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Uber Eats in Italia: il tramonto di un gigante della consegna a domicilio

Uber Eats è una delle più grandi aziende al mondo che offre servizi di food delivery, che ha attraversato il panorama globale lasciando una scia inconfondibile. Nata nel cuore pulsante della Silicon Valley, l’azienda è l’emblema dell’innovazione e della modernità: una storia di successo che ha riscritto le regole del gioco nel settore della ristorazione. Da una singola città statunitense, San Francisco, Uber Eats ha esteso le sue ali in oltre 30 paesi, portando la comodità di un pasto caldo consegnato alla porta di casa a milioni di persone in tutto il mondo.

La sua entusiasmante avventura in Italia ha avuto inizio nel 2016, un’incursione coraggiosa in un mercato storicamente dominato dalla cucina locale e da un amore per la tradizione culinaria. Eppure, Uber Eats ha saputo navigare tra le onde dell’innovazione e della tradizione, creando un ponte tra la comodità della tecnologia e la passione per il buon cibo.

Ma, come un tramonto dopo una giornata luminosa, Uber Eats ha recentemente annunciato il suo ritiro dal territorio italiano a partire dal 15 luglio 2023, ponendo fine a un capitolo avventuroso nella sua storia. Nonostante una crescita esponenziale a livello globale e un modello di business che ha riscritto le regole dell’innovazione, il suolo italiano si è rivelato essere un terreno difficile. Non una sconfitta, ma un ritiro strategico, un’opportunità per ripensare, rinnovarsi e affrontare nuove sfide.

Un capitolo si chiude, ma la storia di Uber Eats è ancora in divenire. Analizziamo insieme le ragioni di questa decisione e il profondo impatto che la sua presenza ha avuto sul nostro Paese.

L’evoluzione di Uber Eats in Italia

Uber Eats ha intrapreso la sua audace espansione nel cuore del Belpaese, prendendo le mosse dalle luccicanti metropoli di Roma e Milano, per poi estendersi ad altre 60 città di media e ampia estensione, scontrandosi con le potenze rivali di Glovo e Deliveroo, nonché confrontandosi con la labirintica tessitura delle normative locali e le acrimonie riguardanti i diritti dei lavoratori.

Ciononostante, malgrado queste sfide, Uber Eats è riuscita a rivendicare un ruolo di protagonista nel teatro della consegna a domicilio, abbracciando incessantemente una filosofia di innovazione. Uber Eats, infatti, ha perpetuamente introdotto e sperimentato funzioni inedite e diversificato i propri servizi con costanza.

Un’espressione vivida di tale indole innovativa è stata l’implementazione della possibilità di ritiro in loco presso il ristorante, offerte speciali e la consegna di viveri, oltre al consueto cibo preparato, durante il periodo del lockdown dovuto alla pandemia.

L’innovazione per Uber Eats

Già nel 2019, l’azienda aveva annunciato l’intenzione di utilizzare droni per le consegne a domicilio all’insegna della velocità e della tecnologia. Ha anche avviato una collaborazione con Apple e Google, offrendo come modalità di pagamento rispettivamente ApplePay e GooglePay. Sempre nel rispetto del suo spirito pionieristico, Uber Eats ha anche introdotto l’opzione di preordine per cenare direttamente nel ristorante, tuttavia questa funzionalità non è mai arrivata in Italia.

Ha sostenuto l’industria della ristorazione nel Paese collaborando con migliaia di ristoranti e permettendo loro di espandere la propria clientela, fornendo allo stesso tempo nuove opportunità di business.

L’impatto di Uber Eats sul mercato italiano

Pur considerando il ritiro, l’effetto di questa azienda sul nostro mercato è stato ed è tuttora significativo perché ha cambiato in modo in cui le persone hanno iniziato a richiedere il cibo pronto direttamente nelle proprie case. Ma ha anche creato nuove opportunità di lavoro per i consegnatari e nuovi canali di vendita per i ristoratori.

Le positive innovazioni hanno però anche sollevato questioni sui diritti e la sicurezza dei Riders e controversie sulla struttura fiscale delle commissioni.

Perché Uber Eats ha cessato di operare in Italia

Nonostante il successo, l’azienda ha affrontato nel nostro Paese numerosissime sfide, prima tra tutte la concorrenza con le altre applicazioni di consegna. Ma non bisogna dimenticare anche la complessità delle leggi locali e le controversie circa i diritti dei lavoratori e i contratti non adeguatamente definiti. L’azienda ha dichiarato in un comunicato stampa ufficiale di aver avuto sempre come modello quello di un business sostenibile, ma le prospettive di crescita non hanno rispecchiato le aspettative originali. L’insieme di questi fattori ha contribuito alla decisione finale di chiudere l’operatività nel nostro Paese.

