Salute e Benessere
Protesi ortopediche triplicate e 20mila l’anno...
Protesi ortopediche triplicate e 20mila l’anno scadono, boom revisioni
In Italia nel giro di 20 anni gli impianti di protesi ortopediche sono quasi triplicati: dagli 80mila del 2000, nel 2022 si è arrivati a superare i 220mila. Da un lato aumentano gli under 60 che si sottopongono all'intervento, dall'altro la popolazione invecchia e sempre più anziani vengono operati. Ma siccome i 'senior' sono sempre più longevi, alla crescita degli impianti corrisponde anche un boom delle operazioni di revisione delle protesi. Dispositivi che hanno una durata media di circa 20 anni e che a un certo punto hanno bisogno di un 'tagliando'. Ogni anno le protesi in scadenza nel nostro Paese sono "oltre 20mila, pari al 10% di quelle impiantate", calcolano gli esperti prospettando "una domanda in crescita esponenziale, in linea con i dati americani che prevedono aumenti record del 137% per la revisione di protesi all'anca e fino al +600% per la sostituzione di protesi del ginocchio".
La questione è al centro del 9° Congresso dell'Associazione italiana di riprotesizzazione, in corso oggi e domani a Verona. Un evento organizzato dal Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia dell'Irccs di Negrar, diretto da Claudio Zorzi - tra i centri con la più alta casistica di revisione protesi in Italia e struttura di riferimento regionale - con l'obiettivo di "discutere le tematiche chirurgiche più avanzate, definire un razionale scientifico e preparare i giovani chirurghi ortopedici alla chirurgia di revisione", spiega una nota dal convegno. Perché il tagliando della protesi abbia successo, avvertono infatti i medici, serve competenza: strutture, chirurghi e tecniche 'doc'.
Soprattutto per "l'artrosi che tende a degenerare con l'età", afferma Zorzi, presidente del congresso, "continua ad aumentare in Italia il numero di interventi per l'impianto di protesi ortopediche all'anca, ginocchio e spalla, che in vent'anni sono quasi triplicati secondo i più recenti dati Agenas. Una quantità impensabile di impianti, che colloca l'Italia tra i primi posti in Europa per numero di protesi impiantate in tutte le articolazioni e per i livelli di affidabilità. Tuttavia - precisa lo specialista - nonostante le moderne tecnologie siano riuscite a creare protesi di altissima qualità, la fisiologia dell'articolazione sottoposta a intervento di protesi è comunque ben diversa da quella naturale e ci possono essere molti fattori che ne influenzano il buon funzionamento: dal naturale allentamento delle parti mobili all'utilizzo eccessivo in sovraccarico, soprattutto nei pazienti più giovani o in chi è in sovrappeso, fino alle infezioni o alla rottura (molto rara) delle componenti protesiche. Problemi che devono essere ripresi prima che vengano a crearsi gravi danni alle strutture ossee e legamentose".
"Anche se ancora oggi non è ipotizzabile, per ogni paziente, una previsione precisa della durata dell'impianto che tenga conto delle tante variabili in gioco come l'età, il sesso, il tipo di protesi impiegata - illustrano gli specialisti a congresso - si può stimare che le protesi saranno ancora 'buone' a 15-20 anni dall'impianto nel 90% dei casi, secondo un ampio studio pubblicato su 'The Lancet' dai ricercatori dell'università di Bristol".
"Stimando una durata media della protesi di circa 15-20 anni - osserva Antonio Campacci, responsabile Chirurgia dell'anca all'Irccs di Negrar e vicepresidente del convegno insieme al responsabile della Chirurgia della spalla, Paolo Avanzi - risulta evidente come un paziente giovane che ha ricevuto indicazione di protesi al di sotto dei 60 anni, o anche un paziente anziano che si è sottoposto all'impianto intorno ai 70 anni, 'consumino' la propria protesi in un'età in cui la richiesta funzionale o l'assenza di dolore è ancora alta e rende necessaria una revisione. L'impianto di una protesi - sottolinea l'esperto - è una via a senso unico: se fallisce non si torna indietro e solo un'ulteriore protesi potrà cercare di garantire una funzione articolare che duri nel tempo".
"L'abitudine ad affrontare il problema protesico, già importante nei primi impianti, diventa essenziale nelle revisioni in cui la pratica e l'esperienza riducono molto i rischi che i pazienti non raggiungano una normale autosufficienza", puntualizza Zorzi. Il messaggio degli esperti, in conclusione, è che fare il tagliando di una protesi ortopedica è "una procedura molto complessa, che per avere successo richiede centri ad alta specializzazione e chirurghi esperti che si auspica aumentino in tutta Italia, alla luce dell'incremento esponenziale delle revisioni. Una eventuale carenza - è il monito - rischia di creare migliaia di disabili, se la revisione fallisce, con importanti oneri per il Servizio sanitario nazionale".
Salute e Benessere
Scoperto interruttore che spegne il grasso bruno...
