Sostenibilità
“Copyright e privacy rischiano di essere cannibalizzati...
“Copyright e privacy rischiano di essere cannibalizzati dall’AI”, come evitarlo? Parla Guido Scorza
L’avvocato, componente del Garante per la protezione dei dati, avverte sui rischi e spiega il ruolo dell’AI Act
Intorno all’Intelligenza Artificiale si stanno sviluppando sentimenti estremi: o ci porterà via dalla vita dedicata prettamente al lavoro, o ci distruggerà tutti. Nessuna via di mezzo nell’opinione pubblica: o estremo entusiasmo o terrore.
Tra le paure quella che neanche i contenuti coperti da copyright siano al sicuro: “Una certezza più che un rischio”, spiega all’Adnkronos l’avvocato Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati, in occasione dell’AI Festival organizzato da Search On Media Group e WMF - We Make Future il 14 e 15 febbraio 2024 al MiCo di Milano.
Il vaso di Pandora è stato aperto dalla causa intentata dal New York Times contro OpenAI e Microsoft per violazione di copyright. Il quotidiano della Grande Mela chiede ai giudici di porre fine alla pratica di utilizzare i suoi articoli per addestrare i chatbot.
“Tutto sommato – continua Scorza – la stessa Open AI ha ammesso di aver bisogno anche di dati coperti da copyright per addestrare al meglio i propri algoritmi”.
Si parla molto di questo aspetto, meno dei dati coperti da privacy “perché vengono considerati con un valore economico inferiore rispetto a quello del copyright, probabilmente a torto”, spiega l’avvocato.
Ciò non significa che queste tecnologie vengano addestrate usando solo contenuti coperti da copyright: “Ovviamente quello che succede sul copyright vale anche per la privacy. – chiarisce Scorza –Credo che questa sia la questione più grande da risolvere: da una parte l'esigenza di queste società di migliorare i propri algoritmi utilizzando una enorme quantità di dati, dall’altra quella di aziende e cittadini di tutelare i propri dati e contenuti”.
D’altronde il contesto storico è particolare: mentre cresce l’attenzione dei consumatori e degli investitori per la sostenibilità in senso lato, si sviluppa una tecnologia che per crescere utilizza dati coperti da copyright. Allora, come tutelare gli autori dei contenuti, e far sviluppare l’AI in un contesto più socialmente sostenibile dal momento che, come sottolinea Scorza, “nessuno di noi era informato su questi rischi”?
Una domanda che non riguarda solo Open AI: “Non abbiamo ragione di ritenere che i modelli di addestramento siano stati così così tanto diversi negli altri casi”, precisa l’avvocato. La questione dipende prima di tutto dal considerare l’evoluzione tecnologica una causa che giustifichi o meno questo utilizzo dei dati in giro per il mondo. “Se si risponde di no, e quindi si dice che non c’è una causa esimente, allora si impone alle società di avere bisogno di un permesso per utilizzare i dati coperti da copyright o da privacy. Se invece si dice che questa causa esimente esiste, si mettono a rischio il diritto d'autore e il diritto alla privacy che – ricorda l’avvocato Scorza – sono fondamentali nella cornice europea”.
Se si riterrà predominante l’interesse delle società che sviluppano tecnologie di AI, “entrambi i diritti sono destinati ad essere cannibalizzati, come in parte è già accaduto, e trasformati in asset tecnologici e commerciali”, avverte Guido Scorza.
AI e il rischio di un’innovazione per pochi
Il dibattito sull’AI riguarda la tutela dei dati personali e aziendali, ma anche l’equa distribuzione di questi asset. “Parliamo di un numero molto ristretto di società commerciali stabilite per di più in un paio di paesi in giro per il mondo”, ricorda Scorza, che afferma: “Oggettivamente credo che una distribuzione così oligopolistica degli asset sia poco sostenibile sia in termini di mercato che di democrazia”.
D’altronde una situazione di oligopolio è già presente in vari ambiti della società: “La dieta mediatica globale – aggiunge Scorza – è decisa forse da una decina di soggetti, che finiscono per diventare molto influenti sull’intera comunità”.