Le conseguenze per i ristoratori e per i dipendenti

Il fatto che Uber Eats si sia ritirato dal mercato ha avuto un forte impatto sui lavoratori coinvolti e sui ristoratori che collaboravano con l’applicazione. Da una parte i fattorini che hanno dovuto cercare piattaforme alternative di consegna per continuare l’attività e i ristoratori che hanno iniziato a cercare altri canali per raggiungere nuovi clienti o quelli già acquisiti attraverso la app. Sono circa 40 i dipendenti che lavorano negli uffici di Milano ad essere stati licenziati e migliaia i rider sparsi in tutta Italia.

Qual è il futuro delle consegne di cibo a domicilio

Con la partenza definitiva di Uber Eats, il panorama delle consegne a domicilio nell’ambito food si prepara a un nuovo cambiamento. Aziende come Deliveroo e Glovo possono sicuramente consolidare la propria posizione per coinvolgere gli utenti orfani di Uber Eats ma allo stesso tempo potrebbero apparire nuovi attori sul mercato, nel tentativo di approfittare di questo nuovo “spazio” vacante.

Gig economy e diritti del lavoro

L’esempio di Uber Eats ha sollevato l’attenzione sulle questioni relative a un modello di lavoro basato su contratti flessibili e a chiamata, ma senza la tipica protezione dell’impiego tradizionale. Questo dibattito è destinato a intensificarsi e arricchirsi anche dal punto di vista normativo, per cercare un maggiore equilibrio tra flessibilità e sicurezza per i lavoratori temporanei.

Uber Eats e crescita sostenibile

Ma nella pratica, come e perché è stata raggiunta la decisione di uscire dal mercato? Lo studio circa la sostenibilità del business necessita di dati e indicatori che gli esperti di project management utilizzano per valutare le performance. Lo studio può includere analisi dei trend di crescita dei ricavi ma anche i costi necessari per acquisire clienti, le spese sostenute e le previsioni relative al mercato.

Come molte altre aziende della delivery, Uber Eats ha un modello di business con margini ristretti e a questo deve corrispondere necessariamente una crescita rapida e costante per coprire tutti i costi ed essere redditizio. In Italia, tuttavia, questo tipo di mercato è altamente competitivo e con protagonisti consolidati: la crescita così diventa più difficile.

E se la base di clienti di Uber Eats non sembra destinata a crescere in modo sufficientemente rapido o se l’acquisizione dei nuovi clienti rivela costi eccessivi (ad esempio attraverso sconti e promozioni che riducono ulteriormente i margini), la conseguenza è una ulteriore pressione sul profitto complessivo.

Cosa rimane di Uber Eats in Italia

Uber è la società madre che, prima di Uber Eats, si è inizialmente proposta come servizio di car sharing e quindi nel settore della mobilità, dove continua e continuerà ad essere protagonista anche nel nostro Paese. 

Uber garantisce diversi servizi che consentono agli utenti di prenotare viaggi in auto con un conducente direttamente da un’applicazione sullo smartphone, con la possibilità di scegliere anche la tipologia di aiuto. Anche questi servizi hanno dovuto affrontare diverse problematiche, tra cui si sono evidenziate le proteste da parte dei tassisti professionisti e la necessità di rispettare tutte le normative locali. L’azienda ha comunque continuato ad investire nel servizio di mobilità riconoscendo il potenziale di crescita. Ad esempio, in alcune città, gli utenti possono già scegliere di viaggiare con auto elettrica o ibrida ed inoltre l’azienda sta cercando ulteriori modalità per migliorare il proprio impatto ambientale.

L’uscita dal mercato di Uber Eats segna la fine di un’epoca ma il suo impatto sarà duraturo, offrendo riferimenti importanti sia nel settore della food delivery che della gig economy, per quanto riguarda le innovazioni nel mondo del lavoro flessibile e delle consegne a domicilio.

Il vuoto incolmabile che lascia Uber Eats nel nostro Paese

A dispetto di queste possibili prospettive, un senso di perdita pervade i cuori di tutti quegli italiani che hanno utilizzato la piattaforma in questi anni. La verità è che Uber Eats, con il suo servizio impeccabile e la sua presenza ubiqua, lascerà un vuoto che sarà difficile da colmare.

