Salute e Benessere
Mielofibrosi, Passamonti (UniMi): “Con meno...
Mielofibrosi, Passamonti (UniMi): “Con meno trasfusioni si vive di più e meglio”
L'ematologo: "Nuovo Jak inibitore riduce sintomi splenomegalia e migliora anemia"
"Risolvere il problema dell'anemia e avere un minor numero di pazienti con mielofibrosi che sono trasfusioni-dipendenti potrebbe sicuramente impattare molto sulla loro qualità e quantità di vita, perché il paziente trasfusione-indipendente vive di più e meglio" e questo "è un dato estremamente importante". Lo ha detto Francesco Passamonti, professore ordinario di Ematologia, Università degli Studi di Milano e direttore di Struttura complessa, dipartimento di Oncologia e Onco-Ematologia del Policlinico di Milano, intervenendo questa mattina a Verona in un incontro con i giornalisti organizzato da Gsk, in cui sono state presentate le ultime novità terapeutiche per la cura di questa neoplasia del midollo osseo caratterizzata dalla proliferazione di globuli rossi anomali e dall'accumulo di tessuto fibroso.
"I problemi principali del paziente con mielofibrosi sono la splenomegalia", ingrossamento della milza, "la presenza di sintomatologia sistemica e l'anemia o la piastinopenia - spiega Passamonti - I farmaci attualmente impiegati per la cura della mielofibrosi, i Jak inibitori ruxolitinib e fedratinib, approvati in Italia e rimborsati per la prima linea ruxolitinib e per la prima e seconda linea fedratinib, riducono la splenomegalia e migliorano i sintomi sistemici, ma possono anche peggiorare l'anemia. Recentemente, ha ricevuto approvazione", anche in Europa, un nuovo Jak inibitore, "momelotinib, per il paziente con mielofibrosi anemico perché questa molecola ha dimostrato di migliorare non solo la splenomegalia, ma anche l'anemia".
"Alle nuove molecole per la cura della mielofibrosi, infatti - illustra il professore - chiediamo di affrontare anche il problema dell'anemia, perché il 20% di questi pazienti richiede trasfusioni e si devono recare all'ospedale inizialmente una volta al mese, poi ogni 3 settimane, poi ogni 2, ogni una e anche 2 volte a settimana, perché ovviamente nel tempo c'è un minimo di refrattarietà alle trasfusioni e, soprattutto, la malattia progredisce". Negli accessi all'ospedale, spesso il paziente deve "essere accompagnato da un caregiver", cosa che comporta una "perdita di giorni di lavoro per entrambi e un impatto sociale estremamente importante". A livello clinico, inoltre, "c'è soprattutto un accumulo di ferro nel cuore, nei reni, nel fegato. La cosa non dà problemi in 6 mesi, ma in anni. Quindi un'anemia cronica trasfusione-dipendente può avere una serie di problemi".
"La mielofibrosi, definibile rara data l'incidenza di 1,2-1,4 nuovi casi nei 100mila abitanti/anno - prosegue Passamonti - ha degli aspetti che noi chiamiamo mielopoliferativi come la leucocitosi, la splenomegalia, la presenza di una sintomatologia sistemica come febbre, sudorazione e calo di peso e, in molti pazienti, si accompagna anche a effetti di citopenia, cioè anemia e piastinopenia, che rappresentano degli 'unmet medical needs', cioè delle aree in cui oggi non abbiamo terapie". Certo "la fisiopatologia della mielofibrosi non è del tutto definita - aggiunge lo specialista - ma interessa l'attivazione di una via cellulare, la via Jak-Stat, che svolge un ruolo essenziale perché coinvolta nelle funzioni metaboliche e immunitarie e nell'emopoiesi. Dal 2005 in poi abbiamo capito anche la patogenesi di questa malattia", che nell'85% dei casi presenta mutazioni in almeno uno di 3 geni: Jak2 (prevalenza 50-60%); Mpl (prevalenza 5-9%); Calr (prevalenza 20-35%). "Quando il gene Jak2 è iperattivo, si attiva la produzione di globuli bianchi emoglobina e piastrine".
