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Doug Pitt: l’uomo oltre il nome famoso

Nel mondo delle celebrità, spesso i riflettori sono puntati su nomi familiari come Brad Pitt, ma dietro ogni grande figura c’è un intero universo di individui che contribuiscono in modo significativo al loro settore e alla società nel suo complesso. Uno di questi casi è quello di Doug Pitt, fratello minore dell’acclamato attore Brad Pitt. Ma Doug è molto di più di “il fratello di”. È un imprenditore di successo, un filantropo appassionato e una figura che merita sicuramente di essere conosciuta più a fondo. Personalità sfaccettata e di grande successo, ha un nome costruito grazie alle sue aziende votate alla tecnologia e alle numerose attività di filantropo nel corso degli anni.

Dal fratello di Brad Pitt all’individuo di successo

Nato il 2 novembre 1966 a Springfield, nel Missouri, Doug Pitt è soprattutto conosciuto perché condivide lo stesso sangue con l’attore hollywoodiano Brad Pitt. Spesso cresciuto all’ombra del più celebre fratello maggiore, Doug ha intrapreso una strada di successo contando sulle proprie capacità e i propri interessi. Dopo aver completato gli studi all’università della sua contea, infatti, ha iniziato una carriera tutta in salita nei settori immobiliare e finanziario, mostrando sin da subito il suo talento nel mondo degli affari. Risale all’aprile del 1991 la fondazione della sua prima azienda, la ServiceWorld Computer, occupata nella fornitura di servizi informatici. A soli 25 anni inizia così la scalata che lo porterà nel mirino del club dei milionari.

Nel 2007 decide di cedere il 75 per cento degli interessi dell’azienda a Miami Nations Enterprises rimanendone però il proprietario e principale partner operativo. Nel 2012 fonda quindi TSI Integrated Services in collaborazione con TSI Global. Nel 2013 Pitt e Miami Nations Enterprises decidono di fondere ServiceWorld con TSI Global. Nel 2017 Pitt ricompra la sua prima società di computer creando la nuova Pitt Development Group, società specializzata in sviluppi commerciali e territoriali. Con questa azienda si è proposto come leader indiscusso nel settore.

Imprenditore e Filantropo

Doug Pitt non è solamente un uomo d’affari di successo, ma un filantropo impegnato che usa i suoi mezzi a disposizione per intervenire in aree critiche del mondo. “Care to Learn”, di cui è il fondatore, è un’organizzazione benefica che fornisce risorse essenziali a bambini che vivono in contesti difficili. L’organizzazione si concentra su bisogni fondamentali come cibo, vestiti e attrezzature scolastiche, permettendo ai più giovani di crescere e imparare in un ambiente positivo e accogliente.

Doug è anche collaboratore di Waterboys.comWorldServe International e Africa 6000 International (a cui partecipa anche la sorella Julie), organizzazioni impegnate nella fornitura di acqua potabile nei paesi africani più in difficoltà, come Tanzania e Kenya. Nel 2010 l’allora presidente della Tanzania Jakaya Kikwete lo ha insignito del titolo di Ambasciatore di buona volontà per la Repubblica Unita di Tanzania. Con questo titolo opera in qualità di intermediario per tutte quelle aziende che vogliono contribuire alla rinascita economica e culturale del paese. Nel 2011 il presidente americano Bill Clinton lo ha premiato con l’Humanitarian Leadership Award.

Dietro le quinte dell’industria del vino

Oltre al suo coinvolgimento nel settore immobiliare e nell’ambito delle opere di beneficenza, Doug Pitt ha anche sviluppato una passione per il mondo del vino. È coinvolto nella gestione di “Pitt Vineyards”, un’azienda vinicola che produce vini di alta qualità. Questa dedizione per il vino riflette la sua grande curiosità e il suo interesse per settori imprenditoriali differenti.

Una vita riservata

La famiglia di primo piano non ha impedito a Doug Pitt di mantenere un profilo relativamente basso nel mondo dei media. Ha cercato, infatti, di proteggere la sua privacy e di concentrarsi sul suo lavoro e sulle sue passioni, piuttosto che sfruttare la sua connessione familiare per attirare l’attenzione dei riflettori. Nel 1990 ha sposato Lisa Pitt, conosciuta all’università, e insieme hanno tre figli: Landon, Sydney e Reagan.

