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Dareste uno schiaffo a vostro figlio? L’educazione dei...

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Dareste uno schiaffo a vostro figlio? L’educazione dei bambini ai giorni nostri

Dareste uno schiaffo a vostro figlio? La domanda sembra banale e la risposta scontata, in un’epoca che è passata dalle ‘cinghiate’ educative al ‘genitore amico’, figure che comunque, per motivi diversi, hanno creato più di un problema ai bambini. Sicuramente negli ultimi decenni il rapporto genitori-figli è molto cambiato, così come il concetto di abuso sui minori, tanto che dal 1979 in poi molti Paesi hanno vietato le pene corporali in ambito domestico. Sembrerebbe dunque che schiaffi e cucchiai di legno siano ormai mal viste e disprezzate, almeno a livello sociale se non anche legale.

Eppure, la risposta alla nostra domanda non è così scontata, come dimostra un sondaggio on line del The Mirror che, sebbene privo di valore statistico, racconta comunque qualcosa del sentire comune. E quello che racconta è che, nel momento in cui scriviamo, alla domanda ‘Siete d’accordo che le punizioni corporali dovrebbero essere vietate per legge?’ il 72% ha risposto un sonoro ‘No’. Il sì viene dal 25% dei rispondenti (tra cui chi scrive), un 3% non si è espresso.

Per una schiacciante maggioranza dunque alzare le mani sui propri figli è legittimo. Forse perché molti li ritengono una sorta di proprietà personale (chi in un momento di ira non ha detto ‘io ti ho creato io ti distruggo’, anche se poi non è seguita una ciabattata?) e soprattutto perché si pensa che uno schiaffo, una sculacciata o affini aiutino a sottolineare e rinforzare l’autorità e la disciplina.

Un pensiero che potremmo definire globale e certamente non confinato al Regno Unito.

La violenza fisica sui bambini porta altra violenza e disagio

Invece moltissimi studi hanno dimostrato e dimostrano che con la violenza il bambino impara solo la paura, l’aggressività e l’umiliazione. Oltre a determinare un insieme di altre conseguenze: peggiora il rischio di problemi mentali, di andare male e scuola e di lasciarla precocemente, ma anche espone a maggiore probabilità di essere aggrediti fisicamente o abusati, e, non da ultimo, di sviluppare aggressività e comportamenti antisociali.

Lo ha confermato in questi giorni anche il Royal College of Paediatrics and Child Health, l’organismo professionale dei pediatri nel Regno Unito, che ha definito le punizioni corporali “una completa violazione dei diritti dei bambini”, che nella loro posizione di vulnerabilità e subordinazione non possono difendere i propri diritti.

L’intervento del College si inserisce in un contesto come quello del Regno Unito che vede Scozia e Galles aver vietato per legge gli schiaffi, e Inghilterra e Irlanda del Nord no. Il Children Act del 2004 infatti prevede che sia illegale per un genitore o un tutore schiaffeggiare il proprio figlio, tranne quando è considerata una “punizione ragionevole”.

Ed è proprio sul concetto di ‘ragionevole’ che si gioca la partita. Perché è interpretabile e sufficientemente vago da lasciare una certa libertà d’azione, in questo caso di alzare le mani, sul proprio bambino. Ovviamente per chi ritiene che questo sia ‘ragionevole’ ed educativo e che non ci sia un altro modo di spiegare le cose.

Cosa sono le punizioni corporali

Per il Comitato Onu sui diritti dell’infanzia le punizioni corporali si verificano quando un genitore o un tutore al bambino/ragazzo nell’ambito domestico usa la forza fisica “allo scopo di infliggere un certo livello di dolore o di afflizione, non importa quanto lieve”. Nella casistica rientrano ad esempio sculacciate, scappellotti, schiaffi, calci, spintoni, pizzichi, così come l’utilizzo di oggetti quali cinture, ciabatte, bastoni, cucchiai di legno ecc. Ma rientrano anche pratiche come tirare i capelli o le orecchie, obbligare il bambino a restare in posizioni scomode, procurargli bruciature, sciacquargli la bocca col sapone, costringerlo ad ingerire qualcosa (ad esempio, spezie piccanti).

