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Divieto di cellulare sotto i 3 anni e maggiore età digitale a 15 anni, la proposta della Francia

Negli ultimi anni, il dibattito sull’uso degli schermi da parte dei bambini ha preso sempre più rilevanza. Un recente rapporto pubblicato in Francia, come riportato da Le Monde, ha sollevato una questione fondamentale: è giunto il momento di vietare l’accesso agli schermi per i bambini di età inferiore ai 3 anni?

Il rapporto, annunciato dal presidente Emmanuel Macron all’inizio dell’anno, è stato redatto da un gruppo di esperti, copresieduto dalla neurologa e neurofisiologa Servane Mouton e dal professore di psichiatria Amine Benyamina, capo del dipartimento di psichiatria e tossicologia dell’ospedale Paul-Brousse di Villejuif (Val-de-Marne). Con loro un epidemiologo, uno psicologo, due giuristi, due specialisti dell’educazione e due del digitale incaricati di valutare il crescente utilizzo degli schermi da parte dei giovani. Tra le conclusioni più rilevanti, gli esperti sottolineano la necessità di una maggiore vigilanza sull’uso dei social media, identificati come un potenziale fattore di rischio per la salute mentale dei giovani.

Il rapporto non solo evidenzia i potenziali rischi legati all’uso degli schermi, ma solleva anche una critica nei confronti dei professionisti del settore. Servane Mouton, neurologa e co-presidente della commissione, sottolinea che la priorità dovrebbe essere la protezione dei bambini, anziché il profitto derivante dal mercato degli schermi.

Quattro gli assi di lavoro fissati:

fare emergere una constatazione condivisa dell’impatto degli schermi sulla salute fisica e mentale dei bambini e degli adolescenti;
valutare l’efficacia dei dispositivi di regolamentazione esistenti, in particolare il controllo genitoriale;
elaborare una dottrina di regolamentazione degli schermi;
proporre e valorizzare strumenti adatti a tutti i pubblici, con approcci differenziati in base all’età.

Divieto totale sotto i tre anni

Una delle proposte più controverse avanzate nel rapporto è il divieto totale di utilizzo degli schermi per i bambini sotto i tre anni, seguito da un accesso limitato tra i tre e i sei anni, con contenuti educativi di qualità e sotto la supervisione di un adulto. Questo approccio mira a “riprendere il controllo” sull’impatto negativo degli schermi sull’infanzia e a promuovere un ambiente più sano per lo sviluppo dei bambini. Una delle principali preoccupazioni, infatti, riguarda l’esposizione dei bambini a contenuti dannosi, come la pornografia e la violenza, su Internet. Gli esperti sottolineano anche i rischi associati all’uso dei social media, che potrebbero aumentare i sintomi di ansia e depressione, specialmente nei casi di vulnerabilità preesistente.

Tuttavia, la proposta non si ferma qui. Suggerisce anche di limitare l’uso dei telefoni cellulari e dei televisori nelle maternità e di vietare computer e televisori nelle nursery e nelle classi materne. La commissione invita inoltre a una maggiore regolamentazione dell’accesso ai dispositivi digitali per i bambini più grandi, suggerendo di ritardare l’uso dei telefoni cellulari fino all’età di undici anni e di fornire smartphone senza accesso ai social media fino ai quindici anni.

In risposta alle crescenti preoccupazioni sulla dipendenza dagli schermi e sui potenziali rischi per la salute mentale dei giovani, il governo sta, quindi, manifestando l’intenzione di adottare misure più severe per regolare l’uso degli schermi, compresa l’implementazione di una legge che fissi la maggiore età digitale a quindici anni.

Età digitale a 15 anni

Queste raccomandazioni non sono passate inosservate nel panorama politico francese. Il primo ministro Gabriel Attal ha espresso il suo sostegno alla regolamentazione dell’uso degli schermi, annunciando l’intenzione di far rispettare una proposta di legge che stabilisce l’età digitale a 15 anni.

Anche il ministro dell’istruzione nazionale, Nicole Belloubet, si è schierato a favore di una “pausa digitale” nelle scuole, per limitare la circolazione dei telefoni cellulari tra gli studenti.

