Salute e Benessere
Sclerosi multipla, neurologo Gasperini: “Cladribina...
Sclerosi multipla, neurologo Gasperini: “Cladribina riduce attività infiammatoria”
'Riduce progressione disabilità, auspichiamo possibilità di trattamento per oltre 2 anni'
Recenti dati "riguardanti il trattamento con cladribina dimostrano tre aspetti importanti. Il primo è relativo all'efficacia. Abbiamo visto, infatti, che la terapia ha un'efficacia sulla riduzione dell'attività infiammatoria, ma anche sulla progressione della disabilità a lungo termine. Il secondo aspetto, altrettanto importante, è legato alla safety. Quella con cladribina è una terapia che sostanzialmente non presenta sorprese dal punto di vista della sicurezza. Il terzo aspetto riguarda la qualità della vita: il paziente, se in trattamento orale, con poche compresse, come in questo caso, per un periodo di tempo limitato, quasi può dimenticarsi di essere trattato". Così Claudio Gasperini, dirigente medico del Dipartimento di Neuroscienze dell'Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, a margine della prima delle due giornate 'Space of care: as one for patients', evento organizzato a Milano dall'azienda farmaceutica globale Merck e dedicato alle nuove frontiere terapeutiche per il trattamento della sclerosi multipla recidivante altamente attiva, tra le quali spicca cladribina in compresse.
"Il tema che ci si deve porre - sottolinea l'esperto - è per quanto tempo si può utilizzare questa terapia, perché noi sappiamo che le linee guida ci permettono di trattare il paziente per 2 anni. La Società italiana di neurologia, ad esempio, si sta esprimendo su questo aspetto in quanto si sta andando sempre più verso un trattamento personalizzato - precisa Gasperini - Dagli studi real world, condotti anche in altri Paesi, stanno emergendo dati che ci dimostrano come cladribina, utilizzata anche con un terzo ciclo, possa portare giovamenti da un punto di vista di efficacia, senza aumentare il problema della safety, per un lungo periodo di tempo".
"Auspichiamo che, nell'ambito della terapia personalizzata - conclude il neurologo - ci sarà la possibilità, per noi neurologi, di potere utilizzare il farmaco anche oltre i 2 anni, che è il periodo di tempo per cui oggi viene somministrata nella pratica clinica".
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Medicina: funziona Ai per individuare pazienti ad alto...
Un elettrocardiogramma (Ecg) intelligente, ovvero abilitato con l'intelligenza artificiale, è stato in grado per la per la prima volta di identificare pazienti ospedalizzati, ma ad alto rischio di mortalità. Un enorme passo avanti che può potenzialmente migliorare i risultati della diagnosi clinica.
Lo studio controllato randomizzato - coordinato dal National Defense Medical Center di Taipei (Taiwan) - ha coinvolto 39 medici e 15.965 pazienti. L'intervento di questo Ecg intelligente comprendeva un report sul paziente e un avviso ai medici in cui veniva segnalato se l'assistito che partecipava allo studio era ad altro rischio. In questo modo i medici erano avvisati e potevano concentrarsi su chi poteva peggiorare in poche ore e morire. Ebbene, lo studio ha raggiunto il suo obiettivo primario, "rilevando che l'implementazione dell'allarme Ai-Ecg era associato a una significativa riduzione della mortalità per tutte le cause entro 90 giorni: solo il 3,6% dei pazienti nel gruppo di intervento è morto entro 90 giorni, rispetto al 4,3% del gruppo di controllo", evidenzia la ricerca pubblicata su 'Nature Medicine'.
Nelle analisi degli esiti secondari, "i pazienti nel gruppo di intervento - con Ecg ad alto rischio - hanno ricevuto più cure in terapia intensiva rispetto al gruppo di controllo"; ma il fatto che ci fosse l'alert Ai-Ecg ai medici ha portato "ad una riduzione significativa del rischio di morte cardiaca (0,2% nel braccio dello studio che ha avuto l'intervento dell'Ai-Ecg rispetto al 2,4% del gruppo di controllo)", concludono i ricercatori.
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Scoperto interruttore che spegne il grasso bruno...