Per l’Onu si tratta di pratiche degradanti alle quali si aggiungono quelle che, sebbene non fisiche, sono comunque crudeli, come le punizioni umilianti, sminuenti, derisorie o minacciose. Il Comitato raccomanda perciò di eliminarle entrambe, fisiche e psicologiche, non solo per proteggere i diritti dei più piccoli, ma anche nell’ottica di prevenire ogni forma di violenza nella società.

Stessa richiesta viene dall’Unesco, per il quale le punizioni corporali sono una violazione dei diritti umani e dunque devono essere vietate a scuola, a casa e nelle istituzioni come forma di disciplina. Per quanto riguarda l’Oms, infine, alzare le mani sui bambini è una forma di abuso fisico.

Un problema vasto: situazione attuale e prospettive

Non è un problema limitato a pochi casi di disagio: nel mondo, rende noto Save the Children, “ogni anno circa 4 minori su 5 di età compresa tra i 2 e i 14 anni subiscono punizioni corporali nel contesto domestico”. Si parla di milioni di bambini. La peculiarità del fenomeno è che, come sottolineato anche dall’Onu, riguarda qualsiasi classe sociale e prescinde dal reddito, dall’istruzione e dall’etnia.

La cultura e la religione possono avere un ruolo nel far ritenere le punizioni corporali normali, anche dai bambini stessi, e questo si riflette sulla presenza o la mancanza di una legislazione che le vieti espressamente. Soprattutto perché molto spesso sono comminate nell’ambito di un processo educativo e quindi passano come legittime, elemento questo che accomuna Paesi occidentali e Paesi in via di sviluppo.

Il divieto globale di punizioni corporali è uno degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile decisi nel 2015 con scadenza 2030. Ma i progressi, ha sottolineato Save the Children in occasione della Giornata internazionale dell’educazione non violenta del 30 aprile, “sono stati lenti”: solo due Paesi ogni anno hanno vietato tali pratiche. Attualmente, solo 66 Stati su 193 hanno introdotto il divieto in tutti i contesti. Circa la metà dei Paesi più ricchi non ha una proibizione legale completa, a fronte di circa il 70% dei Paesi a medio reddito e del 90% dei Paesi a basso reddito che ne dispongono. Come risultato, “solo il 15% dei minori circa 320 milioni di bambini è pienamente protetto dalla legge”.

In sintesi, denuncia Save the Children, al ritmo attuale serviranno 60 anni per raggiungere il divieto globale di punizioni corporali entro il 2030.

Per mappare i progressi, Save the Children Sweden (la Svezia tra l’altro è stato il primo Paese a vietare le punizioni corporali in ogni contesto) ha realizzato una mappa che mostra i Paesi che garantiscono per legge una punizione completa in questo senso.

I Paesi non presenti nella mappa non hanno ancora previsto questo tipo di divieto. Spicca l’assenza dell’Italia.

In Italia

Da noi infatti le punizioni corporali sono vietate a scuola e dall’ordinamento penitenziario, ma non lo sono in ambito domestico. Ci si sta arrivando per via giudiziaria, attraverso sentenze, la prima delle quali è stata emessa dalla Corte di Cassazione nel 1996. Le pronunce hanno man mano stabilito che il concetto di abuso sui minori è molto cambiato nei decenni, così come quelli di maltrattamento e di abuso dei mezzi di correzione. Tra questi ultimi ad esempio, sempre la Corte di Cassazione nel 2017 ci ha fatto rientrare l’uso del battipanni o del mattarello, tradizionalmente usati sui bambini dai genitori per rinforzare la propria autorità.

