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Denatalità, Azzurra Rinaldi: “La disuguaglianza economica...

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Denatalità, Azzurra Rinaldi: “La disuguaglianza economica non conviene a nessuno”

Parlare di economia di genere aiuta a ridefinire il campo stesso, per un approccio più sostenibile per il futuro. La disuguaglianza, abbiamo capito, non conviene a nessuno”. A sostenerlo è Azzurra Rinaldi, economista femminista. Così si definisce la docente di Economia Politica all’Università Unitelma Sapienza di Roma, dove è anche Direttrice della School of Gender Economics. Nel 2022 ha fondato Equonomics, per portare il tema dell’equità di genere all’interno di aziende e istituzioni. Fa parte del board della European Women Association e di quello di Opera for Peace. È membro onorario del Board della UK Confederation. È Componente del Comitato Scientifico di Save the Children e dell’Osservatorio sul Terziario ManagerItalia. E a lei abbiamo chiesto cosa sia questo nuovo approccio all’economia che potrebbe cambiare culturalmente il concetto di femminismo e di parità di genere.

“Si dovrebbe dire economia femminista- ci spiega Azzurra Rinaldi -, perché nella teoria economica abbiamo due branche: l’economia di genere mainstream classica e neoclassica che vede la crescita economica continua e lineare del Pil e di produzione di ricchezza. Dall’altro lato c’è l’economia femminista che si pone in antagonismo abbracciando una crescita circolare e non lineare e che nasce dall’analisi delle discriminazioni che le donne subiscono sul mercato del lavoro mettendo in luce la sub efficienza che questo fenomeno genera al sistema nazionale. L’economia femminista indaga come le discriminazioni impattano sulla collettività e sul sistema di produzione sensibilizzando sul ruolo che le donne possono avere nel cambiamento e nella crescita economica di un Paese”.

L’Italia sta vivendo quello che l’Istat ha definito un “inverno demografico”. Denatalità e occupazione femminile: qual è il legame e come una visione economica diversa può migliorare il rapporto?

“A dispetto dell’immaginario della mamma che sta a casa con 50 figli, la letteratura dimostra che al tasso di occupazione femminile più alto corrisponde anche un tasso di natalità più alto. Quando due persone in una coppia lavorano e possono permettersi di sostenere più spese, c’è libertà di scelta. Lo Stato così ha un bilancio più ricco e può offrire più servizi pubblici e gratuiti. Noi pensiamo che non abbiamo strutture a supporto della genitorialità e della conciliabilità perché in Italia mettiamo in campo misure manchevoli dal punto di vista dell’occupazione femminile. Un bonus, del quale non è garantita la durevolezza nel tempo, ma che potrebbe esaurirsi con questo Governo, non è uno strumento utile ad una progettualità. Il minimo per invertire il trend della denatalità è fornire servizi pubblici e gratuiti alle famiglie e incentivare una parità di genere lavorativa”.

Può l’economia essere la disciplina grazie alla quale si muovono leve per il cambiamento culturale?

“Se venisse adottata un’economia femminista saremmo molto più avanti di oggi. Questo approccio aiuterebbe a sdoganare il concetto di femminismo. È un termine positivo e non può essere considerato ancora come divisivo. Inserirlo nel lessico quotidiano, migliorerebbe il senso di responsabilità e di cura, per le donne, per l’ambiente, per le persone in generale. Ammesso che arriviamo al 2050, questa è la strada da percorrere e non con l’economia mainstream che abbiamo capito che non funziona. Solo così ci si assumerebbe una reale responsabilità nei confronti delle future generazioni”.

Ma è tutta colpa degli uomini? Hanno paura di mostrarsi alleati delle donne?

“Uno studio di Manageritalia ha rilevato che oltre l’80% dei manager uomini sotto i 40 anni chiede il congedo di paternità obbligatorio come quello di maternità. C’è anche per gli uomini la voglia di inglobare le proprie mansioni nella vita familiare, nel sistema di cura e di divisone del lavoro in casa. Altri invece non ne vogliono ancora sapere e hanno paura di lasciare andare un sistema rodato. I più giovani sono quelli più vicini alle donne: non hanno ancora posizioni di potere e forse sono più sensibili ad un dialogo sul tema. Il modello di una maternità esclusiva come unico compito affidato alla donna non è più una buona pubblicità di maternità. Non ci si può annullare come persona. È per questo che è necessaria una ridefinizione del ruolo di cura e di genitorialità”.