L’alternativa non è bloccare il processo di innovazione ma ampliarne i benefici, se non a tutti “almeno a molti e non a un numero ristretto di realtà”, specifica l’avvocato da sempre molto attivo sullo studio delle nuove tecnologie e della loro regolamentazione.
La legge come strumento di trasparenza
Per molti la legge può essere lo strumento che limiti gli effetti negativi di questa rivoluzione tecnologica, ma l’avvocato Scorza ridimensiona le aspettative: “Credo che a livello nazionale in termini di protezione si possa far poco perché ogni singola nazione è troppo piccola rispetto a questo fenomeno. Qualsiasi regolamentazione protettiva nazionale sarebbe velleitaria”.
Diversa la questione se ci si sposta all’ambito comunitario: “Il livello europeo – continua Scorza – mi pare un livello minimo, essenziale, probabilmente persino insufficiente. Pesa 500 milioni di utenti di servizi di servizi digitali su un mercato che conta già oggi tra i 4 e i 5 miliardi di utenti ed è destinato a crescere”.
La Pubblica Amministrazione ha un ruolo fondamentale nel rendere sostenibile questa trasformazione, seguendo due matrici: la legge e gli incentivi alla stessa AI. Sotto il primo profilo, spiega il componente del Garante per la protezione dei dati, bisogna “attuare nella maniera più opportuna le disposizioni dell’Unione europea in materia. Ciò significa anche fare in modo che la PA disponga delle risorse, economiche e umane, necessarie per affrontare questo cambiamento”.
Il ruolo dell’AI Act
Ad aprile il Parlamento europeo si riunirà per approvare il testo definitivo dell’AI Act, “Non mi aspetto modifiche. – spiega Scorza – Siamo alla cesellatura o prossimi alla cesellatura con l'approvazione in Parlamento, apportare modifiche importanti potrebbe far ripartire l’iter dall’inizio, invece il quadro è chiaro”.
Qual è il ruolo che l’AI Act può avere nel regolare la diffusione dell’Intelligenza Artificiale? “Partiamo dal presupposto che non esiste un testo di regolamentazione salvifico. Per affrontare la sfida che abbiamo davanti serve educazione e formazione sul tema. Solo educando gli utenti a un utilizzo responsabile e socialmente sostenibile, si può evitare che questa tecnologia diventi deleteria per l’uomo”.
Se non altro, l’AI Act ha il merito di essere il primo intervento normativo in materia e di sollevare il tema della trasparenza. “Il provvedimento dell’Unione ha diffusamente sollevato il tema dell'esistenza di una serie di questioni che magari, in assenza di questo regolamento, sarebbero passate in sordina o non avrebbero rappresentato neppure occasione di confronto. E poi l’AI Act produrrà indubbiamente trasparenza perché mette un'asticella, un livello da rispettare per quei produttori di intelligenza artificiale, quei distributori di servizi basati sull'intelligenza artificiale anche se stabiliti fuori dall'Unione europea che però vogliano lavorare nel mercato europeo, esattamente come è accaduto con il GDPR”.
Le norme europee, dunque, sono la garanzia più tangibile per i cittadini: “La forza di queste regole è che si applicano a prescindere dal Paese madre della società: se si vuole operare nel territorio dell’Ue, ci sono delle regole, dei requisiti minimi da rispettare. Questa è un’importante garanzia in termini di trasparenza”, spiega ancora Scorza, che però avverte: “Tutto dipende dalle nostre aspettative: se pensiamo che l’AI Act ci consentirà di non diventare colonia algoritmica di altri, ci sbagliamo di grosso. Se, invece, da questo provvedimento ci aspettiamo e auspichiamo più trasparenza sulla diffusione dell’AI, allora non rimarremo delusi”.
Incentivare l’AI in Italia per renderla sostenibile
Un aspetto molto importante della sostenibilità è che la ricchezza e le opportunità date dall’AI vengano divise tra più persone, evitando quello scenario oligopolistico cui si è accennato: “Il primo livello di intervento è quello protezionistico, ma – spiega Scorza – non è l’unico. Anche a casa nostra possano esserci dei campioni, delle eccellenze dell’Intelligenza Artificiale. È fondamentale, quindi, che la Pubblica Amministrazione investa in questa nuova tecnologia”.