La giurisprudenza perciò sta via via affermando che non è più considerabile lecito “l’uso della violenza fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi”, anche perché non porta al risultato che si dice di voler ottenere, ovvero l’educazione.

E anche perché il minore ormai è visto e da vedere come un soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione o di disposizione da parte degli adulti.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Istat, 74,5% vede futuro in coppia a prescindere da...

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Vivere in coppia, a prescindere dal matrimonio. Lo pensa il 74,5% dei giovanissimi. Solo il 5,1% pensa di divere da solo e gli indecisi solo il 20%. Questo è quanto è emerso dall’indagine ‘Bambini e ragazzi 2023’ dell’Istat. A vedersi principalmente single sono per lo più le ragazze rispetto ai ragazzi. Come differenze altrettanto importanti si leggono tra stranieri e italiani. Il futuro in coppia, per gli stranieri, è una prospettiva del 65,8% e a vedersi da solo da grande è il 7,6%. Ma vediamo insieme cos’è emerso.

Un futuro in coppia?

Chi immagina il proprio futuro con un partner pensa che il matrimonio sia la modalità più diffusa per formare una famiglia (72,5%). Questa percentuale è lievemente superiore per gli stranieri (78,4% contro il 72,0%). Crescendo, però, il desiderio del matrimonio inizia a sfumare e all’aumentare dell’età aumenta anche la quota dei giovanissimi che crede che il matrimonio sia così importante: dal 73,7% tra gli 11-13enni al 70,8% nella classe 17-19 anni.

Tra le ragazze cinesi e marocchine, nello specifico, si registra una minore frequenza di chi ritiene che da grande vivrà in coppia (rispettivamente 39,9% e 56,7%); per le stesse collettività si rilevano anche, le percentuali più alte di coloro che si vedono single da grandi (rispettivamente il 12,7% tra le cinesi e il 12,8% tra le marocchine).

I ragazzi e le ragazze di cittadinanza marocchina evidenziano la percentuale più elevata di giovanissimi che pensano al matrimonio come passaggio nel loro futuro (in entrambi casi con quote oltre l’80%). A fronte di un’età al primo matrimonio che nel 2022 in Italia era di 34,6 anni per gli uomini e di 32,5 anni per le donne, la larga maggioranza (76,9%) dei giovanissimi vorrebbe sposarsi entro i 30 anni e, tra questi, quasi il 21% prima dei 26 anni. Per le ragazze l’incidenza di chi si vuole sposare entro i 30 anni è più alta che per i ragazzi (80,7% e 73,4%). Il 23,2% delle giovani desidera sposarsi prima dei 26 anni.

Per gli stranieri la percentuale di coloro che pensano di sposarsi entro i 30 anni è più elevata che per gli italiani: 81,7% contro 76,5%. Differenze più evidenti si rilevano rispetto alla quota di coloro che vogliono sposarsi prima dei 26 anni, pari al 19,4% tra gli italiani e al 36,8% tra gli stranieri. Anche tra gli stranieri sono soprattutto le ragazze a pensare di sposarsi in giovane età: il 41,9% ipotizza di sposarsi prima di aver compiuto i 26 anni.

Desiderio di genitorialità

Il 69,4% dei ragazzi e delle ragazze dice di volere dei figli, il 21,8% è indeciso e l’8,7% dice di non volerne. Tra le ragazze è leggermente più alta la quota di coloro che non vogliono figli (10,3%). Gli stranieri sono più indecisi degli italiani: 26% contro il 21,4%. Tra i ragazzi e le ragazze cinesi è particolarmente elevata la quota che non vuole figli (15,3%) e quella di indecisi (45,2%); addirittura, tra le sole ragazze cinesi la quota di quelle che non vuole avere figli supera il 24% e quella di indecise sfiora il 46%.