In sintesi, potremmo dire che “La disuguaglianza non conviene a nessuno”. Però fino ad oggi è stata l’arma vincente per molti: secondo te perché?

“Perché l’economia è una scienza nata con gli uomini e per gli uomini. Nel 1800 è stata fatta una scelta precisa: sin da subito è stato chiarito chi doveva stare a casa gratis e chi doveva andare fuori a guadagnare. Economiste donne sono state depredate dei propri lavori da parte dei colleghi che hanno vinto Nobel al posto loro. Però abbiamo assistito al fatto che l’economia mainstream, così come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi, ha fallito. Se si capisse che la disuguaglianza con conviene a nessuno e che la parità apporta guadagno ad un Paese, in termini di crescita del Pil, si potrebbe invertire la rotta”.

Azzurra Rinaldi – Foto di Martina Chiapparelli

“Le signore non parlano di soldi” è il titolo di un tuo libro. Eppure, tu ne parli. Qual è il limite entro il quale una donna si autocensura e, invece, qual è quello entro il quale viene censurata?

“Penso che il discrimine sia la consapevolezza. La donna non va bene mai: se lavori non va bene, se non lo fai non va bene uguale. Così come la maternità: se sei madre o se non lo sei, qualcuno avrà sempre da ridire. Viviamo in un sistema in cui perdiamo a prescindere, qualsiasi cosa facciamo. Se partissimo dalla consapevolezza che non si va bene mai, si potrebbe pensare di andar bene sempre. Parlare di soldi, da donna, è l’unico strumento di libertà e di scelta che possa garantire un’autodeterminazione e un’indipendenza”.

#DateciVoce è un movimento nato per riconoscere la professionalità femminile in alcuni campi, ancora oggi a prevalenza maschile. Ma il permesso di parlare le donne lo devono ancora chiedere?

“Quel movimento è nato durante il Covid per dare voce alle donne assenti nelle task force scese in campo per fronteggiare la pandemia. “Dateci Voce” è una formula passiva perché, se i leader politici e i leader nei vari campi sono per circa il 9o% uomini, purtroppo deve partire anche da loro questa apertura e quindi è una richiesta retorica: quella di venirci incontro”.

“Come chiedere l’aumento” è la tua futura pubblicazione. Ho letto che hai scritto che l’hai realizzato con un femminile sovra esteso, cioè, riferito alle donne, ma che va bene anche per gli uomini. Come si risponde a chi definirebbe questa scelta come politica, a chi sostiene che il femminismo è la nuova forma di maschilismo?

“Per lavoro insegno. In libri e divulgazioni scientifiche ce la metto tutta per concedere alle persone di imparare, così come invece imparo io in primis da chi ha più esperienza di me su altri argomenti. Ma non a tutti possiamo spiegare la vita. Se c’è chiusura, non è compito nostro insistere. Sul dizionario la differenza tra maschilismo e femminismo è chiara: la prima vede prevaricazione degli uomini sulle donne e la seconda invece invoca la parità. Ecco perché la scelta del femminile sovra esteso è venuta automatica. È chiaramente una scelta politica: chiediamo agli uomini di fare uno sforzo di adattarsi ad un linguaggio al quale noi ci siamo adattate per tutta la vita”.

Hai tre figlie femmine alle quali starai insegnando un’educazione finanziaria, immagino. Tu hai avuto questo esempio? E quanto pensi sia importante il ruolo dei genitori nell’educare i figli alla parità di genere, compresa quella economica?

