Cronaca
Droga, ‘Grande raccordo criminale’: confermati...
Droga, ‘Grande raccordo criminale’: confermati 30 anni a ex braccio destro di ‘Diabolik’
In Appello condanna a 10 anni per Petoku, il narcos albanese evaso da comunità di recupero e ora latitante. Le motivazioni 'Fabietti al centro di una collaudata organizzazione'
‘’Sulla base del contenuto chiaro e inequivoco delle conversazioni intercettate è emerso che Fabietti era al centro di una collaudata organizzazione, presso la sua abitazione si concludevano le trattative per l'acquisizione dello stupefacente e la successiva distribuzione agli acquirenti’’. E’ quanto si legge nelle motivazioni con cui i giudici della quarta sezione penale della Corte di Appello di Roma lo scorso novembre hanno sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio nell’ambito del processo ‘Grande Raccordo criminale’, l’organizzazione di narcotrafficanti attiva nella Capitale e smantellata con l’operazione condotta dalla Dda e dai militari della Guardia di Finanza il 28 novembre 2019. Confermata fra le altre, la condanna a 30 anni, sollecitata in primo grado dal pm titolare dell’inchiesta, Edoardo De Santis, per Fabrizio Fabietti, ex braccio destro di Fabrizio Piscitelli, alias ‘Diabolik’, storico capo degli Irriducibili, ucciso il 7 agosto 2019 con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti a Roma.
Secondo quanto emerso dalla maxi inchiesta della Dda di Roma, la banda di narcotrafficanti operava principalmente nella zona Nord della Capitale per rifornire le piazze di spaccio e nel recupero credito. Nell'organizzazione erano presenti per quest'ultimo aspetto picchiatori, anche ex pugili, tra cui cittadini albanesi. Fra questi, Dorian Petoku, narcos albanese condannato in abbreviato a 12 anni e in Appello scesi a 10, evaso nei mesi scorsi dalla comunità di recupero di Nola, in provincia di Napoli, dove era stato trasferito nonostante i pareri contrari della procura capitolina e tuttora latitante.
''Era Fabietti a dare le disposizioni ai sodali – scrivono i giudici di Appello - poteva contare sull'apporto di stabili fornitori di ingenti quantitativi di sostanza, di corrieri e depositari dello stupefacente, di un nutrito gruppo di acquirenti della droga, che non erano pusher al minuto, ma acquirenti di consistenti quantitativi che distribuivano attraverso loro reti sul territorio”. La stabilità dell'organizzazione “si desume anche dalla circostanza che nonostante arresti di corrieri e sequestro di sostanze stupefacenti l'organizzazione era in grado di continuare ad operare’’ si sottolinea nelle motivazioni. Quanto all’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso, ‘’non ha alcuna incidenza né sulla configurabilità dell'associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti né sul ruolo centrale di Fabietti nell'organizzazione alla luce degli elementi probatori acquisiti e richiamati; come sottolineato dal primo giudice, all'esclusione si è pervenuti in quanto dall'istruttoria dibattimentale non era emerso un ruolo di Piscitelli, ritenuto verosimilmente legato a contesti mafiosi, nell'ambito dell'organizzazione’’.
Nelle motivazioni si fa poi riferimento alla ‘’disponibilità di armi, che si desume dalle conversazioni nel corso delle quali si organizza una spedizione punitiva’’: ‘io me porto pure il ferro’ dice uno degli indagati. I giudici evidenziano inoltre come nell’ambito dell’organizzazione ‘’dalle indagini era emerso il ruolo di Petoku, stabile fornitore della droga e per tale ruolo ritenuto organico all'organizzazione criminale’’.
Cronaca
Roma, 17enne aggredito alla fermata della metro da 4...
Al vaglio le immagini delle telecamere di videosorveglianza
Ragazzo di 17 anni aggredito oggi, 7 maggio, a Roma, vicino alla fermata metro di San Paolo da 4 giovani che lo hanno preso a calci e a pugni e lo hanno poi colpito alla nuca con una pietra.
A scatenare la violenza, una banale discussione che due degli aggressori avevano avuto poco prima con la vittima. I due, non contenti dell'iniziale vantaggio numerico, hanno chiamato altri due amici perché li aiutassero nell'aggressione. Il ragazzo ha tentato di fuggire ma uno dei quattro lo ha rincorso fino ai binari colpendolo con la pietra.