“Il 61,5% dei giovanissimi che pensa di avere figli ne vorrebbe due – scrive l’Istat -, l’8,8% un solo figlio, il 18,2% tre o più, mentre il restante 11,5% pur asserendo di volerne non indica quanti. Per quanto possa sembrare azzardato confrontare le legittime aspirazioni giovanili con la realtà odierna, è utile prendere a riferimento una reale generazione di donne che ha da poco concluso la sua esperienza riproduttiva, le donne nate nel 1973. Tale coorte femminile ha messo al mondo 1,46 figli a testa, tra di loro il 78% ha avuto almeno un figlio. Cosicché il fatto che solo il 69,4% dei giovanissimi abbia espresso di volere dei figli lascia intendere la necessità di dover creare le condizioni affinché almeno una parte di indecisi (21,8%) sia portata a cambiare idea in futuro.

Altro aspetto interessante riguarda la distribuzione per numero di figli avuti. Tra le donne della coorte 1973 il 42% ha avuto un solo figlio, il 28% due e solo l’8% tre o più figli. “Questo – continua l’Istat – conferma quanto già emerso da precedenti indagini, ossia che nel Paese il desiderio di maternità è pressoché stabile nel tempo. Le risposte fornite dalle nuove generazioni rappresentano quindi la conferma che una ripresa della natalità nel nostro Paese è possibile, a patto naturalmente che i desideri espressi possano tradursi in realtà. Per le ragazze l’incidenza di coloro che vogliono tre o più figli è più elevata di quella che si rileva per i ragazzi: 20,7% contro 15,6%. Sia tra gli italiani sia tra gli stranieri sono comunque le ragazze a desiderare un numero più elevato di figli”.

Per quanto riguarda il desiderio di fare figli, l’Istat ha rilevato che la quota di coloro che desidera avere tre o più figli è superiore tra gli stranieri, con un 20,5% contro il 18,1% degli italiani. Il valore generale degli stranieri nasconde però notevoli differenze tra le collettività: l’incidenza di coloro che vogliono tre o più figli arriva al 24,8% per gli albanesi e al 22,7% per i marocchini; per i cinesi si colloca invece al 4,8%, molto al di sotto del valore rilevato anche per gli italiani, rafforzando l’immagine dei giovanissimi cinesi con basse intenzioni di fecondità.

Le aspettative per il futuro, però, si scontrano con un’altra realtà. L’età media delle madri al primo figlio in Italia è pari a 31,6 anni. Questo dato, infatti, non è congruo con i desideri attuali dei giovani che dimostrano, invece, di volere un figlio entro i 30 anni per il 65%, contro un 14,6% che ne vorrebbe uno prima dei 26 anni. Solo il 2,6% colloca la nascita del primo figlio dopo i 35 anni. Per le ragazze la quota di coloro che pensa di avere il primo figlio entro i 30 anni raggiunge il 71,6%. Tra gli stranieri si evidenziano percentuali più alte di ragazzi e ragazze che vogliono diventare genitori prima dei 30 anni e, in particolare, di coloro che collocano la nascita di un figlio tra i 20 e i 25 anni. Tra i ragazzi italiani l’11,4% pensa di diventare padre entro i 25 anni, tra gli stranieri la quota sale al 19%. Per le ragazze italiane la percentuale di coloro che si vedono madri entro i 25 anni è del 16,6%, tra le straniere del 26,2%. Man mano che ci si avvicina però alle età indicate, l’incidenza di coloro che pensa di avere figli tra i 20 e i 25 anni diminuisce, passando dal 16,3% tra coloro che hanno tra 11 e 13 anni al 10,5% tra coloro che hanno tra i 17 e i 19 anni.