Questa proposta solleva interrogativi fondamentali sul modo in cui la società affronta l’uso sempre più diffuso della tecnologia da parte dei bambini e dei giovani. Se da un lato la tecnologia offre opportunità senza precedenti per l’apprendimento e lo sviluppo, dall’altro solleva importanti questioni etiche e sociali che richiedono una risposta ponderata e responsabile da parte di genitori, educatori e legislatori. Resta da vedere se le raccomandazioni verranno adottate e quali saranno le implicazioni per il futuro dell’infanzia digitale.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Parlare di aborto al G7? “Non è opportuno con il Papa”

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Niente aborto nelle conclusioni del G7. Questo è lo scenario più plausibile oggi, all’inizio del summit. Aborto sì o aborto no? Questo è il vero dilemma. Fonti italiane hanno chiarito che non c’è stata nessuna richiesta di eliminare il punto sul diritto a garanzia dell’interruzione di gravidanza. E, ad esprimersi “ufficiosamente” sulla presunta mancanza di un riferimento a tale diritto nelle conclusioni del summit, è stato il ministro dell’Agricoltura e sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, che ha detto: “Non so se a un G7 a cui partecipa anche il Papa fosse opportuno”.

Ma perché è importante parlare dell’accesso effettivo e sicuro all’aborto? “Se hanno scelto di non metterlo ci sarà un perché e una ragione più che condivisibili”.

Aborto, tema marginale?

Le tematiche da trattare sono diverse. Un prestito da 50 miliardi di dollari a Kiev è la prima questione. L’uso degli asset russi congelati per aiutare l’Ucraina è la seconda. Il rischio che i tassi possano scendere generando minori extraprofitti è la terza. E cosa potrebbe accadere se alle elezioni americane dovesse vincere Trump è la quarta. Parola d’ordine: pace. Pace che viene espressa anche con la presenza del Papa, di cui parlava il ministro Lollobrigida, ma che impedirebbe di trattare di una tematica senz’altro calda. La Francia pare abbia chiesto di rafforzare il concetto del diritto d’aborto rendendolo più incisivo. Una richiesta che ha generato una querelle all’Italia, la cui presidenza al G7 in Puglia, non contribuisce a sbrogliare la matassa.

Sulle presunte voci che vedrebbero l’Italia convolta nel blocco alla citazione del diritto nelle conclusioni si sono già espresse diverse realtà. La prima è la Cgil che ha chiesto al Governo di chiarire la “sua posizione su aborto libero e sicuro”: “Stiamo assistendo sconcertate all’ennesima grave messa in discussione della libertà di scelta delle donne sul loro stesso corpo – ha affermato la segretaria confederale della Cgil Lara Ghiglione -. Uno scambio del governo Meloni fatto sulla nostra pelle che ribadisce come, per la premier, i nostri diritti valgano poco o nulla e che delimita ancora più chiaramente l’area internazionale ed europea di riferimento dell’attuale Esecutivo, che porta il Paese lontano dalla cultura europea di ampliamento dei diritti e delle libertà – e ancora -. Chiediamo alla prima Presidente del Consiglio donna della storia del nostro Paese di fare chiarezza sulla posizione del Governo rispetto al diritto all’aborto libero e sicuro e agli altri diritti delle donne”.

Ma è davvero così importante parlare di aborto con i capi di Stato e di Governo di Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Giappone e Canada? La risposta è “Sì”. Vediamo perché.

Diritto (costituzionalmente) garantito a metà

La legge 194 è una legge a contenuto costituzionalmente vincolato. Come molte leggi è, cioè, espressione di diritti costituzionali, Il riferimento va all’art. 2 sull’inviolabilità dei diritti umani e all’art. 32 che tutela il diritto alla salute. Non la si può abrogare neppure via referendum perché significherebbe violare la Costituzione, come ha sancito la Consulta con la sentenza n. 35 del 1997: “L’articolo 1 della legge n. 194 del 1978 afferma un principio di contenuto più specificamente normativo, quale è quello per cui l’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite […] Non è pertanto ammissibile un referendum diretto all’abrogazione dell’art.1. Analoghe considerazioni valgono per le altre disposizioni investite dalla richiesta referendaria”.

La presenza di questo diritto non è mai stata messa in dubbio. La sua applicabilità sì. Perché, se non ci sono i mezzi e gli strumenti per realizzarlo, il problema sussiste. Il 12 settembre 2023 è stata trasmessa al Parlamento la relazione contenente i dati definitivi 2021 sull’attuazione della legge 194/78 contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza. I dati più recenti relativi all’aborto vedono 63.653 interruzioni volontarie nel 2021. Un tasso di abortività pari a 5,3 interruzioni ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni, numero in calo rispetto agli anni passati e tra i più bassi a livello globale.