“Ho avuto il grande privilegio di avere un papà, nato nel 1940, che si definiva femminista. Ma di soldi in casa mia non si parlava mai. Questa educazione me la sono dovuta conquistare da sola. Secondo gli ultimi dati Edufin, siamo ultimi in materia di educazione finanziaria. I genitori sono i primi a non averne una e, come tutto, anche questo fenomeno si eredita. È un problema collettivo. La spinta autonoma dovrebbe arrivare cercando risposte a domande del tipo: ‘Come faccio a essere un buon cittadino o cittadina, elettore o elettrice se non capisco come lo stato spende i soldi? Se lo fa in modo equo oppure no?’. Se non hai questi elementi come fai?”.

Un consiglio che ti senti di dare a chi vuole apprendere di più sull’economia di genere per avere una maggiore autonomia, anche rispetto alle tante donne vittime di violenza economica

“In generale, non dobbiamo avere paura di chiedere aiuto. Ci sono tanti strumenti gratuiti anche online per entrare in contatto con la dimensione del denaro come la Fondazione per l’Educazione Finanziaria e al Risparmio (FEduF): strumenti di conoscenza gratis, come molti divulgatori online che fanno un ottimo lavoro. Per le donne che cercano di uscire da percorsi di violenza economica e non, ricordo a tutte che non sono sole. Ci sono enti o realtà che ti aiutano a rimetterti in piedi, a trovare un lavoro. Con Fondazione Banca Etica, abbiamo realizzato il progetto Monetine: ci siamo rivolte alle operatrici e donne dei centri antiviolenza per dare una base economico-finanziaria. L’unico modo per mantenersi indipendenti è lavorare e gestire il proprio stipendio. Spero ci siano sempre più uomini alleati che non abbiano paura di abbandonare lo stereotipo di virilità”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Matrimonio, 300 invitati e fino a 50 mila euro di spesa:...

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Spendono fino a 50 mila euro per organizzare le nozze dei sogni. In alcuni casi, soprattutto al Sud e nelle Isole, gli invitati possono essere anche 300. Non è un caso che preferiscano sempre più spesso la busta con i soldi, al posto della lista per i regali e il viaggio è sempre più rimandato a data da destinarsi. Questo è il profilo degli sposi italiani emerso dall’Indagine mUp Research e Norstat commissionata da Facile.it e legata agli ultimi 24 mesi.

Quanto costa sposarsi?

In media il costo di un matrimonio è di 13.721 euro. Un costo che negli ultimi anni è cresciuto notevolmente se si pensa che chi si è sposato negli anni Ottanta ha speso poco più di 7mila euro in media. C’è anche chi non bada a spese e nello stesso arco temporale è passata dal 3% al 21% la quota di chi ha pagato tra i 20.000 e i 50.000 euro.

Non è un caso che più di 7 coppie su 10 hanno dovuto chiedere un aiuto. I genitori restano la prima opzione, ma cresce il numero degli sposi che opta per un prestito personale. Se negli anni ’80 e ’90 era una pratica quasi del tutto assente, negli ultimi due anni la percentuale degli sposi che ha chiesto un prestito è arrivata al 10%.

Prestiti per la cerimonia

“Il rapporto degli italiani con il credito al consumo – spiegano gli esperti di Facile.it – è sempre più maturo. Questo tipo di prodotto, se utilizzato con consapevolezza, può essere una soluzione sia per non rinunciare ad un sogno, sia per rendere la spesa più sostenibile sul budget familiare”.
Tra le 200.000 richieste raccolte nell’ultimo anno, chi ha fatto domanda di finanziamento per pagare spese legate a matrimoni o cerimonie ha puntato ad ottenere, in media, poco più di 9.000 euro, con piano di ammortamento pari a 5 anni. L’età media è passata da 39 a 41 anni.

Guardando all’andamento territoriale delle domande di prestito, emerge che le regioni dove il peso percentuale di questo tipo di finanziamento sul totale richieste è maggiore sono la Campania, la Puglia, la Sicilia e la Calabria. Guardando ai risultati dell’indagine emergono alcuni fenomeni interessanti; il budget necessario per la cerimonia, ad esempio, è normalmente più alto nelle regioni del Sud Italia e nelle Isole, dove, in media, si spende tra il 14% e il 17% in più rispetto al Nord.