Con questi dati, l’istituto di ricerca ha voluto sottolineare desideri e aspettative dei giovani e adolescenti che si trovano in un’età di transizione. Per quelli stranieri, nello specifico, i complessi percorsi di integrazione potrebbero rendere più complessa la realizzazione delle aspettative attuali, con mutamenti futuri in linea con la tendenza al calo delle nascite che si registra da oltre quarant’anni in Italia. Inoltre, che all’aumentare dell’età aumenta anche una consapevolezza più vicina ai dati della realtà sottolinea quanto le previsioni che si hanno da ragazzini possano fare i conti con necessità e bisogni completamente diversi per il proprio futuro.

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“Non ci sono abbastanza bambini”, l’allarme degli esperti...

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L’inverno demografico sta arrivando. Lo ha annunciato Jesus Fernadez-Villaverde, economista specializzato in demografia presso l’Università della Pennsylvania. Il mondo sta vivendo una crisi demografica e il tasso di fertilità globale scenderà sotto il livello di sostituzione generazionale nei prossimi decenni. I livelli di reddito, istruzione e partecipazione femminile non sembrano essere le uniche discriminanti con le quali misurare i tassi di successo delle politiche familiari nazionali. E mentre lo scorso anno, la popolazione dell’India ha superato quella della Cina, le superpotenze temono le conseguenze demografiche sull’economia.

Il calo demografico

Il calo demografico è diventato una questione di urgenza nazionale in molti Paesi a medio e alto reddito. A preoccupare i governi sono il rallentamento della crescita economica, la riduzione dei finanziamenti diretti alle pensioni e il ricambio generazionale. Il Wall Street Journal ha acceso i riflettori sulla questione che ha sollevato gli interrogativi dagli Stati Uniti alla Russia.

Alcuni demografi e economisti come Jesus Fernadez-Villaverde ritengono che la popolazione mondiale potrebbe iniziare a diminuire entro quattro decenni: una delle poche volte in cui ciò è accaduto nella storia.

“Donald Trump, il candidato repubblicano alle presidenziali di quest’anno, ha definito il collasso della fertilità una minaccia più grave per la civiltà occidentale rispetto alla Russia. Un anno fa, il primo ministro giapponese Fumio Kishida dichiarò che il crollo del tasso di natalità del paese gli faceva dubitare “se possiamo continuare a funzionare come società”. Il primo ministro italiano Giorgia Meloni dà priorità all’aumento del “Pil demografico” del Paese – scrive il quotidiano americano -. I governi hanno lanciato programmi per arrestare il declino, ma finora non hanno ottenuto alcun risultato efficace”.

Il tasso di sostituzione

Nel 2021, secondo le conclusioni delle Nazioni Unite, il tasso di sostituzione era pari a 2,3, vicino a quello che i demografi considerano il tasso di sostituzione globale di circa 2,2. Con questo termine si intende il tasso che mantiene stabile la popolazione, e che è pari a 2,1 nei paesi ricchi e leggermente più alto nei paesi in via di sviluppo, dove nascono meno bambine che bambini e più donne muoiono in età fertile.

Sebbene l’ONU non abbia ancora pubblicato le stime dei tassi di fertilità per il 2022 e il 2023, Fernández-Villaverde ha prodotto la sua stima integrando le proiezioni delle Nazioni Unite con dati reali per questi anni che coprono circa la metà della popolazione mondiale. È emerso che i registri nazionali delle nascite riportano le nascite tra il 10% e il 20% al di sotto di quanto previsto dalle Nazioni Unite.

La Cina, ad esempio, nel 2023 ha registrato nove milioni di nascite, il 16% in meno di quanto previsto. Così come, negli Usa lo scorso anno sono nati 3,59 milioni di bambini, il 4% in meno di quanto previsto dalle Nazioni Unite. In altri paesi, i numeri sono ancora più alti: l’Egitto ha registrato lo scorso anno il 17% di nascite in meno. Nel 2022 il Kenya ha registrato il 18% in meno.