Nonostante abbia sempre cercato di non farsi notare, in certe occasioni è apparso sui media presentandosi in modo scherzoso come il fratello del più celebre Brad. Ha girato diversi spot pubblicitari, come quello per Virgin Mobile Australia, e in alcuni ha vestito persino i panni del fratello, come nella pubblicità per Mother’s Brewing Company. In diverse interviste rilasciate (come quella all’emittente Nova FM) ha anche ammesso di essere scambiato per il fratello almeno 3 volte a settimana da sconosciuti che lo incontrano per strada. Questo perché i due fratelli oltre a condividere carriere di successo, hanno effettivamente un fisico e dei lineamenti molto simili.

L’eredità di Doug Pitt

La storia di Doug Pitt dimostra come dietro a ogni individuo ci siano esperienze, imprese e passioni diverse che meritano di essere riconosciute. Pur essendo spesso additato come “il fratello di Brad Pitt”, la sua dedizione per il mondo degli affari, il suo coinvolgimento nella beneficenza e la sua capacità di perseguire le sue passioni lo rendono un esempio di impegno e di successo. Il suo lavoro nel settore imprenditoriale e filantropico dimostra come sia possibile creare un’eredità significativa indipendentemente dal nome di famiglia e che ognuno ha il potenziale per influenzare positivamente sulla vita degli altri.

Animato da un’indomabile passione per il giornalismo, Junior ha trasceso il semplice ruolo di giornalista per intraprendere l’avventura di fondare la sua propria testata, Sbircia la Notizia Magazine, nel 2020. Oltre ad essere l’editore, riveste anche il ruolo cruciale di direttore responsabile, incarnando una visione editoriale innovativa e guidando una squadra di talenti verso il vertice del giornalismo. La sua capacità di indirizzare il dibattito pubblico e di influenzare l’opinione è un testamento alla sua leadership e al suo acume nel campo dei media.

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È finalmente nelle sale cinematografiche il film “Tic Toc”

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E continua anche il suo tour promozionale con vari appuntamenti.

Girato a Terni negli studios di Papigno, la commedia è stata diretta dal regista Davide Scovazzo mentre la produzione è stata affidata ad Anteprima Eventi Production e Management S.r.l. di Massimiliano Caroletti. Il film vanta un cast di eccezionali attori noti al pubblico tra cui Eva Henger, Maurizio Mattioli, Sergio Vastano, Fausto Leali, Donatella Pompadour, Valentino Marini, Paolo Pasquali alias Doctor Vintage, Cristiano Sabatini alias Bike Chef, Simone Bargiacchi alias Antonio Lo cascio, Samuel Comandini Alisa Zio_ Command, Fabio Stirlani alias Stirlo , Dimitri Tincano, Jennifer Caroletti, Antonella Scarpa alias Himorta, Vanessa Padovani alias Miss Mamma Sorriso, Chaimaa Cherbal, Claudia Letizia ,Elena Colombi , Paola Caruso, Luigi Iocca, Giuseppe Lisco, Rosy Campanale, Daniel Bellinchiodo, Francesco Aquila, Michela Motoc.

E proprio Eva Henger con Massimiliano Caroletti insieme alla figlia Jennifer, al suo debutto sul grande schermo, sono ospiti della prestigiosa kermesse cinematografica Ischia Global Fest, e incontreranno il pubblico prima della proiezione con Doctor Vintage, anche lui nel cast della pellicola, nella serata del 13 luglio.

Filo conduttore del film il rapporto con i social. Tic Toc è una commedia che intreccia tante vicende e scopre tante realtà partendo dalla storia di quattro intraprendenti scansafatiche che per guadagnare qualche soldo decidono di rapire Eva Henger. Un progetto che frana a causa del Covid e che innesca un susseguirsi di intoppi divertenti: “Un gruppo di Sinti, una sorta di gang Fedeli al triste, ma vero, gioco di parole “è tutto LORO quello che luccica”, i quattro passano giornate ad invidiare le superstar di oggi , ovvero gli, e soprattutto le, Influencers, attribuendo a ognuno e a ognuna di loro vite principesche, fatte di limousines, jet privati, champagne della migliore categoria, ville gigantesche e stuoli di servitori, tutto ciò che, nella loro miseria, è loro negato dalla vita, in una maniera che, dal loro punto di vista, reputano ingiusta ed immorale. Stufi di raccogliere le briciole di quello che loro credono essere solo un mondo dorato e pieno di privilegi, i quattro mascalzoni vengono a sapere che la star Eva Henger inaugurerà una Escape Room (cosa che loro non hanno idea di cosa sia) a Terni, per cui a Zagaja, ma ben presto condiviso dagli altri pur se con qualche perplessità soprattutto da parte di Bike Chef, viene la “brillante” idea: appostarsi poco prima dell’entrata della Escape Room e rapire la Diva, che per lui è anche il suo sogno erotico da sempre, in modo da chiedere il riscatto ai suoi numerosi sponsor”, ha spiegato l’ideatore Fabio Stirlani. La trama affronta in chiave drammatica argomenti comici che riflettono l’attualità.