Allo studio contro l'obesità, scienziati al lavoro per una strategia che lo attivi in modo sicuro con dei farmaci
E' diverso dal solito grasso, 'nemico giurato' di molti, un tormento quando si accumula attorno alla pancia e alle cosce. Il grasso bruno, noto anche come Bat (tessuto adiposo bruno), è un altro tipo di grasso presente nel nostro corpo e ha una missione speciale: aiuta a bruciare le calorie degli alimenti che consumiamo trasformandole in calore, il che può essere utile, soprattutto quando siamo esposti a temperature fredde come durante il nuoto invernale o la crioterapia. Per molto tempo gli scienziati hanno pensato che solo i neonati e piccoli animali come i topi lo avessero. Ma una nuova ricerca mostra invece che un certo numero di adulti mantiene il grasso bruno per tutta la vita. E gli scienziati stanno cercando un modo per attivarlo in modo sicuro utilizzando farmaci che aumentino la sua capacità di produrre calore, e sfruttando questa sua efficacia nel bruciare calorie. Un nuovo lavoro svela un possibile 'interruttore'.
Nel dettaglio, i gruppi di ricerca di Jan-Wilhelm Kornfeld dell'University of Southern Denmark/Novo Nordisk Center for Adipocyte Signaling (Adiposign) e di Dagmar Wachten dell'University Hospital e dell'università di Bonn (Germania) hanno scoperto che un meccanismo integrato finora sconosciuto che spegne il grasso bruno subito dopo essere stato attivato. Ciò limita la sua efficacia come trattamento contro l'obesità, evidenziano gli esperti. Secondo la prima autrice dello studio, Hande Topel, la 'chiave' è una proteina responsabile di questo processo di spegnimento. Si chiama 'AC3-AT'.
"Guardando al futuro, riteniamo che trovare modi per bloccare AC3-AT potrebbe essere una strategia promettente per attivare in modo sicuro il grasso bruno e affrontare l'obesità e i problemi di salute correlati", afferma l'esperta. Il gruppo di ricerca ha trovato la proteina di spegnimento utilizzando una tecnologia avanzata: "Quando abbiamo studiato topi che geneticamente non avevano AC3-AT, abbiamo scoperto che erano protetti dal diventare obesi, in parte perché i loro corpi erano semplicemente più bravi a bruciare calorie ed erano in grado di aumentare i loro tassi metabolici attivando grasso bruno".
Gli scienziati hanno quindi nutrito due gruppi di topi con una dieta ricca di grassi per 15 settimane, cosa che li ha resi obesi. Il gruppo a cui è stata rimossa la proteina AC3-AT ha guadagnato meno peso rispetto al gruppo di controllo ed era metabolicamente più sano. "Questi topi hanno anche aumentato la massa magra rispetto ai topi di controllo", sottolinea la coautrice Ronja Kardinal. "Poiché AC3-AT si trova non solo nei topi, ma anche negli esseri umani e in altre specie, ci sono implicazioni terapeutiche dirette per gli esseri umani".
Anche se la prevalenza del grasso bruno diminuisce con l'invecchiamento, e nonostante gli adulti non ne abbiano tanto quanto i neonati, il grasso bruno può comunque essere attivato, ad esempio dall'esposizione al freddo e aumenta il tasso di metabolismo delle persone, il che può aiutare a stabilizzare la perdita di peso in condizioni in cui l'apporto calorico è (troppo) elevato. I ricercatori hanno anche identificato altre versioni sconosciute di proteine/geni, che rispondono all'esposizione al freddo, simili ad AC3-AT. "Tuttavia - puntualizza Wachten - sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire l'impatto terapeutico di questi prodotti genetici alternativi e dei loro meccanismi regolatori" durante l'attivazione del grasso bruno.
"La comprensione di questo tipo di meccanismi molecolari non solo fa luce sulla regolazione del grasso bruno, ma promette anche di svelare meccanismi simili in altri percorsi cellulari. Questa conoscenza può essere determinante per migliorare la nostra comprensione di varie malattie e per lo sviluppo di nuovi trattamenti", conclude Kornfeld.
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Covid, caratteristiche genetiche influenzano risposta a...
Ricercatori italiani di diverse università hanno unito le proprie forze per studiare le basi genetiche delle differenze interindividuali nella risposta anticorpale alla vaccinazione anti-Covid-19 con il vaccino Pfizer-Biontech
La risposta al vaccino contro Covid-19 non è univoca ma individuale, influenzata dalle caratteristiche genetiche di ognuno. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Fondazione Irccs Istituto neurologico “Carlo Besta” (Fincb), dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs, dell’azienda ospedaliera Senese e della Fondazione Irccs Casa sollievo della sofferenza che, guidati dall’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche di Segrate (Cnr-Itb), ha unito le proprie forze per studiare le basi genetiche delle differenze interindividuali nella risposta anticorpale alla vaccinazione anti-Covid-19 con il vaccino Bnt162b2 (Pfizer-Biontech).