Immediato l'intervento dei sanitari del 118 che hanno trasportato il ragazzo all'ospedale Sant'Eugenio dove è stato refertato come codice giallo. Sul posto gli agenti del commissariato Colombo impegnati nelle indagini. Al vaglio le immagini delle telecamere di videosorveglianza.
Cronaca
Depistaggio, legale poliziotto: “Bo fedele servitore...
(dall'inviata Elvira Terranova) - "Questo non è il più grande depistaggio dello Stato italiano ma il più grande accanimento che lo Stato italiano ha fatto. E' uno degli enormi errori giudiziari. Siamo davanti a uno Stato italiano che si vuole pulire la coscienza, ci si vuole pulire il coltello sulle spalle dei tre poliziotti. Il grande sconfitto e' lo Stato italiano". Parole dure, durissime, quelle dell'avvocato Giuseppe Panepinto, legale del poliziotto Mario Bo, ex vicequestore aggiunto oggi in pensione, uno dei tre poliziotti imputati per concorso in calunnia aggravata nel processo d'appello sul depistaggio sulla strage Borsellino, in corso davanti alla Corte d'Appello di Caltanissetta, presieduta da Giovanbattista Tona. Con Mario Bo sono alla sbarra Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, con l'accusa di avere istruito il falso collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage di via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. L’aggravante mafiosa resta l’ago della bilancia nel processo di appello, perché se dovesse nuovamente decadere, come già successo in primo grado, le imputazioni andrebbero ancora prescritte. La procura generale di Caltanissetta al termine della requisitoria aveva chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e 9 anni e 6 mesi per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
"Il mio assistito Mario Bo è una persona che non conoscevo prima di affrontare questo processo, ma nel corso di questi anni ho maturato stima e rispetto nei suoi confronti. Ne apprezzo le doti, il senso di abnegazione e quella che ritengo la dote più importante per una persona appartenente allo Stato, cioè il rispetto nelle istituzioni", ha detto nella sua arringa l'avvocato Giuseppe Panepinto. "Mario Bo ha dedicato la sua vita allo Stato italiano, alla Polizia di Stato, ha partecipato alle più grosse operazioni che hanno portato all'arresto e alla condanna di soggetti malavitosi", dice ancora. "Il grande valore che ha il dottor Bo non è solo sopportare la gogna mediatica, ma il fatto di dover sopportare il mettere in dubbio il rispetto che questo uomo per una vita ha portato allo Stato e il doversi difendere da questa accusa così infamante di avere tradito lo Stato italiano", aggiunge il legale di Mario Bo. Mario Bo è presente in aula, con i coimputati Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Per l'avvocato Panepinto, "questo è un processo che poteva essere evitato già dopo la sentenza del cosiddetto 'Borsellino bis'. Quando gli avvocati degli imputati capirono e denunciarono nel corso del dibattimento, in quel processo, le anomalie nelle indagini nate dalle dichiarazioni di quelli che venivano considerati collaboratori di giustizia ma che in realtà erano falsi pentiti. Da loro non è nato il depistaggio ma un clamoroso errore giudiziario che vede oggi imputati dei fedeli servitori dello Stato".
Poi l'avvocato Panepinto torna a parlare dei tre poliziotti, usando una metafora: "Oggi si chiede di pulire il coltello ancora intriso del sangue delle vittime sulla schiena di tre uomini che hanno fedelmente servito lo Stato italiano, servitori estratti quasi a sorte tra la pletora dei soggetti che sono stati coinvolti nella storia di questo processo. E vi chiedono di continuare a infangare il nome, per coloro che hanno ancora la fortuna di essere tra noi o ancora peggio di infangare la memoria di coloro che non sono più tra noi". "Mario Bo si deve difendere da una accusa così infamante come quella di avere tradito lo Stato", ha aggiunto Panepinto.
Ma per la Procura generale, i tre poliziotti sono "colpevoli" di avere "tradito lo Stato". "Un tradimento da parte degli apparati dello Stato che non può essere perdonato - aveva detto nell'aula della corte d'appello nissena il Procuratore generale Fabio D'Anna al termine della requisitoria- Perché questo depistaggio? L'unico interesse che spiega la pervicacia del gruppo investigativo Falcone-Borsellino è che loro sapevano perfettamente che con il loro comportamento stavano allontanando dalla verità delle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi".