Una questione territoriale

I costi sono spesso legati alla quantità di invitati con cui si decide di trascorrere questo giorno così importante. Se nel Nord Italia i partecipanti ad un matrimonio sono, sempre in media, meno di 80, al Sud e nelle Isole arrivano a 110, e addirittura nel 10% dei casi prendono parte alla festa tra le 200 e le 300 persone (percentuale che, invece, scende sotto all’1% nel Nord Ovest). Solo il 4% delle coppie, inoltre, sceglie di sposarsi in un territorio diverso da quello d’origine. Tendenzialmente, resiste l’usanza di sposarsi nella regione di origine di almeno uno dei due sposi.

Il viaggio di nozze

Il viaggio di nozze continua ad essere una prerogativa. Dall’indagine è emerso che 8 coppie su 10 lo fanno, ma rimandano la data lontano dalla cerimonia. Che sia un modo per ammortizzare i costi? Cosa certa è che alla luna di miele non si rinuncia e chi può, anche grazie ai soldi regalati alle notte, sceglie sempre e comunque di partire insieme per qualche giorno, nella più classica fuga romantica.

Busta o lista?

La busta con i soldi è il regalo più comune. Solo il 23% degli invitati si presenta con un oggetto fisico. Al pari della busta, resiste anche la lista di nozze (36%). Cresce, inoltre, l’uso del bonifico come contributo al viaggio di nozze: era il 6% a inizio 2000, oggi rappresenta il 26%.

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Quando il nonno diventa ‘nanny’

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Con l’arrivo imminente della chiusura delle scuole, il dilemma annuale per molti genitori italiani si presenta ancora una volta: dove far trascorrere le giornate ai propri figli durante l’estate? Mentre il conto alla rovescia per la fine dell’anno scolastico è sempre più vicino, le opzioni come i centri estivi, gli oratori, i campi sportivi e le case vacanze iniziano a dominare le conversazioni familiari.

Ma è durante questo periodo di transizione, tra la routine scolastica e le attese per le vacanze estive in famiglia, che i nonni diventano spesso la risorsa più preziosa: diventano le “nanny” di turno. È in questa cornice che il pediatra Italo Farnetani lancia un appello diretto a loro: “Approfittate di questi giorni e portate i nipoti al mare”.

“Mi rivolgo – afferma il dottor Farnetani – ai 12 milioni di nonni italiani, ricordando loro che ci sono 5 milioni e mezzo di nipoti dai 1 ai 14 anni che sognano già il mare. I nonni possono renderlo realtà, anche solo per un fine settimana o anche per un solo giorno”. Farnetani stima che questo potrebbe tradursi in ben “30 milioni di giornate al mare”, offrendo ai bambini e agli adolescenti un’opportunità preziosa per recuperare energie e socializzare dopo il difficile periodo vissuto durante la pandemia.

È passato un anno dall’annuncio della fine della pandemia, ma i ricordi dei giorni trascorsi in isolamento sono ancora freschi. Il dottor Farnetani sottolinea come questo periodo abbia portato a uno stile di vita più sedentario, con una riduzione dell’attività fisica che potrebbe favorire problemi come sovrappeso e obesità tra i giovani.

“Oggi più che mai, trascorrere del tempo al mare è essenziale per riscoprire il piacere degli incontri, della vita all’aria aperta e dell’attività fisica”, afferma il professore di pediatria. Anche se è importante che i bambini trascorrano le vacanze con i genitori, queste giornate extra al mare possono avere un impatto positivo significativo per il loro benessere fisico e mentale.

Il dottor Farnetani consiglia ai nonni di essere dinamici, allegri e sportivi durante queste giornate, poiché anche il loro atteggiamento influisce positivamente sull’esperienza dei più piccoli. Inoltre, suggerisce di scegliere mete con servizi di animazione per favorire l’aggregazione sociale e di assicurarsi che le spiagge abbiano adeguati sistemi di salvataggio.

In definitiva, queste esperienze al mare non solo offrono ai bambini momenti preziosi di gioia e divertimento, ma contribuiscono anche alla formazione di legami affettivi con i nonni e agli adulti che li accompagnano, creando ricordi che dureranno per sempre.

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Gli stereotipi di genere sono duri a morire, e anche le...