Questa strada permetterebbe di perdere meno terreno rispetto a Cina e Usa, già molto avanti nel progresso dell’AI, perché, come ricorda Scorza, “Con i suoi acquisti e investimenti, l'amministrazione è anche un importante soggetto di mercato in Italia così come negli altri Paesi europei. Non nascondiamoci dietro un dito. – chiarisce l’avvocato – Se una delle aziende leader di settore fosse stata di casa nostra, tutti guarderemmo l’AI in maniera diversa, più fiduciosa e meno diffidente”.
Solo pochi mesi fa Google ha annunciato tre prodotti che sfrutteranno l’intelligenza artificiale e il machine learning per affrontare le sfide ambientali e aiutare aziende e cittadini a ridurre il proprio impatto ambientale.
Questi software combinano l'AI, il machine learning, le immagini aeree e i dati ambientali per fornire informazioni aggiornate sul potenziale solare, la qualità dell'aria e i livelli di polline. Tutti e tre i prodotti rientrano nelle Api (application programming interface), ovvero interfaccia di programmazione delle applicazioni.
Ma l’AI potrà anche aiutare le società occidentali a ridurre gli sprechi di energia e a contrastare gli effetti negativi della crisi demografica che imperversa in Occidente.
Esempi di come questo strumento potentissimo possa aiutare l’essere umano. Se usato responsabilmente e non per allargare le già evidenti differenze sociali.
Sostenibilità
Smart Agrifood, tra carbon farming e digitalizzazione: a...
La ricerca dell’Osservatorio Smart AgriFood fornisce una panoramica sullo stato del carbon farming e della tracciabilità
Innovazione digitale e agroalimentare italiano. Queste le tematiche al centro dell’evento di presentazione della Ricerca condotta dall’Osservatorio Smart AgriFood della School of Management del Politecnico di Milano. Tenutosi negli scorsi giorni, il 15 marzo, presso l’Aula Magna della Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Brescia, l’evento intitolato “Smart Agrifood: il dado e tratto! Ora la sfida è la maturità digitale” è stata un’occasione per riflettere sul ruolo che hanno i principali attori del settore nell’impiego delle tecnologie digitali nel settore del carbon farming.
Il Carbon Farming
I fattori di contesto manifestatisi negli ultimi tre anni hanno messo alla prova tutti i comparti industriali, compreso quello agroalimentare. Proprio in questo settore nel 2023, a fronte di una graduale mitigazione di alcune criticità, si è assistito a un significativo impatto degli effetti del cambiamento climatico e degli eventi meteorologici (in alcuni casi estremi). In questo contesto, si è confermata la sostanziale fiducia degli operatori della filiera agroalimentare nei confronti delle soluzioni tecnologiche. Particolare attenzione è stata destinata a quella che è una rivoluzione nel settore: il carbon farming.
Dall’analisi di 214 progetti di carbon farming identificati all’interno del comparto agroalimentare internazionale, è emerso che più dell’80% dei progetti si concentra in Nord America ed Europa. Considerando il numero di crediti erogati, è invece la Cina a detenere il primato, seguita dagli Stati Uniti. Il digitale ha assunto un ruolo rilevante all’interno della “filiera” del carbon farming, potendo supportarne ogni fase: per questo, gli attori dell’offerta di soluzioni digitali dell’Agricoltura 4.0 sono sempre più interessati ad entrare in questo settore.
Un ruolo rilevante viene giocato dalle startup, spesso coinvolte nelle progettualità legate a questo settore, in particolare in Nord America ed Europa: i due continenti ospitano il 78% delle startup mondiali specializzate nell’offerta digitale per il carbon farming. Tra le soluzioni maggiormente proposte, oltre ai software e ai gestionali (78%), ci sono le soluzioni per l’analisi di dati e Big Data (61%), i sistemi di mappatura basati su immagini e dati satellitari (40%) e le soluzioni basate sull’intelligenza artificiale e il machine learning (39%).