Cosa rivela lo studio
Lo studio ha mostrato come alcuni soggetti con determinate varianti genetiche nei geni del complesso maggiore di istocompatibilità (proprietà delle cellule di un tessuto di essere riconosciute come proprie da parte dell'organismo e non essere quindi eliminate dal sistema immunitario), coinvolto nei principali meccanismi di difesa del nostro sistema immunitario, producevano differenti quantità di anticorpi diretti contro l’antigene del coronavirus Sars-CoV-2. Lo studio è disponibile in open access su 'Communications Medicine'.
I ricercatori hanno valutando la correlazione tra milioni di varianti genetiche germinali e i livelli anticorpali nel siero di soggetti vaccinati contro il Covid-19, a 30 giorni di distanza dalla vaccinazione. Infatti, sin dall’inizio della campagna vaccinale si era osservata una differenza sostanziale nelle quantità di anticorpi prodotti dai soggetti vaccinati. “Come per la maggior parte dei farmaci, così anche per i vaccini ogni individuo può rispondere in maniera più o meno efficace e questo è dovuto, almeno in parte, alla costituzione genetica individuale”, spiega Francesca Colombo, ricercatrice del Cnr-Itb, che ha guidato la ricerca. “Il nostro studio ha coinvolto 1.351 soggetti, (operatori sanitari vaccinati nei primi mesi del 2021, nei tre centri ospedalieri coinvolti nello studio) ai quali è stato prelevato un campione di sangue per l’estrazione del Dna e di siero per la misurazione degli anticorpi anti-Sars-CoV-2 dopo un mese dalla somministrazione della seconda dose del vaccino Pfizer-Biontech”.
“Con le analisi statistiche effettuate abbiamo scoperto che una particolare regione del genoma, sul cromosoma 6, era significativamente associata ai livelli anticorpali - prosegue Martina Esposito, primo autore dello studio e assegnista di ricerca presso il Cnr-Itb - In questa specifica regione genomica sono presenti dei geni che codificano per delle molecole presenti sulla superficie cellulare, coinvolte nei meccanismi di risposta immunitaria. Questi geni sono molto variabili ed esistono differenti combinazioni. Il nostro studio ha evidenziato che alcune combinazioni erano associate a livelli di anticorpi più alti, mentre altre a livelli più bassi, spiegando quindi dal punto di vista genetico le differenze nella risposta alla vaccinazione osservate tra individui diversi”.
“I modelli matematici usati e le analisi statistiche effettuate per arrivare a questi risultati sono molto complessi perché complessa è l’interazione tra i geni e dei geni stessi con il vaccino. L’expertise maturata negli studi genetici in molti anni di ricerca condotta a Casa Sollievo della Sofferenza ci ha permesso di gestire tale complessità nei dati, contribuendo a giungere a questi importanti risultati", sottolinea Massimiliano Copetti, responsabile Biostatistica della Fondazione Irccs Casa Sollievo della Sofferenza.
"L’identificazione di specifici alleli Hla che conferiscono una predisposizione ad un’alta o bassa produzione di anticorpi dopo la somministrazione del vaccino anti-Covid ci può permettere ora di differenziare e personalizzare la campagna vaccinale, fornendo a ciascun individuo il vaccino più adatto, cioè quello che gli permetterà di produrre più anticorpi possibili. Questo approccio può essere esteso anche ad altri vaccini ideati contro altre malattie, nell’ottica di una vaccinazione di precisione supportata dalla vaccinogenomica", afferma Massimo Carella, biologo genetista e vice-direttore scientifico della Fondazione Irccs Casa Sollievo della Sofferenza. La ricerca è stata finanziata dell’Istituto Buddista italiano Soka Gakkai.
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Infettivologi, ‘coperture vaccinali in calo, serve...
"C'è un problema di coperture vaccinali in Italia. E' emerso anche durante il congresso Escmid Global a Barcellona", l'evento annuale che riunisce i microbiologi e infettivologi da tutta Europa e non solo, "quella anti-Covid in Italia non è stata molto efficace, siamo arrivati al 12% dei soggetti a rischio immunizzati mentre il resto d'Europa è sopra il 50%. L'Italia deve rivedere la politica sulle vaccinazioni e tra pochi giorni uscirà un documento congiunto Simit-Siti per preparare la prossima campagna vaccinale autunnale che - secondo noi - dovrà raccomandare anche l'anti-Covid insieme all'antinfluenzale. C'è anche preoccupazione per l'epidemia di morbillo che sta creando diversi problemi in vari stati europei. Insomma, il tema delle coperture vaccinali deve tornare la priorità delle politiche sanitarie". Lo sottolinea all'Adnkronos Salute Massimo Andreoni direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) e professore ordinario di Malattie infettive Università Tor Vergata di Roma, che ha partecipato al congresso Escmid Global.
Quali sono stati i focus principali dell'evento congressuale? "L'antibiotico resistenza rappresenta un problema di sanità pubblica in tutti i paesi - risponde Andreoni - All'Escmid sono stati presentati diversi studi su nuovi approcci per arrivare a combattere i super batteri. Tra queste strategie sembra interessante quella che usa i 'virus fagi' che aggrediscono i batteri in maniera molto specifica. Sono virus non in grado di infettare le cellulare umane ma di attaccare le cellule batteriche di pseudomonas o stafilococco, ad esempio".