Un film che segna il grande ritorno al cinema di Eva Henger che per l’occasione ha interpretato se stessa. Un ruolo cucito alla perfezione su di lei: “Ho interpretato me stessa. Pensavo fosse facile, invece è stato difficilissimo. Quando si interpreta la propria persona ci si rende conto di non conoscerla realmente. Ho dovuto metterci dell’ironia, verve e passione, anche perché sarà un film comico, che farà ridere molto”. Assieme a lei sul set la figlia Jennifer Caroletti interessata a seguire le orme della madre.

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Attualità

Uber Eats in Italia: il tramonto di un gigante della consegna a domicilio

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Uber Eats è una delle più grandi aziende al mondo che offre servizi di food delivery, che ha attraversato il panorama globale lasciando una scia inconfondibile. Nata nel cuore pulsante della Silicon Valley, l’azienda è l’emblema dell’innovazione e della modernità: una storia di successo che ha riscritto le regole del gioco nel settore della ristorazione. Da una singola città statunitense, San Francisco, Uber Eats ha esteso le sue ali in oltre 30 paesi, portando la comodità di un pasto caldo consegnato alla porta di casa a milioni di persone in tutto il mondo.

La sua entusiasmante avventura in Italia ha avuto inizio nel 2016, un’incursione coraggiosa in un mercato storicamente dominato dalla cucina locale e da un amore per la tradizione culinaria. Eppure, Uber Eats ha saputo navigare tra le onde dell’innovazione e della tradizione, creando un ponte tra la comodità della tecnologia e la passione per il buon cibo.

Ma, come un tramonto dopo una giornata luminosa, Uber Eats ha recentemente annunciato il suo ritiro dal territorio italiano a partire dal 15 luglio 2023, ponendo fine a un capitolo avventuroso nella sua storia. Nonostante una crescita esponenziale a livello globale e un modello di business che ha riscritto le regole dell’innovazione, il suolo italiano si è rivelato essere un terreno difficile. Non una sconfitta, ma un ritiro strategico, un’opportunità per ripensare, rinnovarsi e affrontare nuove sfide.

Un capitolo si chiude, ma la storia di Uber Eats è ancora in divenire. Analizziamo insieme le ragioni di questa decisione e il profondo impatto che la sua presenza ha avuto sul nostro Paese.

L’evoluzione di Uber Eats in Italia

Uber Eats ha intrapreso la sua audace espansione nel cuore del Belpaese, prendendo le mosse dalle luccicanti metropoli di Roma e Milano, per poi estendersi ad altre 60 città di media e ampia estensione, scontrandosi con le potenze rivali di Glovo e Deliveroo, nonché confrontandosi con la labirintica tessitura delle normative locali e le acrimonie riguardanti i diritti dei lavoratori.

Ciononostante, malgrado queste sfide, Uber Eats è riuscita a rivendicare un ruolo di protagonista nel teatro della consegna a domicilio, abbracciando incessantemente una filosofia di innovazione. Uber Eats, infatti, ha perpetuamente introdotto e sperimentato funzioni inedite e diversificato i propri servizi con costanza.

Un’espressione vivida di tale indole innovativa è stata l’implementazione della possibilità di ritiro in loco presso il ristorante, offerte speciali e la consegna di viveri, oltre al consueto cibo preparato, durante il periodo del lockdown dovuto alla pandemia.

L’innovazione per Uber Eats

Già nel 2019, l’azienda aveva annunciato l’intenzione di utilizzare droni per le consegne a domicilio all’insegna della velocità e della tecnologia. Ha anche avviato una collaborazione con Apple e Google, offrendo come modalità di pagamento rispettivamente ApplePay e GooglePay. Sempre nel rispetto del suo spirito pionieristico, Uber Eats ha anche introdotto l’opzione di preordine per cenare direttamente nel ristorante, tuttavia questa funzionalità non è mai arrivata in Italia.

Ha sostenuto l’industria della ristorazione nel Paese collaborando con migliaia di ristoranti e permettendo loro di espandere la propria clientela, fornendo allo stesso tempo nuove opportunità di business.

L’impatto di Uber Eats sul mercato italiano

Pur considerando il ritiro, l’effetto di questa azienda sul nostro mercato è stato ed è tuttora significativo perché ha cambiato in modo in cui le persone hanno iniziato a richiedere il cibo pronto direttamente nelle proprie case. Ma ha anche creato nuove opportunità di lavoro per i consegnatari e nuovi canali di vendita per i ristoratori.