Allo studio contro l'obesità, scienziati al lavoro per una strategia che lo attivi in modo sicuro con dei farmaci
E' diverso dal solito grasso, 'nemico giurato' di molti, un tormento quando si accumula attorno alla pancia e alle cosce. Il grasso bruno, noto anche come Bat (tessuto adiposo bruno), è un altro tipo di grasso presente nel nostro corpo e ha una missione speciale: aiuta a bruciare le calorie degli alimenti che consumiamo trasformandole in calore, il che può essere utile, soprattutto quando siamo esposti a temperature fredde come durante il nuoto invernale o la crioterapia. Per molto tempo gli scienziati hanno pensato che solo i neonati e piccoli animali come i topi lo avessero. Ma una nuova ricerca mostra invece che un certo numero di adulti mantiene il grasso bruno per tutta la vita. E gli scienziati stanno cercando un modo per attivarlo in modo sicuro utilizzando farmaci che aumentino la sua capacità di produrre calore, e sfruttando questa sua efficacia nel bruciare calorie. Un nuovo lavoro svela un possibile 'interruttore'.
Nel dettaglio, i gruppi di ricerca di Jan-Wilhelm Kornfeld dell'University of Southern Denmark/Novo Nordisk Center for Adipocyte Signaling (Adiposign) e di Dagmar Wachten dell'University Hospital e dell'università di Bonn (Germania) hanno scoperto che un meccanismo integrato finora sconosciuto che spegne il grasso bruno subito dopo essere stato attivato. Ciò limita la sua efficacia come trattamento contro l'obesità, evidenziano gli esperti. Secondo la prima autrice dello studio, Hande Topel, la 'chiave' è una proteina responsabile di questo processo di spegnimento. Si chiama 'AC3-AT'.
"Guardando al futuro, riteniamo che trovare modi per bloccare AC3-AT potrebbe essere una strategia promettente per attivare in modo sicuro il grasso bruno e affrontare l'obesità e i problemi di salute correlati", afferma l'esperta. Il gruppo di ricerca ha trovato la proteina di spegnimento utilizzando una tecnologia avanzata: "Quando abbiamo studiato topi che geneticamente non avevano AC3-AT, abbiamo scoperto che erano protetti dal diventare obesi, in parte perché i loro corpi erano semplicemente più bravi a bruciare calorie ed erano in grado di aumentare i loro tassi metabolici attivando grasso bruno".
Gli scienziati hanno quindi nutrito due gruppi di topi con una dieta ricca di grassi per 15 settimane, cosa che li ha resi obesi. Il gruppo a cui è stata rimossa la proteina AC3-AT ha guadagnato meno peso rispetto al gruppo di controllo ed era metabolicamente più sano. "Questi topi hanno anche aumentato la massa magra rispetto ai topi di controllo", sottolinea la coautrice Ronja Kardinal. "Poiché AC3-AT si trova non solo nei topi, ma anche negli esseri umani e in altre specie, ci sono implicazioni terapeutiche dirette per gli esseri umani".
Anche se la prevalenza del grasso bruno diminuisce con l'invecchiamento, e nonostante gli adulti non ne abbiano tanto quanto i neonati, il grasso bruno può comunque essere attivato, ad esempio dall'esposizione al freddo e aumenta il tasso di metabolismo delle persone, il che può aiutare a stabilizzare la perdita di peso in condizioni in cui l'apporto calorico è (troppo) elevato. I ricercatori hanno anche identificato altre versioni sconosciute di proteine/geni, che rispondono all'esposizione al freddo, simili ad AC3-AT. "Tuttavia - puntualizza Wachten - sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire l'impatto terapeutico di questi prodotti genetici alternativi e dei loro meccanismi regolatori" durante l'attivazione del grasso bruno.
"La comprensione di questo tipo di meccanismi molecolari non solo fa luce sulla regolazione del grasso bruno, ma promette anche di svelare meccanismi simili in altri percorsi cellulari. Questa conoscenza può essere determinante per migliorare la nostra comprensione di varie malattie e per lo sviluppo di nuovi trattamenti", conclude Kornfeld.
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Covid, caratteristiche genetiche influenzano risposta a...