In Italia, però, si fa ancora fatica ad accedere ad un aborto senza tribolazioni. Nel nostro Paese, secondo i dati del ministero della Salute relativi sempre al 2021 (gli ultimi disponibili diffusi a ottobre 2023), gli obiettori di coscienza sono circa il 63,4% dei ginecologi, il 40,5% degli anestesisti e il 32,8% del personale non medico. Con il termine “obiettori di coscienza” ci si riferisce al personale sanitario che, per motivi etici, rifiuta di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) a una paziente entro i primi 90 giorni di gestazione come previsto dalla legge. In altri termini, non renderebbe accessibile tale pratica a chi ne avesse volontà o necessità, costringendo una donna a rivolgersi altrove o a doversi spostare anche in un’altra Regione per trovare una struttura nella quale abortire.

Perché gli altri Stati vogliono che l’Italia sia chiara sul tema?

Tra obiettori di coscienza e Papa Francesco, l’Italia è riluttante a parlare di aborto al G7. E mentre ciò avviene nel nostro Paese, altri fanno passi da gigante sul tema. In primis, il Parlamento europeo a votato lo scorso 4 novembre per includere il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. La proposta è già stata presentata nel 2022 ed è stata ripresa dopo che la Costituzione francese ha incluso il diritto all’aborto all’inizio del 2024.

Con 336 voti a favore, 163 contrari e 39 astensioni, il Parlamento ha votato a favore della modifica della Carta. Prima che questa modifica possa diventare realtà, serve l’unanimità dei 27 Stati membri. A sostenere la modifica sono stati i Socialisti e Democratici, il Partito Verde/Efa e i partiti Renew e Sinistra, mentre il Ppe si è diviso a metà. Con rare eccezioni, gruppi conservatori e riformisti e di Identità e democrazia, tra cui il partito di Giorgia Meloni, si sono opposti alla modifica.

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La dolce attesa non è sempre dolce: i disturbi dell’NVP

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Chi dice che la gravidanza è solo rose e fiori? Uno studio svela i retroscena meno noti della dolce attesa, focalizzandosi sulla nausea e il vomito in gravidanza (NVP) e indagando il suo impatto sulla qualità di vita, sull’attività lavorativa e sulla vita personale. Coinvolgendo un ampio e rappresentativo campione di gestanti italiane, lo studio sfida l’idea che tali disturbi siano limitati alle prime fasi della gravidanza, dimostrando che possono persistere ben oltre il primo trimestre.

La NVP, un problema diffuso e sottovalutato

Le “nausee mattutine” sono spesso considerate un fastidio temporaneo delle prime settimane di gravidanza. Tuttavia, lo studio Purity, primo e unico studio multicentrico di questo genere in Italia, promosso da Italfarmaco, mostra che la NVP è un fenomeno più persistente. “Nella maggior parte dei casi, la NVP si manifesta in maniera moderata e i sintomi possono persistere oltre il primo trimestre”, spiega Romolo Di Iorio, professore associato di Ginecologia e Ostetricia all’Università di Roma Sapienza. Circa il 37% delle donne sperimenta vomito insieme alla nausea e, in casi rari (circa il 4%), si arriva all’iperemesi gravidica, una condizione che può richiedere il ricovero e che nei casi più gravi comporta rischi significativi sia per la donna che per il bambino.

Studio Purity: metodo e scoperte

Lo studio ha coinvolto 528 donne gravide da tre ospedali italiani: l’Ospedale dei Bambini “Vittore Buzzi” di Milano, il Presidio Ospedaliero SS. Annunziata di Chieti e l’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli. Le partecipanti hanno risposto a questionari in due fasi: la prima tra la diciottesima e la ventiduesima settimana di gravidanza, e la seconda entro 14 giorni dal parto. Questo ha permesso di valutare la prevalenza, la gravità e l’impatto della NVP, l’insorgenza e la durata dei sintomi, i trattamenti ricevuti e l’impatto sulla qualità della vita, nonché le conseguenze neonatali.

“Ci siamo posti come obiettivo non solo quello di esaminare la gravità del disturbo e le possibili terapie, ma anche gli aspetti legati alla qualità di vita della gestante”, afferma Irene Cetin, professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia dell’Università degli Studi di Milano.