Le positive innovazioni hanno però anche sollevato questioni sui diritti e la sicurezza dei Riders e controversie sulla struttura fiscale delle commissioni.

Perché Uber Eats ha cessato di operare in Italia

Nonostante il successo, l’azienda ha affrontato nel nostro Paese numerosissime sfide, prima tra tutte la concorrenza con le altre applicazioni di consegna. Ma non bisogna dimenticare anche la complessità delle leggi locali e le controversie circa i diritti dei lavoratori e i contratti non adeguatamente definiti. L’azienda ha dichiarato in un comunicato stampa ufficiale di aver avuto sempre come modello quello di un business sostenibile, ma le prospettive di crescita non hanno rispecchiato le aspettative originali. L’insieme di questi fattori ha contribuito alla decisione finale di chiudere l’operatività nel nostro Paese.

Le conseguenze per i ristoratori e per i dipendenti

Il fatto che Uber Eats si sia ritirato dal mercato ha avuto un forte impatto sui lavoratori coinvolti e sui ristoratori che collaboravano con l’applicazione. Da una parte i fattorini che hanno dovuto cercare piattaforme alternative di consegna per continuare l’attività e i ristoratori che hanno iniziato a cercare altri canali per raggiungere nuovi clienti o quelli già acquisiti attraverso la app. Sono circa 40 i dipendenti che lavorano negli uffici di Milano ad essere stati licenziati e migliaia i rider sparsi in tutta Italia.

Qual è il futuro delle consegne di cibo a domicilio

Con la partenza definitiva di Uber Eats, il panorama delle consegne a domicilio nell’ambito food si prepara a un nuovo cambiamento. Aziende come Deliveroo e Glovo possono sicuramente consolidare la propria posizione per coinvolgere gli utenti orfani di Uber Eats ma allo stesso tempo potrebbero apparire nuovi attori sul mercato, nel tentativo di approfittare di questo nuovo “spazio” vacante.

Gig economy e diritti del lavoro

L’esempio di Uber Eats ha sollevato l’attenzione sulle questioni relative a un modello di lavoro basato su contratti flessibili e a chiamata, ma senza la tipica protezione dell’impiego tradizionale. Questo dibattito è destinato a intensificarsi e arricchirsi anche dal punto di vista normativo, per cercare un maggiore equilibrio tra flessibilità e sicurezza per i lavoratori temporanei.

Uber Eats e crescita sostenibile

Ma nella pratica, come e perché è stata raggiunta la decisione di uscire dal mercato? Lo studio circa la sostenibilità del business necessita di dati e indicatori che gli esperti di project management utilizzano per valutare le performance. Lo studio può includere analisi dei trend di crescita dei ricavi ma anche i costi necessari per acquisire clienti, le spese sostenute e le previsioni relative al mercato.

Come molte altre aziende della delivery, Uber Eats ha un modello di business con margini ristretti e a questo deve corrispondere necessariamente una crescita rapida e costante per coprire tutti i costi ed essere redditizio. In Italia, tuttavia, questo tipo di mercato è altamente competitivo e con protagonisti consolidati: la crescita così diventa più difficile.

E se la base di clienti di Uber Eats non sembra destinata a crescere in modo sufficientemente rapido o se l’acquisizione dei nuovi clienti rivela costi eccessivi (ad esempio attraverso sconti e promozioni che riducono ulteriormente i margini), la conseguenza è una ulteriore pressione sul profitto complessivo.

Cosa rimane di Uber Eats in Italia

Uber è la società madre che, prima di Uber Eats, si è inizialmente proposta come servizio di car sharing e quindi nel settore della mobilità, dove continua e continuerà ad essere protagonista anche nel nostro Paese. 

Uber garantisce diversi servizi che consentono agli utenti di prenotare viaggi in auto con un conducente direttamente da un’applicazione sullo smartphone, con la possibilità di scegliere anche la tipologia di aiuto. Anche questi servizi hanno dovuto affrontare diverse problematiche, tra cui si sono evidenziate le proteste da parte dei tassisti professionisti e la necessità di rispettare tutte le normative locali. L’azienda ha comunque continuato ad investire nel servizio di mobilità riconoscendo il potenziale di crescita. Ad esempio, in alcune città, gli utenti possono già scegliere di viaggiare con auto elettrica o ibrida ed inoltre l’azienda sta cercando ulteriori modalità per migliorare il proprio impatto ambientale.