È un vuoto che va oltre la semplice assenza di un servizio di consegna cibo. È un vuoto che risuona con l’eco di momenti condivisi, di serate tra amici salvate da un pasto inaspettato, di incontri a tarda notte con il solo conforto di un pasto caldo portato alla porta. È un vuoto che parla di innovazione, di cambiamento, di una rivoluzione silenziosa ma palpabile nel modo in cui viviamo e consumiamo.

La partenza di Uber Eats è, in realtà, molto più di una perdita commerciale: è una ferita nell’anima del nostro Paese, un taglio profondo nel tessuto della nostra quotidianità. Si tratta di una perdita di ciò che era diventato un elemento così integrato nelle nostre vite da sembrare quasi scontato.

Non è solo una questione di convenienza, ma di connessione. Un po’ come un sentimento di familiarità, di un senso di comunità che viene meno. Un servizio che, pur essendo globale, ha sempre avuto il potere di farci sentire a casa, ovunque fossimo.

Certo, il mondo non si fermerà. Nuovi servizi emergeranno, vecchi servizi si adatteranno e la vita continuerà. Ma quel vuoto, quel senso di mancanza che Uber Eats ci lascia, sarà difficile da riempire.

E così, mentre ci prepariamo a dire “arrivederci” a Uber Eats, ricordiamoci di quello che era e di come ha cambiato il modo in cui mangiamo, di come ha unito le persone, di come ha toccato le nostre vite. Ricordiamoci di Uber Eats, non solo come un servizio di consegna di cibo, ma come un amico, un compagno, un pezzo del cuore del nostro Paese. Ad maiora!

Concludiamo questo articolo con la nota ufficiale pubblicata sul sito ufficiale, uber.com.

«Il nostro viaggio con Uber Eats è iniziato a Milano nel 2016. Nel corso di questi sette anni abbiamo raggiunto oltre 60 città in tutte le regioni italiane, lavorando con migliaia di ristoranti partner che hanno potuto beneficiare dei nostri servizi per ampliare la loro clientela e le loro opportunità di business, specie in periodi critici come quello dovuto al Covid. In questi sette anni migliaia di corrieri e delivery partner hanno avuto la possibilità di guadagnare attraverso la nostra app in modo facile e immediato. In questi anni, purtroppo, non siamo cresciuti in linea con le nostre aspettative per garantire un business sostenibile nel lungo periodo. Ecco perché oggi siamo tristi di annunciare che abbiamo preso la difficile decisione di interrompere le nostre operazioni di consegna di cibo in Italia tramite l’app Uber Eats. Il nostro obiettivo principale è ora quello di fare il possibile per i nostri dipendenti, in conformità con le leggi vigenti, assicurando al contempo una transizione senza problemi per tutti i nostri ristoranti ed i corrieri che utilizzano la nostra piattaforma. Nonostante questa difficile decisione vogliamo ribadire il nostro impegno verso l’Italia, che non intendiamo assolutamente abbandonare: questa decisione ci consentirà di concentrarci ancora di più sui nostri servizi di mobilità, dove stiamo registrando una crescita importante. Grazie al servizio Uber Black e all’accordo con It Taxi, infatti, ad oggi siamo presenti in 10 città italiane: negli ultimi 12 mesi oltre un milione di italiani e turisti ha utilizzato l’app Uber per muoversi nelle città dove operiamo e quasi 10 mila autisti, tra NCC e taxi, hanno avuto la possibilità di realizzare almeno una corsa sempre attraverso la nostra app. Non solo: dopo il lancio del servizio Taxi in Sardegna annunciato la settimana scorsa, prevediamo di aumentare ulteriormente la nostra presenza nel Paese e di lanciare quattro nuove città entro la fine dell’anno. Vogliamo ringraziare tutti quelli che, in questi anni, ci hanno dato la loro fiducia, collaborazione, affetto, dedizione e passione. Grazie a tutti.»

Animato da un’indomabile passione per il giornalismo, Junior ha trasceso il semplice ruolo di giornalista per intraprendere l’avventura di fondare la sua propria testata, Sbircia la Notizia Magazine, nel 2020. Oltre ad essere l’editore, riveste anche il ruolo cruciale di direttore responsabile, incarnando una visione editoriale innovativa e guidando una squadra di talenti verso il vertice del giornalismo. La sua capacità di indirizzare il dibattito pubblico e di influenzare l’opinione è un testamento alla sua leadership e al suo acume nel campo dei media.

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Attualità

Gene Hackman, un patrimonio da 80 milioni e un testamento che divide: quali spiragli per...