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Gli stereotipi di genere sono vivi e vegeti, e ancora condizionano le scelte delle persone. Delle donne, ma anche degli uomini, che spesso pensano che tali questioni non li riguardino ma che invece ne sono anch’essi vittime. Il problema più grande è che nessuno spiraglio di luce sembra venire nemmeno nelle nuove generazioni, immerse fino al collo nei pregiudizi e nei luoghi comuni. Il punto è che non parliamo di una giustizia generica e astratta, ma di qualcosa di molto pratico: i preconcetti pesano e indirizzano le scelte personali e lavorative, e in base ad essi giudichiamo gli altri e quello che fanno.

Una nuova ricerca conferma che il cammino verso l’abbattimento degli stereotipi è ancora lungo: l’Osservatorio Henkel ‘Genere e stereotipi’, in collaborazione con Eumetra, dal 2022 indaga i diversi ruoli nell’organizzazione e nella cura della famiglia su un campione rappresentativo della popolazione italiana, composto da 2.000 individui tra i 18 e i 55 anni appartenenti alla community del magazine ‘DonnaD, Amica Fidata’. In questa edizione, è stato realizzato un approfondimento su come e quanto i pregiudizi di genere influenzino le scelte personali, intervistando 1.000 persone, il 10% delle quali giovani della GenZ tra i 15 e 25 anni.

Intanto quello che emerge è che i preconcetti si abbattono con forza su ogni aspetto della vita: dalla scuola al lavoro al tempo libero, impedendo alle persone di essere realmente se stesse e di seguire i propri desideri e le proprie inclinazioni. Una situazione che va a svantaggio soprattutto delle donne ma che non risparmia nemmeno gli uomini, anch’essi vittime di luoghi comuni e di aspettative sociali che diventano gabbie. In definitiva, possiamo dire che gli stereotipi siano sinonimo di limite.

Ma la cosa davvero preoccupante che emerge dall’analisi è che le donne stesse sono parte attiva degli stereotipi, anche quando gli si ritorcono contro: anche loro infatti dividono il mondo, i gusti, le attività e in definitiva le opportunità tra quelle ’maschili’ e quelle ‘femminili’.

Matematica per i maschi, cura degli altri per le femmine

E si comincia presto, dall’istruzione: la convinzione di base è che ci siano scuole e indirizzi universitari per maschi e altri per femmine, perché fondamentalmente ci sarebbero attitudini diverse tra i due sessi. La pensa così il 53% degli uomini, il 52% delle donne, il 45% dei ragazzi GenZ e il 38% delle ragazze GenZ.

Il problema qui è a monte:

• per il 43% degli uomini, il 33% delle donne, il 42% dei ragazzi GenZ e il 32% delle ragazze GenZ i due sessi hanno capacità pratiche diverse
• per il 27% degli uomini, li 26% delle donne, il 33% dei ragazzi GenZ, e il 25% delle ragazze GenZ hanno capacità cognitive diverse.

Facile immaginare quali siano gli indirizzi abbinati all’uno o all’altro genere: gli stereotipi li conosciamo tutti. Perciò materie scientifiche, tecnologiche o pratiche sono ritenute ‘da maschi’, quelle umanistiche o dedicate alla cura della persona sono ‘da femmine’. E questo per natura. La donna biologicamente non capirebbe la matematica, l’uomo biologicamente non sarebbe portato a cambiare un pannolino, accudire un familiare malato o fare l’educatore d’asilo.

Il risultato è che, nonostante i tanti esempi di papà che riescono benissimo ad occuparsi dei propri figli o dei genitori anziani, e di donne con brillanti menti scientifiche, le ragazze continuano a non iscriversi agli indirizzi STEM (Science (scienza), Technology (tecnologia), Engineering (ingegneria) e Mathematics (matematica)). E questo perché si autolimitano prima, non ritengono di essere in grado semplicemente perché sono femmine, mentre è del tutto naturale che i maschi diventino fisici o ingegneri. Ed è altrettanto ovvio che i ragazzi non si iscrivano a lettere. O, allargando un po’, a danza classica.