L’uscita dal mercato di Uber Eats segna la fine di un’epoca ma il suo impatto sarà duraturo, offrendo riferimenti importanti sia nel settore della food delivery che della gig economy, per quanto riguarda le innovazioni nel mondo del lavoro flessibile e delle consegne a domicilio.

Il vuoto incolmabile che lascia Uber Eats nel nostro Paese

A dispetto di queste possibili prospettive, un senso di perdita pervade i cuori di tutti quegli italiani che hanno utilizzato la piattaforma in questi anni. La verità è che Uber Eats, con il suo servizio impeccabile e la sua presenza ubiqua, lascerà un vuoto che sarà difficile da colmare.

È un vuoto che va oltre la semplice assenza di un servizio di consegna cibo. È un vuoto che risuona con l’eco di momenti condivisi, di serate tra amici salvate da un pasto inaspettato, di incontri a tarda notte con il solo conforto di un pasto caldo portato alla porta. È un vuoto che parla di innovazione, di cambiamento, di una rivoluzione silenziosa ma palpabile nel modo in cui viviamo e consumiamo.

La partenza di Uber Eats è, in realtà, molto più di una perdita commerciale: è una ferita nell’anima del nostro Paese, un taglio profondo nel tessuto della nostra quotidianità. Si tratta di una perdita di ciò che era diventato un elemento così integrato nelle nostre vite da sembrare quasi scontato.

Non è solo una questione di convenienza, ma di connessione. Un po’ come un sentimento di familiarità, di un senso di comunità che viene meno. Un servizio che, pur essendo globale, ha sempre avuto il potere di farci sentire a casa, ovunque fossimo.

Certo, il mondo non si fermerà. Nuovi servizi emergeranno, vecchi servizi si adatteranno e la vita continuerà. Ma quel vuoto, quel senso di mancanza che Uber Eats ci lascia, sarà difficile da riempire.

E così, mentre ci prepariamo a dire “arrivederci” a Uber Eats, ricordiamoci di quello che era e di come ha cambiato il modo in cui mangiamo, di come ha unito le persone, di come ha toccato le nostre vite. Ricordiamoci di Uber Eats, non solo come un servizio di consegna di cibo, ma come un amico, un compagno, un pezzo del cuore del nostro Paese. Ad maiora!

Concludiamo questo articolo con la nota ufficiale pubblicata sul sito ufficiale, uber.com.

«Il nostro viaggio con Uber Eats è iniziato a Milano nel 2016. Nel corso di questi sette anni abbiamo raggiunto oltre 60 città in tutte le regioni italiane, lavorando con migliaia di ristoranti partner che hanno potuto beneficiare dei nostri servizi per ampliare la loro clientela e le loro opportunità di business, specie in periodi critici come quello dovuto al Covid. In questi sette anni migliaia di corrieri e delivery partner hanno avuto la possibilità di guadagnare attraverso la nostra app in modo facile e immediato. In questi anni, purtroppo, non siamo cresciuti in linea con le nostre aspettative per garantire un business sostenibile nel lungo periodo. Ecco perché oggi siamo tristi di annunciare che abbiamo preso la difficile decisione di interrompere le nostre operazioni di consegna di cibo in Italia tramite l’app Uber Eats. Il nostro obiettivo principale è ora quello di fare il possibile per i nostri dipendenti, in conformità con le leggi vigenti, assicurando al contempo una transizione senza problemi per tutti i nostri ristoranti ed i corrieri che utilizzano la nostra piattaforma. Nonostante questa difficile decisione vogliamo ribadire il nostro impegno verso l’Italia, che non intendiamo assolutamente abbandonare: questa decisione ci consentirà di concentrarci ancora di più sui nostri servizi di mobilità, dove stiamo registrando una crescita importante. Grazie al servizio Uber Black e all’accordo con It Taxi, infatti, ad oggi siamo presenti in 10 città italiane: negli ultimi 12 mesi oltre un milione di italiani e turisti ha utilizzato l’app Uber per muoversi nelle città dove operiamo e quasi 10 mila autisti, tra NCC e taxi, hanno avuto la possibilità di realizzare almeno una corsa sempre attraverso la nostra app. Non solo: dopo il lancio del servizio Taxi in Sardegna annunciato la settimana scorsa, prevediamo di aumentare ulteriormente la nostra presenza nel Paese e di lanciare quattro nuove città entro la fine dell’anno. Vogliamo ringraziare tutti quelli che, in questi anni, ci hanno dato la loro fiducia, collaborazione, affetto, dedizione e passione. Grazie a tutti.»

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Coronavirus

Intervista a Mauro Cardinali: sarà nel cast di Indiana Jones 5 presentato a Cannes con...