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Ci sembra doveroso condividere una storia che lascia molte domande in sospeso. Gene Hackman, attore iconico e vincitore di un Premio Oscar, non è più tra noi, e con lui se n’è andata anche Betsy Arakawa, la compagna che gli è stata accanto a lungo. Come testata, non possiamo evitare di ripensare alla complessità di un legame familiare che, alla fine, si ritrova racchiuso in un testamento controverso. E sono 80 milioni di dollari a fare da sfondo a questa vicenda.

Una fortuna che sembrava destinata alla moglie… e poi alla beneficenza

Le carte che circolano, documenti che abbiamo esaminato con attenzione, riferiscono di un’eredità inizialmente destinata alla moglie di Hackman. In seguito, sarebbe stato creato un trust finalizzato a supportare enti benefici e a coprire spese mediche. Ora che entrambi sono scomparsi, sembra che la rete di volontà e vincoli legali diventi sempre più intricata. Non sappiamo, con certezza assoluta, chi finirà per gestire davvero questi fondi, ma diversi esperti hanno già avanzato ipotesi su eventuali strascichi giudiziari.

Ci colpisce, però, il dettaglio più sconcertante: i figli di Hackman, nati dalla precedente unione con Faye Maltese, non sarebbero menzionati. Christopher Allen, 65 anni, avrebbe manifestato in passato difficoltà nel rapporto con il padre dopo il divorzio. Leslie, 58, ed Elizabeth Jean, 62, sembrano invece aver avuto contatti più regolari con lui, almeno stando ai racconti di chi li ha visti insieme a qualche prima cinematografica. Questa potenziale esclusione, in ogni caso, ha acceso le speculazioni su un conflitto legale che potrebbe aprirsi ora che né Hackman né la moglie sono in vita.

Un testamento del 2005 e l’ombra dell’Alzheimer

Gira voce che le ultime volontà dell’attore siano state firmate nel 2005, in un periodo in cui alcune fonti ipotizzavano una diagnosi di Alzheimer. La domanda che ci poniamo, e che forse anche voi condividete, è quanto questa condizione possa aver inciso sulle sue decisioni. Non esistono prove incontrovertibili, ma persiste un senso di incertezza sulle possibili motivazioni che avrebbero portato a escludere i tre figli.

Resta la prospettiva di un lungo iter per chiarire come questi 80 milioni verranno effettivamente ripartiti. Noi continueremo a seguire la vicenda, perché sentiamo che ogni ulteriore dettaglio potrà gettare nuova luce su una storia familiare carica di dubbi e lacune. E forse, soltanto il tempo riuscirà a diradare ogni sospetto.

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Attualità

Jim Morrison, il fantasma che non trova pace? Il nuovo documentario risveglia l’enigma

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Una storia che mette i brividi, quasi come se ci fosse una porta socchiusa nel passato pronta a riaprirsi. Potremmo persino dire che questa vicenda ci riporta a un bivio in cui ogni certezza traballa: si parla ancora di Jim Morrison. Non si tratta della solita leggenda metropolitana da bar, ma di una questione che è riemersa con vigore grazie al documentario Before the End: Searching for Jim Morrison, firmato dal regista Jeff Finn e disponibile su Apple TV+.

Guardandolo, saltano fuori sussurri, ipotesi, tracce polverose. E c’è una domanda, lì, che spiazza: Morrison è davvero morto a Parigi nel 1971 per un attacco di cuore, come afferma la versione ufficiale, oppure ha inscenato la propria uscita di scena per sfuggire ai riflettori?

Un documentario che sfida i referti

Il film di Finn fa qualcosa di audace: non si limita a riflettere sulla vita travagliata del frontman dei Doors, ma rilancia l’idea che il suo decesso possa essere stato, in realtà, un piano per sparire. Vecchie testimonianze, interviste raccolte nel tempo e voci che continuano a puntare su un uomo misterioso, un tale “Frank,” risvegliano antiche curiosità. Alcuni sostengono di aver incontrato questo sconosciuto negli Stati Uniti, in luoghi anonimi come un condominio di Syracuse, e di aver notato su di lui una cicatrice esattamente dove Jim aveva un piccolo neo in volto.

Una realtà capovolta

Diventa sconcertante pensare a un Morrison che abbandona tutto: musica, fan, ribalta mediatica. Cosa l’avrebbe spinto a tanto? Per alcuni, la pressione insopportabile di essere un’icona rock. Per altri, la semplice voglia di respirare una vita più normale, lontana dagli assedi dei paparazzi e dall’industria discografica. C’è chi considera questa ipotesi un’eresia, eppure il documentario s’insinua negli spiragli di dubbio come un’ombra tenace.