Per gli uomini il calcio è uno sport da maschi

Anche lo sport infatti cade sotto la scure del pregiudizio: ci sono quelli da maschi e quelli da femmine. Il che si traduce nel fatto che il calcio è roba da uomini per il 63% di loro, mentre il 76% delle donne lo ritiene adatto a tutti. Lo stesso per la danza, vista come attività femminile dal 64% degli uomini, a fronte dell’83% delle donne che non condivide questa idea. In ogni caso il risultato è che il 18% della Generazione Z sceglie lo sport in base al proprio genere, con il 17% dei ragazzi e il 14% delle ragazze influenzato dalle scelte degli amici maschi o femmine.

La cura della famiglia è cosa da donne, i soldi da uomini

Tornando alle grosse scelte di vita, la musica non cambia: il 62% delle donne pensa che esistano lavori adatti a loro e altri ai maschi, opinione condivisa dal 74% degli uomini. Risultato: il 56% delle donne ritiene di avere una retribuzione più bassa dei colleghi uomini e solo il 38% pensa di ricevere uno stipendio equo. Non solo: il 33% della popolazione femminile afferma di aver dato priorità alla famiglia piuttosto che alla carriera, e potremmo aggiungere al lavoro in generale, visto che il tasso di occupazione femminile italiano tra i 20 e i 64 anni è solo del 55% (IV trimestre 2022) a fronte di una media europea del 69,3%. Il lato interessante è che il 25% degli uomini ritiene di fare rinunce a favore della famiglia, sebbene solo il 5% abbia lasciato il lavoro. Insomma, c’è un problema di percezione ampio, senza nulla togliere a quel 5% che si è effettivamente sacrificato.

D’altronde che il carico familiare e di rinunce sia ancora prerogativa prettamente femminile, lo confermano ulteriori stereotipi: la cura della casa e dei parenti è ancora appannaggio delle donne, mentre di burocrazia e soldi si occupano gli uomini. Attenzione: occuparsi significa anche decidere. E decidere significa potere, e libertà: se non puoi decidere non sei libero, e la mancanza di autonomia finanziaria è uno dei grandi problemi per i quali le donne rimangono in relazioni infelici se non addirittura tossiche. E più in generale spesso non possono determinare la propria vita.

Spiraglio positivo: per l’80% dei giovani della GenZ, ci si deve occupare delle necessità familiari in maniera paritaria. Un passetto avanti rispetto al 18% degli intervistati che pensa che chi guadagna di più debba anche avere voce in capitolo sulle decisioni economiche. Peccato che nella maggior parte dei casi sia l’uomo a portare in casa più soldi, perché hanno lavori meglio retribuiti o perché a parità di mansioni prendono di più, perché le donne lasciano l’impiego per motivi familiari o perché ripiegano sul part time e la carriera spesso è un totale miraggio.

Ma un dato incoraggiante c’è, ed è che per il 68% degli uomini la cura della casa deve essere insegnata anche ai maschi, percentuale che raggiunge addirittura il 100% nella GenZ.

Tuttavia, le ragazze continuano a godere di minor libertà, e dunque di minori opportunità: il 53% di loro riceve una paghetta a fronte del 64% dei fratelli, il 57% non ha un coprifuoco quando esce a fronte del 74% dei ragazzi, il 66% non ha mai nemmeno parlato con i genitori di studiare all’estero mentre il 64% dei maschi ha potuto godere di un periodo formativo fuori dall’Italia.

Gli stereotipi sembrano davvero un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire, a maggior ragione perché si tramandano a partire dall’educazione, dal momento apparentemente innocente in cui si scelgono i giocattoli dividendoli in cose da femmine o da maschi (lo fa il 47% dei padri, mentre per il 62% delle madri i giochi non hanno genere). Le disuguaglianze di genere vengono perpetuate così, a vari livelli, anche nella vita quotidiana, attraverso scelte che sembrano banali ma che influiscono sui pensieri e la direzione che prenderà la vita di ognuno. A cominciare da quel vestitino rosa e da quelle scarpe con i dinosauri sopra, da quel bambolotto e da quelle macchinine regalate per Natale.

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