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Ha potuto formarsi come attore grazie ad una lunga gavetta svolta in teatro, al fianco di registi di fama internazionale come Ricci/Forte, Paolo Rossi, Filippo Timi, Marina Abramović, Emma Dante e Luciano Melchionna che gli hanno insegnato, spettacolo dopo spettacolo, i rudimenti e i segreti della recitazione. Diplomato attore-performer presso il C.U.T. di Perugia nel 2010 sotto la guida di Roberto Ruggeri, Sergio Ragni e Ludwig Flaszen del Teatr LAboratorium di Wroclaw, Mauro Cardinali è stato di recente nel cast dell’ultima stagione de La Porta Rossa, fiction di successo di Rai2. Un impegno a televisivo a cui ne seguiranno altri, come ci ha raccontato in questa intervista.

Con la preziosa collaborazione di Roberto Mallò e Sante Cossentino by Massmedia Comunicazione

Mauro, partiamo dal quinto capitolo di Indiana Jones, un progetto internazionale che la vede coinvolta. So che è un appassionato della saga. E’ sicuramente un’emozione far parte del cast, no?

“Una grande emozione, uno di quei progetti che sembrano capitare una volta nella vita. Ma chissà… Stiamo cercando di avere sempre più contatti con casting e produzioni internazionali. E’ fondamentale, però, continuare a lavorare bene qui in Italia, a costruire un buon nome per poterlo poi diffondere meglio oltreconfine. Mi piace confrontarmi con realtà straniere. Ho girato con il signor Ford e Phoebe Waller-Bridge. Ho conosciuto e passato del tempo con Mads Mikkelsen. Sono stato truccato dalla Premio Oscar Frances Hannon, storica truccatrice di Wes Anderson, e diretto dal grande James Mangold, anche se ovviamente mi avrebbe fatto piacere che ci fosse ancora Steven Spielberg. Quindi direi di sì, si è trattato di un grande regalo piovuto da chissà dove. Un’importantissima esperienza personale e lavorativa”.

Anche perché si lavora in maniera decisamente diversa dai set italiani…

“C’è una grande professionalità. C’è un’abnegazione, uno stakanovismo; è come se tutti fossero indirizzati verso un unico grande obiettivo, che era quello di lavorare al meglio. Nonostante le tante ore, si è mantenuta sempre una grande concentrazione e una grande energia. Ovviamente, stiamo parlando di produzioni stellari, ma non parlo solo della questione economica. C’era proprio la volontà e la conoscenza di stare facendo qualcosa di importante; che doveva essere fatta al meglio, al top”.

Avete girato in Italia?

“Sì, abbiamo girato in Sicilia. Io, personalmente, nella parte orientale dell’isola, ossia alla Tonnara del Secco, sotto Trapani. E’ capitato poi di girare a Londra negli storici studi Pinewood, tra i teatri di posa più importanti e famosi d’Europa, dove hanno girato Kubrick e la maggior parte dei film 007. E’ una sorta di grande Cinecittà, anche se non poetica e bella come la nostra. Lì abbiamo fatto le scene che era impossibile fare all’aperto. La troupe si è spostata poi in Marocco, in Scozia. Perché si è voluto tornare all’idea di portare Indiana Jones in giro per il mondo e di farlo in modalità live action”.

In che lingua ha recitato?

“Nel film interpreto Maximus – The Hero e le mie battute erano in latino. Senza spoilerare troppo, posso dire che Indiana Jones viaggerà nel tempo e incontrerà questo comandante romano, che parla appunto il latino incitando la sua truppa. Mi sono fatto aiutare per la lingua da amici e professori per non commettere errori. Si trattava di battute rapide e secche, bisognava trovare la giusta storicità a livello filologico. Non bisognava metterci dentro roba che non c’era, come a volte succede”.

Tralasciando Indiana Jones, sarà anche nel cast delle seconde stagioni di Blanca e di Lea – Un Nuovo Giorno, entrambe destinate a Rai Uno.

“Blanca ho appena finito di girarla; sarò il protagonista del quarto episodio per la regia di Michele Soavi. Lea è ancora in fase di riprese. In questo caso, si tratta di un personaggio che torna in più episodi”.