Figura centrale è quella dell'ex dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, deceduto ventidue anni fa, a capo del pool investigativo sulle stragi di Palermo del 1992. Era proprio La Barbera il capo dei tre imputati e insieme, secondo l'accusa, avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino, piccolo delinquente della borgata Guadagna, a dare una ricostruzione dei preparativi della strage totalmente falsa accusando mafiosi che però con l'autobomba di via d'Amelio non c'entravano nulla.
Sempre oggi il legale di Bo ha parlato anche della "anomala collaborazione", come l'hanno chiamata i pm, con i magistrati da parte del Sisde sulle indagini di via D'Amelio. "Si è detto che è contro legge che il Sisde faccia azioni di polizia giudiziaria. Ma in questo processo non c'è un solo atto giudiziario fatto dal Sisde, o dai Servizi di sicurezza. Ha fatto solo quei tre appunti e basta. Non è stato svolto alcun tipo di attività da parte del Sisde, anche la sentenza di primo grado lo dice", spiega Giuseppe Panepinto. "Tutti i magistrati che abbiamo sentito, Ilda Boccassini, Annamaria Palma, e tutti gli altri, hanno escluso che qualunque delega di indagine svolta da loro, nessuna delega di indagine fu data al Sisde - dice ancora l'avvocato Panepinto - Loro non hanno avuto nessun tipo di rapporto con il Sisde. Anche la sentenza dice che non è possibile dimostrare il contrario. Cosa ha fatto? Si è limitato, come è naturale che fosse, a raccogliere per trasmettere al Nucleo centrale di Roma informazioni sullo stato delle indagini, su un fatto così grave, peraltro". Era stato lo stesso ex dirigente dei servizi segreti, Bruno Contrada, a raccontare anche in aula, al processo, e alla Commissione regionale antimafia, che era stato contattato dalla Procura di Caltanissetta, subito dopo la stra Borsellino, per chiedere un aiuto sulle indagini.
"La mattina del 20 luglio ricevo una telefonata del dottor Sergio Costa, genero del capo della Polizia di allora, il Prefetto Vincenzo Parisi, ed era anche lui un commissario di pubblica sicurezza, aggregato al Sisde. Costa mi dice: 'Don Vincenzo desidera che lei prenda contatti con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, per la strage che è accaduta, per la strage Borsellino, e io in quel momento seppi che il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta si chiamava Giovanni Tinebra, non lo sapevo…". Anche la Procura generale, nel corso della requisitoria, aveva parlato del Sisde: "Il primo episodio abbastanza singolare ma anche inquietante riguarda la collaborazione tra la procura di Caltanissetta e il Sisde, nella persona in particolare di Bruno Contrada''. ''C'è un incontro che avviene il 20 luglio all'indomani della strage, in cui c'erano Contrada, Lorenzo Narracci e il procuratore Giovanni Tinebra. Abbiamo una conferma di questa collaborazione negli appunti sull'agenda sequestrata a Bruno Contrada. La collaborazione tra Contrada e Narracci nasce su iniziativa del procuratore Tinebra. Siccome questo rapporto era illecito Contrada chiedeva coperture istituzionali''. Ma oggi il legale di Mario Bo ribadisce che il Sisde non "fece alcun tipo di indagine su via D'Amelio".
Il processo è stato rinviato al 14 maggio, quando concluderà anche l'avvocato Giuseppe Seminara, legale di Ribaudo e Mattei. Nell'udienza successiva, probabilmente il 4 giugno, dovrebbe essere emessa la sentenza d'appello.
Cronaca
Boccassini indagata a Firenze per false informazioni al pm
Secondo i magistrati avrebbe taciuto dati su una fonte riguardante le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia su Silvio Berlusconi
L'ex procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini è indagata dalla Procura di Firenze per false informazioni al pm aggravate. La notizia è stata anticipata dal "Fatto". Secondo i magistrati fiorentini, l’ex pm oggi in pensione, durante l'interrogatorio del 14 dicembre del 2021, quando fu sentita in procura insieme con i colleghi di Caltanissetta nell'inchiesta sulle stragi mafiose del 1993, avrebbe taciuto ai magistrati informazioni di cui sarebbe stata in possesso. In particolare, su una fonte riguardante le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia su Silvio Berlusconi.