Ricercatori italiani di diverse università hanno unito le proprie forze per studiare le basi genetiche delle differenze interindividuali nella risposta anticorpale alla vaccinazione anti-Covid-19 con il vaccino Pfizer-Biontech
La risposta al vaccino contro Covid-19 non è univoca ma individuale, influenzata dalle caratteristiche genetiche di ognuno. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Fondazione Irccs Istituto neurologico “Carlo Besta” (Fincb), dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs, dell’azienda ospedaliera Senese e della Fondazione Irccs Casa sollievo della sofferenza che, guidati dall’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche di Segrate (Cnr-Itb), ha unito le proprie forze per studiare le basi genetiche delle differenze interindividuali nella risposta anticorpale alla vaccinazione anti-Covid-19 con il vaccino Bnt162b2 (Pfizer-Biontech).
Cosa rivela lo studio
Lo studio ha mostrato come alcuni soggetti con determinate varianti genetiche nei geni del complesso maggiore di istocompatibilità (proprietà delle cellule di un tessuto di essere riconosciute come proprie da parte dell'organismo e non essere quindi eliminate dal sistema immunitario), coinvolto nei principali meccanismi di difesa del nostro sistema immunitario, producevano differenti quantità di anticorpi diretti contro l’antigene del coronavirus Sars-CoV-2. Lo studio è disponibile in open access su 'Communications Medicine'.
I ricercatori hanno valutando la correlazione tra milioni di varianti genetiche germinali e i livelli anticorpali nel siero di soggetti vaccinati contro il Covid-19, a 30 giorni di distanza dalla vaccinazione. Infatti, sin dall’inizio della campagna vaccinale si era osservata una differenza sostanziale nelle quantità di anticorpi prodotti dai soggetti vaccinati. “Come per la maggior parte dei farmaci, così anche per i vaccini ogni individuo può rispondere in maniera più o meno efficace e questo è dovuto, almeno in parte, alla costituzione genetica individuale”, spiega Francesca Colombo, ricercatrice del Cnr-Itb, che ha guidato la ricerca. “Il nostro studio ha coinvolto 1.351 soggetti, (operatori sanitari vaccinati nei primi mesi del 2021, nei tre centri ospedalieri coinvolti nello studio) ai quali è stato prelevato un campione di sangue per l’estrazione del Dna e di siero per la misurazione degli anticorpi anti-Sars-CoV-2 dopo un mese dalla somministrazione della seconda dose del vaccino Pfizer-Biontech”.
“Con le analisi statistiche effettuate abbiamo scoperto che una particolare regione del genoma, sul cromosoma 6, era significativamente associata ai livelli anticorpali - prosegue Martina Esposito, primo autore dello studio e assegnista di ricerca presso il Cnr-Itb - In questa specifica regione genomica sono presenti dei geni che codificano per delle molecole presenti sulla superficie cellulare, coinvolte nei meccanismi di risposta immunitaria. Questi geni sono molto variabili ed esistono differenti combinazioni. Il nostro studio ha evidenziato che alcune combinazioni erano associate a livelli di anticorpi più alti, mentre altre a livelli più bassi, spiegando quindi dal punto di vista genetico le differenze nella risposta alla vaccinazione osservate tra individui diversi”.
“I modelli matematici usati e le analisi statistiche effettuate per arrivare a questi risultati sono molto complessi perché complessa è l’interazione tra i geni e dei geni stessi con il vaccino. L’expertise maturata negli studi genetici in molti anni di ricerca condotta a Casa Sollievo della Sofferenza ci ha permesso di gestire tale complessità nei dati, contribuendo a giungere a questi importanti risultati", sottolinea Massimiliano Copetti, responsabile Biostatistica della Fondazione Irccs Casa Sollievo della Sofferenza.
"L’identificazione di specifici alleli Hla che conferiscono una predisposizione ad un’alta o bassa produzione di anticorpi dopo la somministrazione del vaccino anti-Covid ci può permettere ora di differenziare e personalizzare la campagna vaccinale, fornendo a ciascun individuo il vaccino più adatto, cioè quello che gli permetterà di produrre più anticorpi possibili. Questo approccio può essere esteso anche ad altri vaccini ideati contro altre malattie, nell’ottica di una vaccinazione di precisione supportata dalla vaccinogenomica", afferma Massimo Carella, biologo genetista e vice-direttore scientifico della Fondazione Irccs Casa Sollievo della Sofferenza. La ricerca è stata finanziata dell’Istituto Buddista italiano Soka Gakkai.