Tra i lavori prossimi c’è anche La Lunga Notte con la regia di Giacomo Campiotti…

“Sì, uscirà in Rai a novembre, così come Blanca e Lea sono destinate all’inverno. Per il momento, lì ho un piccolo cameo, di un ruolo che crescerà nella seconda serie perché verrà raccontata la sua vita. Parlo del Colonnello Frignani, che arrestò Benito Mussolini per ordine del re nel 1943. La serie parla della storia di Dino Grandi, che era un gerarca, colui il quale chiese la sfiducia al Duce, cosa che poi accadde con la caduta del Regime. Fatto che porterà il re ad ordinare l’arresto di Mussolini, con Frignani che conclude tale compito e lo porta in cella, prendendosi le minacce del Duce. Evento che farà finire Frignani nella Resistenza, post caduta del Regime. Verrà poi arrestato, torturato davanti alla moglie, finché non verrà fucilato e sepolto nelle fosse Ardeatine. E’ un personaggio molto bello. Nella prima serie si racconteranno gli eventi fino all’arresto di Mussolini, nella seconda si arriverà, come ho già detto, alle fosse Ardeatine”.

Le è piaciuta come esperienza?

“E’ stata molto bella. C’è Duccio Camerini che interpreta Mussolini, mentre Luigi Diberti è il Re. Alessio Boni interpreta, invece, il protagonista. Un bel cast di attori bravissimi e moltonoti al pubblico”.

Il personaggio che ha portato in scena più a lungo è stato quello di Piero nella terza stagione de La Porta Rossa. Che cosa le ha lasciato quella serie, che è anche un piccolo cult per la Rai?

“E’ vero; la prima stagione mi piacque molto perché ero affascinato dalla figura di Cagliostro, che ha preso ispirazione dal Conte Cagliostro. Ricordo che rimasi attratto da questo nome. Sono stato dunque molto felice di poter prendere parte alla terza stagione. Lungo il tragitto, è stato cambiato il mio ruolo, che poi ha interpretato Paolo Mazzarelli. Per quanto quello di Mazzarelli fosse un ruolo più grande, come pose e così via, sono rimasto contento di avere interpretato Piero perché ha avuto un arco di trasformazione. Piero è stato una sorpresa: è partito in sordina, con un ruolo istituzionale da coprire, ma ha in seguito imbracciato un fucile, è stato arrestato ed ha avuto una crisi, una rottura. Noi attori speriamo sempre di vivere questa trasformazione, che ne La Porta Rossa è avvenuta nell’arco degli 8 episodi. Sarebbe stato ancora più bello farlo in tempi più lunghi; è stato difficile farlo nei tempi ristretti che abbiamo avuto, ma per me è stata una bella prova perché nel poco tempo è cambiato il personaggio”.

Cosa ricorda del provino per la serie?

“L’avevo fatto con Carmine Elia; è andato bene, ma Carmine non ha potuto continuare con la lavorazione ed è stato sostituito da Gianpaolo Tescari. Ho così dovuto affrontare un altro provino con lui, ma è andato bene lo stesso. Tescari è una persona molto gentile che riesce a guidarti bene. Quella ne La Porta Rossa era la mia prima esperienza grande ed è stata una fortuna avere lui per quest’occasione. Ho rotto le acque con il linguaggio televisivo, dopo anni di esperienza in teatro. Nei set successivi mi sono sentito più a mio agio e così sarà andando man mano avanti”.

Non a caso, dopo La Porta Rossa è arrivata l’esperienza nella serie iberica Nacho, dove ha interpretato Rocco Siffredi. Com’è stato confrontarsi con una persona reale e ancora in vita?

“Ho subito contattato Rocco; è stato sempre disponibile e gentile, si è instaurato tra di noi un bel rapporto. Nel frattempo, lui era a Budapest con Alessandro Borghi per girare Supersex. Alessandro ha avuto la fortuna di stare a stretto contatto con Rocco per interpretarlo. E’ quello che ciascun attore si auspica di poter fare quando porta in scena un personaggio ancora in vita. Io mi sono invece documentato, formandomi con interviste e documentari e chiamando Rocco quando era possibile. Tra l’altro, conosco personalmente Alessandro, che è una persona che stimo tantissimo, oltre che un attore che mi piace davvero tanto. L’idea che stessimo lavorando parallelamente sullo stesso personaggiomi ha dato molta forza e mi ha fatto molto piacere. Sono stato il primo a interpretare Rocco Siffredi, non era mai capitato. E a distanza di poco si è aggiunto Alessandro Borghi, che è un esempio e un faro di quello che è il mio lavoro. E so che il mio Rocco ha avuto dei feedback positivi. Ancora non ho finito di vedere la serie, ma ritengo che il personaggio sia uscito molto bene”.

Lì ha recitato in italiano o in lingua spagnola?