Nonostante la forte rilevanza del tema, l’adozione di pratiche di carbon farming risulta ostacolata da diverse criticità. In primis, la diffusa mancanza di conoscenza: secondo una ricerca condotta dall’Osservatorio, in Italia, solo il 22% delle aziende agricole del campione dichiara di conoscere le pratiche di carbon farming e il 9% anche di adottarle. A seguire, ci sono i limiti delle risorse finanziarie e tecnologiche (45%), l’assenza di supporto tecnico e di una consulenza specializzata (43%) e gli alti costi per la realizzazione dei progetti (38%).
Con il termine carbon farming si fa riferimento all’insieme di pratiche, metodi agricoli, che mirano a immagazzinare carbonio nel suolo, nelle radici delle colture, nel legno e nelle foglie. Il termine tecnico per questo è “sequestro del carbonio”. L’obiettivo generale dell’agricoltura del carbonio è creare una perdita netta di carbonio dall’atmosfera, obiettivo imposto per la salvaguardia dell’ambiente, anche tra i goal europei.
Tracciabilità
In Italia, il 2023 ha segnato un nuovo aumento nell’offerta di soluzioni digitali per la tracciabilità alimentare: 225, +22% rispetto al 2022. Il primo motivo che spinge le aziende a implementare soluzioni digitali per la tracciabilità di filiera è la necessità di garantire in maniera diretta al consumatore finale la qualità, l’origine e i metodi produttivi. Diventa sempre più forte, inoltre, il legame tra tracciabilità e sostenibilità.
La tracciabilità ha il ruolo di ridurre la distanza con il consumatore e valorizzare le produzioni. Queste soluzioni consentono di digitalizzare le varie fasi del processo di tracciabilità e sono abilitate da diverse tecnologie: Internet of Things (23%), Mobile App (23%), Cloud (20%) e tecnologie Blockchain & Distributed Ledger (17%). La maggior parte delle soluzioni (57%) è trasversale a più settori, ma cresce la quota di soluzioni specificatamente dedicate al mondo agricolo. Queste includono anche una componente orientata alla valorizzazione dei dati dal campo, dalle pratiche agricole e dai macchinari ai fini della tracciabilità, cercando, quindi, di rispondere al bisogno crescente di reale integrazione dei dati dal campo alla tavola.
Sostenibilità
Greenwashing, ok del Parlamento Ue alla Direttiva Green...
La posizione sarà vincolante anche per la prossima legislatura
Con la direttiva Green Claims, l’Ue fa un ulteriore passo verso un’informazione trasparente e veritiera nell’ambito delle comunicazioni sostenibili.
Il voto favorevole dell’Europarlamento alla Direttiva Green Claims (“Dichiarazioni ambientali”) contro il greenwashing è avvenuto martedì 12 marzo con un ampio margine di consenso (467 favorevoli, 65 contrari e 74 astensioni).
La nuova posizione mira a porre fine alla diffusione di dichiarazioni ecologiche fuorvianti e a promuovere pratiche di sostenibilità autentiche. Con questo voto, l’Europarlamento invia un chiaro segnale alle imprese affinché assumano un approccio più responsabile e trasparente nei confronti dei consumatori, in modo che la transizione verso un’economia verde e sostenibile non sia solo di facciata.
Cosa prevede la direttiva Green Claims
La proposta presentata un anno fa dalla Commissione Europea ha messo in luce un problema diffuso: la presenza di dichiarazioni green fuorvianti da parte di molti operatori economici.
Ecco cosa prevedono le nuove norme approvate dall’Europarlamento:
- Nessuna etichetta senza prova: sicuramente la novità più impattante del testo. Le scritte come “biodegradabile”, “meno inquinante” o “a risparmio idrico” non saranno più ammesse a meno che le aziende non possano fornire prove scientifiche e verificate da enti terzi indipendenti circa la loro veridicità. Non solo: le aziende dovranno fornire queste prove prima di poter commercializzare i propri prodotti con le relative “dichiarazioni green”;
- Tempi certi: le autorità nazionali avranno 30 giorni per valutare le dichiarazioni ambientali e le relative prove, con la possibilità di procedure semplificate per i casi più semplici;
- Limiti al “carbon neutral”: le aziende non potranno fare dichiarazioni ecologiche basate esclusivamente sugli schemi di compensazione delle emissioni di anidride carbonica. Le imprese potranno utilizzare tali schemi solo dopo aver ridotto al minimo le proprie emissioni. In particolare, i crediti di carbonio degli schemi dovranno essere certificati, come già stabilito dal Carbon Removals Certification Framework;
- Sostanze pericolose: le dichiarazioni verdi sui prodotti contenenti sostanze pericolose saranno permesse temporaneamente, ma la Commissione valuterà se debbano essere vietate del tutto.