La fragilità di un mito

Tutto ruota attorno a un conflitto tra la storia che conosciamo e le supposizioni che resistono da decenni. Da un lato, abbiamo un certificato di morte che parla chiaro: insufficienza cardiaca. Dall’altro, individui che giurano di aver visto il leggendario artista ben oltre la data del 1971. Pura follia? Oppure frammenti di verità rimasti in sordina per mezzo secolo?

A ben pensarci, la fascinazione verso i miti eterni è una costante: tanti fan, forse, non vogliono accettare che il Re Lucertola se ne sia andato così presto. E Before the End rimescola le carte, trasformando una vecchia ferita in un nuovo motivo di stupore. Noi non pretendiamo di fornirvi risposte definitive, ma ammettiamo che questa storia – proprio come la voce di Morrison – sa risvegliare in chiunque un’indomita voglia di andare oltre ciò che appare.

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Attualità

Blake Lively e Justin Baldoni, scontro giudiziario a Hollywood: l’attrice ottiene un...

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Una vicenda che intreccia accuse gravi, contrattacchi e il timore che dettagli intimi finiscano in pasto alla stampa. Sembra un romanzo drammatico, invece è un fatto reale: Blake Lively, in lotta legale contro il regista e attore Justin Baldoni, ha ottenuto un parziale successo per tenere al sicuro alcune informazioni delicate. Non un trionfo definitivo, ma un primo passo per impedire che conversazioni private e dati strettamente personali possano raggiungere un pubblico affamato di scandali.

È una disputa che si sta consumando nei corridoi di un tribunale federale, dove Lively ha denunciato Baldoni con pesanti accuse di molestie sessuali e ritorsione. Come se non bastasse, Baldoni ha scelto di contrattaccare, portando in causa lei e Ryan Reynolds per diffamazione. Un intreccio complicatissimo di accuse incrociate, punteggiato da strategie legali sofisticate e decisioni giudiziarie che potrebbero fare giurisprudenza. Il giudice Lewis Liman, pochi giorni fa, ha parzialmente accolto la richiesta di Lively di mantenere “solo per gli avvocati” alcuni materiali di divulgazione. Parliamo di messaggi, piani e appunti creativi che Baldoni vorrebbe introdurre come prove per sostenere le proprie ragioni.

Perché mai limitare l’accesso soltanto ai legali?

La motivazione, in fondo, è semplice: proteggere segreti commerciali, piani di marketing, questioni di salute e persino i sistemi di sicurezza dell’attrice, che sarebbero esposti a un rischio enorme se condivisi liberamente. Senza dimenticare l’aspetto ancora più delicato: la salvaguardia di terzi estranei alle diatribe giudiziarie, i cui dati riservati potrebbero emergere involontariamente e generare danni irreparabili.

L’incubo della fuga di notizie aleggia come un’ombra su tutta la vicenda. Il giudice Liman ha sottolineato che quando in gioco ci sono star, addetti stampa e un case ufficiale di accuse pesanti, il pericolo di rivelazioni non autorizzate si alza vertiginosamente. Ciò che in teoria resta “riservato” rischia di finire nel circolo dei pettegolezzi – soprattutto all’interno della comunità artistica, dove una semplice allusione può devastare carriere e reputazioni.

Gli avvocati di Baldoni, dal canto loro, ammettono la necessità di proteggere materiale sensibile ma contestano l’idea di una condivisione esclusiva fra legali. Ritengono che un simile muro possa rallentare il processo, generando inevitabili attriti e continui ricorsi al giudice su ciò che dev’essere tenuto segreto e ciò che può essere trasmesso ai rispettivi clienti. Il tribunale, però, ha scelto un equilibrio: ha accolto alcuni punti avanzati dalla difesa di Lively ma non tutti. Ha fissato paletti precisi: niente divulgazioni che possano causare danni “significativi”, con un margine piuttosto ridotto di interpretazione.

Per ora la bilancia pende leggermente dalla parte dell’attrice, anche se il conflitto legale resta aperto e denso di sfumature da chiarire. Noi continuiamo a seguire l’evoluzione di questo caso sui generis, convinti che la verità, qualsiasi essa sia, emergerà tra i faldoni legali e la fermezza di chi vigila sul rispetto della riservatezza. Non è una storia con un vincitore annunciato, ma un racconto che si aggiorna di ora in ora, in un palcoscenico giudiziario dove la tensione è tutt’altro che scesa. E alla fine, la domanda chiave resta: fino a che punto si spingerà questo duello, e cosa accadrà se i segreti di Hollywood dovessero varcare i confini di quell’aula di tribunale?

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