Fernández-Villaverde stima che l’anno scorso la fertilità globale sia scesa tra 2,1 e 2,2, cifra che, secondo lui, sarebbe inferiore alla sostituzione globale per la prima volta nella storia umana. Dean Spears, economista della popolazione presso l’Università del Texas ad Austin, sempre secondo quanto riporta il Wsj, ha affermato che, sebbene i dati non siano abbastanza buoni per sapere esattamente quando o se la fertilità sia scesa al di sotto del tasso di sostituzione, “abbiamo prove sufficienti per garantire quasi che il punto di svolta non sia ancora stato raggiunto”.

Secondo l’Onu, la popolazione mondiale dovrebbe arrivare a 11,2 miliardi nel 2100. L’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington ha rilevato che l’unico picco realmente pensabile è di 9,5 miliardi nel 2061, poi un calo irrefrenabile. Così come il tasso di fertilità, sceso a 1.5 nelle previsioni sul futuro, “ha sorpreso gli studiosi”, ha commentato Melissa Kearney, economista dell’Università del Maryland, specializzata in demografia.

La transizione demografica

Quello che sta accadendo in buona parte del mondo è considerato dagli storici come una “seconda transizione demografica, con il declino della fertilità, iniziato nei paesi industrializzati e che corrisponderà ad un aumento dell’aspettativa di vita.

In una ricerca pubblicata nel 2021, la studiosa Melissa Kearney, dell’Università del Maryland e due coautori hanno cercato possibili spiegazioni per il continuo calo. Dalla ricerca è emerso che le differenze statali sulle leggi legate alla libertà di abortire, così come relative alla disoccupazione, ai costi delle abitazioni, all’uso di contraccettivi, e agli orientamenti religiosi e politici, potrebbero solo in minima parte spiegare le cause del calo demografico, ma “Sospettiamo che questo cambiamento rifletta questioni sociali generali che sono difficili da misurare o quantificare”, concludono i ricercatori.

“L’intensità della genitorialità è un vincolo”, ha detto la ricercatrice Kearney.

Nuove politiche

Quello che sta accadendo ha richiesto attenzione e maggiori politiche dedicate da parte dei governi che stanno cercando di invertire il calo dei tassi di natalità con incentivi. Il Giappone è tra quelli che ha aumentato per primo il congedo parentale e l’assistenza all’infanzia sovvenzionata. Il tasso di natalità è sceso di nuovo nel 2022, tornando a 1,26. Quest’anno, il primo ministro Fumio Kishida ha lanciato un altro programma per incoraggiare le nascite, estendendo i sussidi mensili a tutti i minori di 18 anni indipendentemente dal reddito, l’università gratuita per le famiglie con tre figli e il congedo parentale retribuito al 100%.

In Ungheria, invece, Viktor Orban ha promosso il programma di nascite tra i più ambiziosi in Europa. Con benefici fiscali alle donne, sussidi per gli alloggi, assistenza all’infanzia e congedi di maternità molto generosi, il tasso di fertilità ha visto una lieve crescita dopo la crisi del debito del 2010.

Il problema è che l’Institute for Health Metrics and Evaluation ha trovato poche prove che le politiche pro-natalità portino a una ripresa sostenuta della fertilità. Una donna potrebbe rimanere incinta prima per ottenere i benefici garantiti dal bambino, dicono i ricercatori, ma probabilmente non avrà altri figli più avanti.

Quello che la Banca Mondiale ha preannunciato come un possibile “decennio mancato per l’economia” di tutti i Paesi, ha lasciato intendere che l’unico rimedio valido potesse essere una maggiore immigrazione. Fenomeno, però, che richiede canali formali, legali e da formare professionalmente.

Gli alti livelli di immigrazione hanno anche storicamente suscitato resistenza politica, spesso a causa delle preoccupazioni sui cambiamenti culturali e demografici. È probabile che la diminuzione della popolazione nativa intensifichi queste preoccupazioni. Molti dei leader più interessati ad aumentare i tassi di natalità sono i più resistenti all’immigrazione.