Sotto il profilo sanzionatorio, le aziende che utilizzano dichiarazioni ambientali non verificate potrebbero essere soggette a multe fino al 4% del fatturato annuale o all’esclusione da appalti pubblici o sussidi per un anno. La direttiva Green Claims prevede che le microimprese (meno di 10 dipendenti e fatturato annuo al di sotto dei 2 milioni di euro) siano esentate dalle nuove norme, mentre le Pmi (meno di 250 dipendenti e fatturato annuo inferiore ai 50 milioni di euro o bilancio inferiore ai 43 milioni di euro) avranno un anno in più per adeguarsi.
Quanto è diffuso il greenwashing
Come riporta economiacircolare.com, già dal 2014 almeno il 75% dei beni sul mercato conteneva dichiarazioni green. Tuttavia, secondo la Commissione Ue, nel 2020 almeno il 53,3% delle informazioni su ambiente e clima presenti in etichetta su un campione esteso di prodotti era ingannevole, il 40% completamente prive di fondamento. Tipica fattispecie di greenwashing.
Nel 2022, sono stati identificati 18 casi di greenwashing che hanno coinvolto importanti brand internazionali.
L’uso di affermazioni ambientali da parte delle aziende per promuovere un’immagine di sostenibilità che non corrisponde alla realtà è cresciuto di pari passo con la maggiore sensibilità dei consumatori verso la sostenibilità dei prodotti e servizi acquistati.
Le dichiarazioni di greenwashing più frequenti riguardano l’uso improprio di termini come “sostenibile”, “eco-friendly”, “verde”, o l’abuso di certificazioni ambientali poco chiare o ingannevoli. Queste affermazioni possono variare dalla presunta neutralità carbonica di un’azienda, all’utilizzo di materiali riciclati o biologici nei loro prodotti, fino a promesse di contributi alla riduzione dell’inquinamento o alla conservazione della biodiversità, che in realtà non trovano riscontro nelle pratiche aziendali.
La consapevolezza dei consumatori riguardo al greenwashing è in crescita, grazie all’aumento dell’attenzione mediatica e alla diffusione di informazioni tramite organizzazioni ambientaliste e piattaforme di divulgazione. Questo ha portato a una maggiore vigilanza da parte dei consumatori, che si mostrano sempre più critici e informati riguardo alle affermazioni ambientali delle aziende.
Il green hushing
La crescente consapevolezza dei consumatori può anche generare un effetto paradossale: il green hushing, quando le aziende non comunicano il proprio impegno sostenibile per paura di cadere nel…greenwashing.
Le aziende possono “optare” per il green hushing per il timore di essere criticati o accusati di greenwashing se le azioni sostenibili non sono sufficienti o coerenti con il settore di appartenenza; l’incertezza sull’efficacia e sulla misurabilità delle proprie politiche ambientali; la scarsa consapevolezza o importanza attribuita al tema della sostenibilità, considerato come un costo e non come un investimento; la volontà di mantenere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, evitando di rivelare le proprie strategie e i propri risultati.
Eppure, il green hushing è una (non) scelta che non fa bene a nessuno: le aziende perdono l’opportunità di migliorare la reputazione e la fiducia dei consumatori, mentre le buone pratiche e i benefici che la sostenibilità può portare in termini di efficienza, risparmio, qualità e differenziazione restano celati. È innegabile, infatti, che le politiche responsabili adottati da aziende più o meno grandi, spesso diventino un modello da seguire per le altre imprese del settore, contribuendo così a creare uno standard migliore per la sostenibilità.
