negli studi clinici è meno del 20% e in circa l’80% degli studi effettuati in vitro su modelli cellulari non viene specificato il sesso di origine del donatore. Antonella Santuccione Chadha, neuroscienziata, co-fondatrice e Ceo del Women’s Brain Project di ZurigoAl, ospite al Longevity Summit di Milano, ha spiegato: “La scienza ha condotto pochissimi studi sulla salute femminile, limitandosi alla cosiddetta ‘medicina bikini’, concentrata sull’apparato riproduttivo: utero, ovaie e seno”.

La tematica è quanto mai attuale in Italia, dove nelle ultime settimane è tornato ad accendersi il dibattito sul diritto all’aborto. Sul punto, l’onorevole Sportiello ha sostenuto la necessità di riconsiderare i corpi delle donne, che non hanno la sola funzione di procreare, ribandendo che “la maternità non è l’unica scelta”.

“Le donne non presentano tante patologie pericolose per la vita quanto gli uomini, ma soffrono in modo sproporzionato di condizioni che riducono significativamente la loro qualità di vita”, ha spiegato ad Euronews Health Sara Guila Fidel Kinori, psicologa clinica e membro del comitato per la salute delle donne presso l’ospedale Vall d’Hebron di Barcellona, ​​in Spagna.

Dunque, contrariamente a quanto si possa pensare, la matrice predominante è quella di genere, non quella sessuale. “Le donne – spiega ancora Fidel Kinori – non sono biologicamente diverse dagli uomini ma la cultura e il genere determinano queste differenze, motivo per cui dobbiamo concentrarci e indagare su questi determinanti culturali e socioeconomici che ci differenziano”.

Il contesto sociale

I risultati dello studio Lancet fanno luce sul gender gap che persiste in diversi campi, da quello domestico a quello lavorativo.

In Italia, e non solo, siamo ancora lontani dallo scardinare gli antichi retaggi che vedono la donna come responsabile della cura della famiglia. La differenza emerge chiaramente dai dati Ocse: le donne impiegano mediamente 4,73 ore al giorno per il lavoro domestico e di cura, gli uomini 1,84 ore. La conseguenza più evidente è quella professionale, con una donna su cinque costretta a lasciare il lavoro dopo la nascita del primo figlio.

Corollario: la dipendenza economico-finanziaria delle donne che spesso non solo non hanno potuto affermarsi secondo le proprie scelte di carriera, ma, non disponendo di propri redditi, non hanno neanche libertà di spesa. Un contesto che pesa sull’autodeterminazione ma anche sul benessere mentale e fisico delle donne.

Possiamo riassumere efficacemente dicendo che il gender gap lavorativo è solo la punta dell’iceberg. A livello del mare, c’è il gender gap domestico. Sott’acqua, il background culturale difficile da cambiare, anche se in tal senso ci sono dei timidi miglioramenti.

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