I farmaci Jak inibitori "sono in grado di rallentare la pathway, la via cellulare Jak-Stat, iperattivata dai geni Jak2, Mpl e Carl. Ovviamente, tutte queste molecole Jak inibitori, agendo sulla Jak-Stat, possono migliorare la splenomegalia e la sintomatologia sistemica, ma determinare anche anemia e piastinopenia". Momelotinib ha dimostrato invece di migliorare anche l'anemia. Il farmaco, infatti - è stato ricordato nel corso dell'evento - oltre a inibire Jak1 e Jak2 inibisce anche un altro target (Acvr1), riducendo efficacemente la produzione di epcidina, ripristinando l'omeostasi del ferro e aumentando i livelli di emoglobina, migliorando sintomi costituzionali, splenomegalia e citopenie".
I Jak inibitori "non rappresentano l'unica opzione terapeutica che abbiamo nella mielofibrosi - conclude l'ematologo - Il trapianto di midollo osseo allogenico è l'unica procedura che oggi noi abbiamo per guarire, ma può essere indicata nel 10-15% dei pazienti ed è una procedura ad alto rischio vita".
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Disturbi della memoria, scoperto come il cervello distingue...
Lavoro del team di ricerca del dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Torino
Una ricerca condotta da un team di ricerca del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino potrebbe fornire informazioni utili per sviluppare nuove strategie terapeutiche per i disturbi della memoria. Formare ricordi di eventi simili costituisce una vera e propria sfida per il nostro cervello. "È essenziale che ogni evento venga memorizzato in maniera separata per preservarne la specificità. Tuttavia, è altrettanto importante riconoscere e ricordare gli aspetti comuni tra gli eventi. Se questo delicato processo viene compromesso, le persone rischiano di confondere un evento con un altro, perdendo così la chiarezza e la specificità dei propri ricordi". Lo ha rilevato un nuovo studio pubblicato su 'Cell Reports' che ha identificato un intricato processo cerebrale che consente di distinguere e memorizzare eventi simili in maniera separata, mantenendo al contempo le somiglianze tra di essi. La ricerca è stata condotta principalmente dalle ricercatrici Giulia Concina, Luisella Milano e Annamaria Renna coordinate dal professor Benedetto Sacchetti del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino.
I ricercatori hanno studiato l’attività cerebrale durante l'apprendimento di due eventi distinti ma con elementi in comune, scoprendo che nell'amigdala, una regione cerebrale chiave per la formazione dei ricordi, gruppi separati di neuroni si attivano per memorizzare separatamente eventi distinti. "Tuttavia, alcuni neuroni rispondono a entrambi gli eventi, aiutando a ricordarne le somiglianze. Il numero di questi neuroni comuni - sottolinea lo studio - è regolato da un particolare tipo di cellule chiamate neuroni inibitori. Bloccando queste cellule, i ricercatori hanno notato come il numero di neuroni comuni aumentasse notevolmente causando la confusione e sovrapposizione dei due eventi. Secondo i ricercatori, in conclusione, i neuroni inibitori contribuiscono quindi a mantenere distinti i ricordi di eventi simili".
La ricerca è stata condotta adottando un approccio multidisciplinare che ha integrato metodologie di analisi comportamentale, biologia molecolare, microscopia ad alta risoluzione e modulazione dell'attività cerebrale. In particolare, grazie all'utilizzo della tecnica innovativa della 'marcatura chemogenetica', i ricercatori hanno potuto visualizzare i neuroni coinvolti nella percezione sia degli aspetti distintivi di due eventi, sia delle loro caratteristiche comuni. Questa analisi ha permesso anche di individuare le cellule in grado di limitare il numero di neuroni condivisi, ovvero i neuroni inibitori. Infine, combinando le tecniche di marcatura chemogenetica e di inattivazione dell'attività neuronale, i ricercatori hanno selettivamente bloccato queste cellule, notando che ciò portava i soggetti a confondere gli eventi tra di loro.
"Questa ricerca - spiega Sacchetti - riveste un'importanza significativa poiché mette in luce l'esistenza di neuroni il cui ruolo è quello di mantenere separate le memorie di eventi distinti ma con aspetti in comune, consentendo così di conservare i ricordi di tali eventi in modo preciso e nitido. Considerando che una delle caratteristiche tipiche dei disturbi della memoria, come le demenze e il disturbo post-traumatico da stress, è la tendenza a confondere gli eventi passati, questa ricerca potrebbe fornire nuove informazioni utili per sviluppare nuove strategie terapeutiche".
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Università, Gesualdo (Fism): “Nettamente contrari a...