Competitività leale e prossimi step
Il focus della Direttiva Green Claim è, chiaramente, la protezione dei consumatori, perché mira a fornire informazioni più accurate e affidabili per permettere agli utenti di effettuare scelte consapevoli.
Il provvedimento, però, non mira solo a proteggere i consumatori da affermazioni ingannevoli, ma anche a realizzare una competizione leale tra le imprese che adottano effettivamente pratiche sostenibili.
Con l’evolversi del contesto normativo e sociale, adottare pratiche ambientali trasparenti e verificabili non solo è in linea con le richieste dell’Ue, ma potenzia anche la fiducia dei consumatori nell’autenticità delle dichiarazioni di sostenibilità.
L’iter della Direttiva Green Claim non è ancora concluso, ma il voto dello scorso 12 marzo sarà legalmente vincolante anche per la prossima legislatura. Dopo l’elezione degli eurodeputati del 6-9 giugno, i nuovi rappresentanti riprenderanno il testo da questo punto per passare al trilogo con Consiglio e Commissione, dopo che anche i rappresentanti dei governi nazionali avranno approvato la propria posizione negoziale presso il Consiglio.
Nel frattempo, il relatore della commissione Ambiente dell’europarlamento Cyrus Engerer (S&D) ha evidenziato la natura del provvedimento: “La nostra posizione – ha spiegato a margine del voto – pone fine alla proliferazione di dichiarazioni ecologiche fuorvianti che hanno ingannato i consumatori per troppo tempo. Faremo in modo che le aziende dispongano degli strumenti giusti per adottare pratiche di sostenibilità autentiche. I consumatori europei vogliono fare scelte sostenibili. Tutti coloro che offrono prodotti o servizi devono garantire che le loro dichiarazioni siano verificate scientificamente”.
Sostenibilità
Volvo corre con la EX30, il Suv elettrico che combina...
Ha l'impronta di carbonio più bassa del brand, alluminio e acciaio riciclati e si potrà riutilizzare al 95%. Ottima accoglienza a livello globale, in Italia è fra le bestseller aspettando gli incentivi
Dalla casa più ambiziosa in termini di sostenibilità (con il target di essere climate neutral per il 2040) arriva la vettura più riciclabile del mercato: Volvo ha infatti annunciato le prime consegne in Italia della EX30, l’auto più compatta e sostenibile mai realizzata dal marchio svedese. A fine vita (che si annuncia lunga, come da tradizione Volvo), infatti, questo Suv compatto sarà riciclabile al 95%, in pratica senza lasciare dietro di se' scarti pericolosi o ingombranti. La percentuale di materiali riciclati nell'EX30 è la più alta di tutte le Volvo prodotte fino ad oggi: circa un quarto dell'alluminio e quasi un quinto dell'acciaio sono costituiti da materiale riciclato. Inoltre, circa il 17% di tutte le plastiche presenti nell'auto, dai componenti interni ai paraurti, proviene da fonti riciclate.
Ma le cose - dal punto di vista ambientale - vanno ancora meglio nel suo ciclo di vita: infatti la EX30 vanta l'impronta di carbonio più bassa di qualsiasi altra Volvo completamente elettrica prodotta finora, pari a 23 tonnellate per 200.000 km, ovvero circa il 60% in meno rispetto alla XC40 con motore termico (a benzina). La valutazione dell' 'impronta' - che per la EX30 include ricariche effettuate grazie a energia elettrica di origine eolica- identifica i principali materiali e processi che contribuiscono alle emissioni dell'auto.
Concentrandosi esclusivamente sulle emissioni di gas a effetto serra, il rapporto analizza il ciclo di vita dell'auto, a partire dall'estrazione e dalla raffinazione delle materie prime fino al termine del suo utilizzo. E - dopo avere prodotto la sua auto più 'pulita' - Volvo non si ferma, visto che ha in programma un'ulteriore riduzione dell'impatto di CO2 dell'EX30 attraverso un'ampia collaborazione con i fornitori dell'intera catena del valore. Ad esempio, entro il 2025 i suo fornitori di batterie si impegnano a ridurre del 20% le emissioni derivanti dalla produzione della batteria LFP e del 46% nel caso della batteria NMC.