I risultati indicano che la NVP colpisce il 66% delle donne italiane. La gravità della NVP è stata misurata utilizzando la scala PUQE (Pregnancy-Unique Quantification of Emesis and Nausea), con risultati che indicano che il 62% delle donne ha sperimentato sintomi moderati, mentre il 4% ha sofferto di sintomi gravi. Solo il 25% delle donne ha ricevuto un trattamento, farmacologico o non farmacologico, con la maggior parte di esse (67,7%) che ha utilizzato l’associazione di Doxilamina 10 mg e Piridossina 10 mg. “Uno dei risultati più importanti e statisticamente significativi raccolti è stato quello riferito al tempo gestazionale: infatti le donne che presentano nausea e vomito in gravidanza hanno avuto in media un tempo gestazionale più corto; quindi, hanno avuto un parto pretermine, in quanto non sono arrivate alla quarantesima settimana”, aggiunge Cetin.

PURITY-Extended

La SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia), in linea con gli obiettivi dello Studio Purity, ha lanciato il progetto PURITY-Extended. Questo studio prospettico osservazionale multicentrico mira a determinare la portata della NVP su un campione più vasto e a monitorarne l’evoluzione durante i tre trimestri della gravidanza. Con la partecipazione di 1.300 gestanti provenienti da 100 strutture ospedaliere in tutta Italia, lo studio valuta non solo l’incidenza e l’evoluzione della NVP, ma anche le differenze geografiche e socioeconomiche, l’approccio dei ginecologi alla gestione del disturbo, e le possibili conseguenze sulla salute della madre e del bambino. “Era necessario colmare un vuoto nella letteratura scientifica italiana”, afferma Nicola Colacurci, past president della SIGO. “Attualmente, l’impatto della NVP è ancora sottostimato, spesso rilevato solo quando i sintomi influiscono gravemente sulla qualità della vita delle donne. Con oltre 500 donne già intervistate, ci aspettiamo i primi risultati dello studio in ottobre”.

“Italfarmaco si impegna a migliorare la vita dei pazienti con prodotti innovativi e ricerche di alto valore”, aggiunge Mario Mangrella, direttore medico scientifico e degli Affari Regolatori di Italfarmaco. “Siamo fieri di aver promosso lo studio Purity, contribuendo così a creare nuove evidenze scientifiche. Supportare le donne durante la gravidanza è cruciale, poiché questo periodo può influenzare profondamente la vita familiare, sociale e professionale. Il ruolo dell’alimentazione materna è fondamentale per la crescita fetale e la salute del bambino. La NVP può compromettere gravemente l’assunzione di nutrienti essenziali, per questo è importante identificare e gestire la NVP con trattamenti appropriati”.

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Il 17% della GenZ si identifica come Lgbtq+

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È arrivato il mese del Pride e come ogni anno porta con sé polemiche e discussioni. E mentre l’Italia si colora di arcobaleno nei prossimi giorni, in altri Paesi o per alcune generazioni i diritti Lgbtq+ sono ancora un problema. Un dato significativo è che la Generazione Z è la più propensa a identificarsi nella comunità Lgbtq+. Questo è quanto è emerso in un’indagine Ipsos in vista del Pride Month 2024, secondo la quale il 17% dei giovani in media nei 26 Paesi analizzati si identifica nella comunità. Questo dato si scontra con l’11% dei Millennials, il 6% della Generazione X e il 5% dei Baby Boomers.
L’incremento delle identificazioni Lgbtq+ è soggetto, quindi, a divari di genere, generazionali e geografici su una serie di questioni specifiche. Scopriamole insieme.

Month Pride 2024: a che punto siamo?

Il mese di giugno è il Month Pride: trenta giorni dedicati alla comunità Lgbtq+ e a chi la sostiene e ne tutela il diritti e si celebra in tutto il mondo con eventi specifici e dedicati. Nonostante le bandiere multicolore invaderanno le città italiane, europee in molti altri Paesi, non vuol dire che la lotta alla parità dei diritti per la comunità sia stata vinta. Lo spiega chiaramente l’indagine Ipsos, secondo la quale, il sostegno alle unioni omosessuali varia ancora notevolmente da Paese a Pese. Ne è un esempio il confronto tra la Svezia, con l’86% dei cittadini che si dichiara a favore contro il 37% della Turchia.

Dal report, inoltre, è emerso che sono le donne, della GenZ nello specifico, quelle più propense rispetto ai coetanei maschi a sostenere diversi diritti e protezioni per le persone Lgbtq+. Il 65% delle donne GenZ, ad esempio, concorsa sul fatto le che coppie dello stesso sesso debbano potersi sposare legalmente. Per i maschi della stessa generazione, il bilancio si ferma al 45%.