"D'accordo con Ordine medici e Anaao. Serve programmazione razionale, le Scuole di Medicina non possono accogliere 70mila iscritti per mancanza di spazi e risorse"
"La decisione di eliminare il numero chiuso per l'iscrizione alla Facoltà di Medicina, Medicina veterinaria e Odontoiatria e protesi dentaria rappresenta una minaccia alla qualità della formazione medica e prelude un grave rischio di sovraffollamento del mercato del lavoro medico. Come l'Ordine dei medici e Anaao anche la Fism è nettamente contraria a stop al numero chiuso". Così all'Adnkronos Salute il presidente della Federazione italiana società medico-scientifiche (Fism) Loreto Gesualdo commenta l'adozione da parte della Commissione Istruzione del Senato del testo base che elimina il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina.
La Fism "ribadisce l'importanza di una programmazione razionale e basata sui reali bisogni del Servizio sanitario nazionale - spiega Gesualdo sottolineando "la necessità di una selezione accurata dei futuri medici già durante il percorso scolastico, al fine di garantire una formazione di qualità e una corretta distribuzione sul territorio". Inoltre, "occorre estendere la programmazione non solo al numero dei medici, ma anche a tutte le altre professioni sanitarie, come infermieri, fisioterapisti, dietisti e altre figure professionali - evidenzia il numero uno di Fism - essenziali per supportare i percorsi di intelligenza artificiale e l'evoluzione tecnologica nel settore della salute".
Gesualdo suggerisce di "potenziare i licei con inclinazione biomedica" per preparare "adeguatamente gli studenti interessati a intraprendere percorsi universitari" nel campo della salute. "Tuttavia - avverte - è importante ricordare che attualmente le scuole di medicina non sono in grado di accogliere un numero così elevato di studenti, con circa 70.000 iscrizioni previste, a causa della mancanza di spazi e risorse necessarie".
La programmazione delle professioni sanitarie "deve essere inclusiva e mirata a garantire un equilibrio tra domanda e offerta di competenze specialistiche, al fine di garantire un corretto sviluppo del settore e una gestione ottimale delle risorse umane nel campo della salute". La Fism "si impegna a promuovere una visione olistica della programmazione delle professioni sanitarie, che tenga conto delle nuove sfide e opportunità offerte dalla digitalizzazione e dall'intelligenza artificiale nel campo della salute" conclude.
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25 aprile, il pediatra: “Ecco come spiegarlo ai...
"Per ogni età c'è il giusto modo di raccontarlo, a seconda della fase evolutiva"
25 aprile data importante per gli italiani. E, come tutti gli anni, al centro in questi giorni di dibattiti, ricordi, commemorazioni. Ma come spiegarlo ai bambini che ci chiedono chiarimenti? "Per ogni età c'è il giusto modo di raccontarlo, a seconda della fase evolutiva", spiega all'Adnkronos Salute Italo Farnetani, docente di Pediatria dell'Università Ludes-United Campus of Malta.
"Ai bambini di meno di 10 anni, per esempio - suggerisce il medico - direi semplicemente che in questo giorno è finita la guerra che veniva combattuta in Italia. Bisogna tener conto del fatto che in questa fascia di età i bambini ragionano per operazioni concrete, su ciò che vedono e che gli va spiegato nella sua concretezza. Possiamo raccontargli, quindi, che nel nostro Paese c'era una guerra come quelle che vedono in televisione e il 25 aprile se ne festeggia la fine". Dagli 11 anni in poi, soprattutto a chi frequenta le scuole superiori, prosegue Farnetani, "si può parlare con i ragazzi dei contenuti ideali, politici, legati alla Festa della liberazione". Mentre "dai 14 anni in su, cioè quando l'adolescente entra nella fase delle 'operazioni formali', il discorso può ampliarsi ai concetti di pace, guerra, libertà, dittatura, diritti umani, cioè fare un discorso formativo. In questa fase dell'adolescenza, in cui predominano i concetti di bene e male, giustizia e ingiustizia - sottolinea il pediatra - si fa strada una visione utopica della realtà. Gli adulti, considerando questa particolare fase dello sviluppo del ragionamento degli adolescenti, possono aiutare i ragazzi a fare un'analisi oggettiva di ciò che è avvenuto il 25 aprile perché possa partire da una valutazione storica, etica e politica dei fatti per farsi, autonomamente, un'idea precisa dell'origine e delle motivazioni del significato simbolico della data. Successivamente potrà esaminare i decenni successivi della storia della politica italiana".
Un'informazione che tenga conto delle fasi evolutive, conclude Farnetani, è una modalità utile a fornire "all'adolescente strumenti per capire le problematiche alla radice. In caso contrario, si rischia di proporre concetti preconfezionati o di parte che non aiutano lo sviluppo della persona".