Potenza di 272 cv già nella versione 'base' ma in gamma è disponibile una Dual Motor da 0-100 in 3,6 secondi
Ma i dati di sostenibilità non devono naturalmente far perdere di vista le qualità 'funzionali' del Suv Volvo, che traduce in pratica ed evolve la filosofia del marchio svedese.La EX30 resta infatti una vettura gradevole da vivere - con un bagagliaio di 320 litri e interni spaziosi, nonostante una lunghezza di 4,23 metri, ed eleganti nel minimalismo di stile scandinavo - e da guidare, con una estrema stabilità in marcia e una progressione interessante, anche nella versione di partenza.
In gamma la prima ad arrivare (e chiaramente la best seller) è infatti la versione a motore unico, trazione posteriore e autonomia normale oppure Extended Range: con i suoi 200 kW (272 CV) e una coppia di 343 Nm assicura una accelerazione 0-100 km/h in 5,3 secondi, ma con velocità massima autolimitata a 180 km/h. L'autonomia stimata può andare da 350 fino a 480 km ( nel ciclo WLTP) ma si sa che il dato è fortemente condizionato dalle condizioni di utilizzo e dallo stile di guida. Per gli intenditori, invece la versione Twin Motor Performance, a trazione integrale: la batteria NMC da 69kWh accoppiata a una potenza di 315 kW (428 CV) e una coppia esuberante di 543 Nm le permette uno 0-100 da 3,6 secondi, mai visto su una Volvo stradale.
Sul fronte ricarica servono dalle 6 a 8 ore a casa (con AC da 11 kW) mentre il tempo necessario per passare dal 10 all'80% oggi è poco sotto i 30 minuti in DC fast charging a 175kW ma si aspettano i frutti delle partnership su batterie e sistemi ricariche: cruciale, ad esempio, l'accordo con Breathe, che permette al brand svedese di utilizzare l'ultima versione del software di ricarica brevettato, che sulle Volvo completamente elettriche di nuova generazione, potrà abbattere ridurre fino al 30% il tempo necessario per passare dal 10 all'80%.
Ottima accoglienza livello globale, in Italia è fra le bestseller aspettando gli incentivi
L'arrivo della EX30 - che è stata finalista al Car of the Year e ha già raccolto una serie di riconoscimenti internazionali - cade in un momento in cui a parità di vendite (più di 50 mila gli esemplari venduti a livello globale a febbraio) la quota di modelli elettrificati è, proprio grazie al Suv compatto, la più alta di sempre, il 44%, mentre le BEV sono il 22 % del totale (con un balzo in Europa del +31%).
Nei primi due mesi dell'anno sono state vendute 5.863 unità di EX30, ma con consegne ai clienti iniziate solo in Europa, Giappone e Brasile. Facile prevedere che questo Suv possa entrare nella top tre dei modelli Volvo più venduti a livello globale, come già avvenuto nel nostro Paese: dopo le 2.050 unità di prevendità del 2023 sono già più di 600 gli ordini ricevuti da inizio 2024 con la previsione di 4.550 consegne a pieno anno, il 20% del totale.
Al momento gli esemplari venduti sul nostro mercato sono prodotti da un impianto cinese ma - come ha spiegato l'ad di Volvo Jim Rowan - "vista la forte domanda nei confronti di questo modello" dal prossimo anno la EX30 inizierà ad essere prodotta anche in Europa, per l'esattezza nell'impianto belga di Gent, da cui già escono XC40 e C40. L'origine cinese - con una qualità, inutile dirlo, inconfondibile rispetto ai modelli 'continentali' - ha comunque permesso di mantere il listino a livelli competitivi per il settore. Si parte da 35.900 euro, ma l'obiettivo - quando finalmente gli incentivi 2024 saranno ufficializzati - di potere offrire il Suv a meno di 25 mila euro. E a questi prezzi, e con queste qualità, l'elettrico per molti automobilisti cominciare a diventare una certezza e non solo una possibilità.