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Infertilità, colpita una coppia su sette in Svizzera

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L’infertilità in Svizzera colpisce una coppia su sette. Negli ultimi anni, questo problema ha raggiunto portata globale, configurandosi come un tema di salute pubblica. L’accesso alle tecnologie che consentono la riproduzione assistita, però, è spesso limitato dai costi elevati o da legislazioni severe.

L’Oms ha definito la sterilità come l’incapacità di concepire dopo 12 mesi o più rapporti sessuali regolari non protetti. Si configura, quindi, come un problema che causa disagio, stigma e anche difficoltà finanziare, coinvolgendo il 18% degli adulti in tutto il mondo. In Svizzera, stime nazionali riportano che circa il 15% delle coppie siano colpite da infertilità. Ogni anno, tra le 3 mila e le 4 mila donne avviano un programma di fecondazione assistita o congelamento degli ovuli.

Infertilità e pma

L’infertilità è uno dei disturbi cronici più comuni nelle persone in età fertile. Le stime dell’Oms riportano che la diffusione del fenomeno può variare dal 10% al 20% a seconda della regione del mondo. In Europa, ad esempio, pare ne siano colpite 25 milioni di persone.

Sulle cause, la ricerca medica gioca un ruolo di prim’ordine nell’analisi quotidiana di quei fattori non ancora individuati. Stile di vita, esposizione climatica, problemi al sistema riproduttivo: l’aumento dell’infertilità viaggia di pari passo anche con l’età delle madri al primo figlio, sempre in aumento e con sempre meno probabilità di riuscire ad avere un bambino senza l’ausilio delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

In Svizzera la fecondazione in vitro, però, non è coperta dall’assicurazione sanitaria ordinaria e fa i conti con un aumento notevole delle coppie svizzere sterili che cercano trattamenti di questa natura e che sono costretti ad andare all’estero. Anche una legislazione restrittiva, oltre i costi elevati, contribuisce a rendere dispendiosa in termini di salute mentale, la scelta di avere un figlio in modo non del tutto naturale. Alcuni paesi, come la Repubblica Ceca, la Danimarca e soprattutto la Spagna, sono specializzati nell’accoglienza di cittadini provenienti da tutta l’Europa che sperano di avere dei figli.

Oltre i confini della Svizzera si diffonde l’idea che i governi dovrebbero fare qualcosa per combattere l’infertilità nell’ambito delle loro politiche familiari. Tomas Sobotka, vicedirettore dell’Istituto di demografia di Vienna, ha dichiarato che “è fondamentale che le persone che ne hanno bisogno abbiano accesso ai trattamenti per l’infertilità”.

Preoccupati per il calo dei tassi di natalità nei loro paesi, alcuni governi sembrano pronti ad andare in questa direzione. Il Giappone ha annunciato nel 2022 che il sistema di assicurazione sanitaria pubblica giapponese ora coprirà diverse tecnologie utilizzate per la Pma, così come alcune città cinesi e province canadesi. Per non parlare del piano di Emmanuel Macron in Francia, dedicato proprio alla costante analisi della fertilità dei giovani con check up gratuiti e supporto alla genitorialità con incentivi.

Il calo demografico svizzero

Per più di un secolo la Svizzera ha conosciuto una crescita demografica continua e spesso forte. Il 1978 è stato l’ultimo anno in cui si registrato un calo demografico. Tra il 2010 e il 2020, i tassi di crescita annuali sono stati per lo più superiori all’uno per cento, a partire dal 2018 leggermente inferiori. Le cifre pubblicate l’anno scorso dall’Ufficio federale di statistica (UST) hanno comunque sorpreso: nel 2022, il tasso di fecondità è sceso al di sotto dell’1,4, il livello più basso dal 2001. Questo nonostante 9 persone su 10 vorrebbero, idealmente, avere almeno due figli, in linea con la tendenza di tanti altri Paesi con medio o alto reddito.

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