“Ho recitato in spagnolo, italiano e inglese. Lo spagnolo e l’inglese li ho pronunciati non benissimo, esattamente come fa Rocco. Ho parlato in italiano soprattutto quando il personaggio si innervosiva e l’inglese quando nelle scene si confrontava con produttori americani e via dicendo. E’ stato un bel mix molto divertente”.

Quando ha deciso di diventare un attore e dedicarsi alla recitazione?

“Mi sono avvicinato alla recitazione quando ho deciso di fare qualcosa per me. Avevo bisogno di lavorare un po’ su me stesso; erano anni difficili e complessi. Diciamo che ho preso la via del teatro come una terapia, non immaginavo che sarebbe diventato un lavoro. Facendo teatro, in maniera quotidiana perché ho frequentato un’accademia, ho scoperto la meraviglia della catarsi teatrale. Da lì è stato un concatenarsi di situazioni ed eventi che mi hanno portato a farlo a livello professionale. Ho fatto tantissimo teatro, tantissime performance e, ogni tanto, piccole esperienze televisive e cinematografiche. Per esempio, Pasolini di Abel Ferrara o Che Strano Chiamarsi Federico di Ettore Scola. C’è stato poi un film molto particolare, intitolato I Figli di Maam, con la regia di Paolo Consorti e con Franco Nero. Lì ho fatto un diavolo che cambiava forma tante volte: un diavolo politico, un diavolo bohemienne, un diavolo avvocato – nello specifico di Erode interpretato da Franco Nero – ed un diavolo iconografico con un body panting rosso con le corna. La potenza che potevo tirar fuori attraverso il mio corpo è stata un po’ la mia cifra per lungo tempo. Inoltre, ho lavorato per diversi anni con Antonio Marras, sia nelle sue sfilate, sia nelle performance che ha realizzato. Facendo questo lavoro ho sempre vissuto delle emozioni fortissime; per questo ho deciso di investirci. E pian piano è diventato sempre più assiduo”.

So che è impegnato anche nelle attività teatrali dedicate al sociale…

“Sì, ho iniziato a lavorare con Giorgio Rossi, un danzatore della Sosta Palmizi. Ho cominciato ad assisterlo nei laboratori di teatro sociale e integrato. Ho avuto otto anni di lunga esperienza in tal senso, con spettacoli anche a New York e Londra. Un’attività, quella dei laboratori, che ho portato avanti finché ho potuto. In questi anni, dove ho girato tantissimo, non mi è stato più possibile. Inoltre, c’è stato anche il Covid a sospendere il tutto, anche se ancora oggi, quando posso, vado a un gruppo di lavoro di ragazzi con varie problematiche. Con loro, ho realizzato degli spettacoli unici, meravigliosi, con la potenza che hanno queste persone sia espressiva, sia emotiva. La loro sensibilità è qualcosa di unico;poter lavorare con queste persone, considerate spesso solo dei ‘matti’, è più gratificante, spesso, di lavorare con aspiranti attori, nonostante le difficoltà del caso. Perché c’è una libertà, una voglia, un amore. Ci sono anche varie difficoltà, ma lì sta a me, col mio lavoro, riuscire a creare qualcosa che li faccia sentire bene e a loro agio per raccontare delle storie partendo dalle loro esperienze, difficoltà e dalla loro rabbia. Così sono nati vari spettacoli che ho scritto e diretto di teatro integrato. Ed è un aspetto del mio mestiere che vorrei portare avanti, pensando magari a qualcosa di audiovisivo. Insomma, quello che sarà, sarà”.

Riassumendo, è quindi arrivato al teatro per un suo bisogno personale?

“Sì, sono arrivato al teatro come bisogno di crescita, di evoluzione; per chiarire e sciogliere qualche nodo. Credo, per questo, che il teatro sia una cosa che tutti debbano poter fare almeno una volta nella vita. Andrebbe assolutamente insegnato nelle scuole; è uno strumento utilissimo per formarsi e approcciarsi alle difficoltà della vita e personali”.

Lei utilizza Cardinali, il suo cognome materno. Posso chiederle per quale motivo?

“E’ un omaggio a mia madre, una donna che ha scelto di sacrificare tutto per me e mio fratello. Non ci ha mai abbandonati nel bene e nel male. Di male ne abbiamo vissuto tanto, ma è servito a crescere. E’ stato difficile, doloroso ma è andata così e va benissimo. La nostra vita da diverso tempo a questa parte è cambiata in positivo. Io e mio fratello stiamo bene e abbiamo dei figli meravigliosi. Piuttosto che fare girare Fiorucci, il mio cognome paterno, ho optato per quello di mia madre, in onore alla sua forza. Tante donne nel mondo nascondono una forza e un coraggio inimmaginabile”.

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