Meno di una persona su due – continua l’indagine – sostiene le aziende e brand che promuovono attivamente l’uguaglianza per le persone Lgtq+. Il sostegno è sceso di cinque punti percentuali al 44% dal 2021, mentre il 19% si oppone ora a questa mossa di marketing.

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Preoccupazione per le discriminazioni

C’è una preoccupazione diffusa per le discriminazioni subite dalle persone transgender. Una media globale del 66% afferma che le persone transgender sono molto/abbastanza discriminate nella società di oggi. Il 72% afferma che le persone transgender dovrebbero essere protette da discriminazioni in materia di occupazione, alloggio e socialità.

Come osserva l’Ipsos Generations Report 2024, la GenZ è probabilmente la prima generazione veramente globale e quindi, anche nei Paesi conservatori, ha opinioni più aperte sui temi della sessualità e del genere.

Questo significativo cambiamento della società si riflette in molti dei sondaggi globali, secondo i quali la GenZ è la generazione più propensa a identificarsi come parte della comunità Lgbtq+, seguita dai Millennials con l’11%: “Resta da vedere se le generazioni più giovani continueranno a identificarsi come Lgbtq+ con l’avanzare dell’età e con l’instaurarsi di relazioni sentimentali a lungo termine”, scrivono i ricercatori.

Divisione all’interno della GenZ

Il confronto tra uomini e donne della GenZ è di quanto più significativo. Indagini angloamericane hanno già dimostrato in passato che le divergenze di opinioni conducono lentamente maschi e femmine verso direzioni opposte sulle definizioni di maschilismo, femminismo e gender gap. Mentre i giovani maschi si dimostrano più conservatori su una serie di tematiche, le donne hanno manifestato un’apertura maggiore e lo stesso vale quando si parla di diritti per la comunità Lgbtq+. Ad esempio, le donne della Generazione Z tendono ad appoggiare maggiormente le aziende e i marchi che si impegnano attivamente per l’uguaglianza delle persone LGBT+, con una percentuale del 58%, rispetto al 37% degli uomini della stessa generazione.

Questo divario di opinione si riscontra anche riguardo alla presenza di più personaggi Lgbtq+ in televisione, cinema e pubblicità, con il 51% delle donne della Generazione Z che lo approva, rispetto al 33% degli uomini.

La discordanza tra i sessi si estende anche ad altre questioni relative ai diritti, come l’importanza di leggi che proibiscano la discriminazione basata sull’orientamento sessuale nell’occupazione, nell’educazione, nell’alloggio e nei servizi sociali. Infine, è importante notare che questo divario di genere tra i membri della Generazione Z non è limitato alle questioni LGBT+, ma si riflette anche in altre questioni sociali, come evidenziato dal recente Ipsos Equalities Index 2024.

Le questioni transgender sono divisive

Una forte maggioranza (71% in 23 Paesi, -3% dal 2021) concorda sul fatto che le coppie omosessuali dovrebbero essere autorizzate a sposarsi e/o legalizzare la loro relazione. In Italia il 77% è favorevole a una qualche forma di riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso; nello specifico il 58% è favorevole al matrimonio egualitario e il 19% al riconoscimento legale, mentre i contrari sono il 10%.

Anche il sostegno verso le adozioni varia tra i diversi Paesi oggetto dell’indagine, con l’82% della Thailandia a favore e il 29% della Turchia contrario. In Italia, la maggioranza assoluta (il 66%) è favorevole alle adozioni per le coppie omosessuali, mentre il 30% è contrario.

Se negli ultimi anni una maggiore apertura dei confronti del matrimonio egualitario è evidente, al contrario c’è una preoccupazione diffusa per le discriminazioni subite dalle persone transgender. Una media globale del 66% afferma che le persone transgender sono molto discriminate nella società attuale. Il 72% sostiene che dovrebbero essere protette da discriminazioni sul lavoro, nell’alloggio e nella socialità. Nonostante queste posizioni di sostegno nei confronti di maggiori protezioni, solo la metà (51% in media nei 26 Paesi) è attualmente d’accordo sul fatto che le persone transgender dovrebbero essere autorizzate ad utilizzare bagni o spogliatoi che corrispondono al genere con cui si identificano, mentre uno su tre (34%) si oppone.

Sempre la metà (50%) è d’accordo che i documenti rilasciati dal governo, come i passaporti, debbano includere un’opzione diversa da “maschio” e “femmina” per le persone che non si identificano in nessuno dei due generi, mentre il 36% è contrario.

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