La gravidanza rallenta la sclerosi multipla: nasce un programma per affrontarla
La sclerosi multipla e il ruolo materno possono essere due assi dello stesso binario. La malattia autoimmune si posiziona al terzo posto tra le cause principali di disabilità neurologica. Inoltre, è il disturbo più diffuso tra i giovani. È una malattia cronica e progressiva e danneggia midollo spinale, nervo ottico e cervello. Conseguenze? Problemi sensoriali, motori e visivi. Ma una donna che soffre di questa malattia può comunque decidere di diventare mamma? Scopriamolo insieme.
Sclerosi multipla
Le persone che soffrono di sclerosi multipla vivono una vasta gamma di problemi sensoriali causati dall’estesa infiammazione nel sistema nervoso centrale e dei disturbi nella trasmissione dei segnali nervosi. Secondo il rapporto della Federazione Internazionale Sclerosi Multipla (MSIF), il numero di pazienti in tutto il mondo è aumentato da 2,3 milioni di persone nel 2013 a 2,9 milioni nel 2023. Ad essere colpite sono principalmente le donne. La sclerosi, infatti, pare si stia diffondendo più rapidamente tra le donne in età riproduttiva, causando sintomi fisici come l’incontinenza urinaria, problemi intestinali, irregolarità mestruali e disfunzioni sessuali. Le donne con sclerosi multipla, inoltre, sperimentano anche problemi psicologici come irritabilità, diminuzione dell’autostima, ansia e depressione. Questa malattia può, infine, influenzarne anche la fertilità.
Per questi motivi, uno studio dell’Università di Scienze Mediche di Mashhad, Iran, si è posto come precursore della realizzazione di un programma dedicato alle donne con sclerosi multipla che decidano di diventare mamme.
Malattia e gravidanza
“Prima degli anni ’50, molte donne affette rifiutavano la gravidanza perché erano preoccupate per gli effetti avversi della malattia sulla gravidanza – si legge nello studio -. Tuttavia, i progressi nel trattamento delle malattie hanno reso possibile per le donne con sclerosi multipla (Sm) avere figli. La ricerca mostra che le donne con Sm che hanno figli sperimentano una progressione della malattia più lenta rispetto a quelle che sono single o senza figli. Nonostante questi risultati positivi, il numero di donne con Sm che scelgono di iniziare una gravidanza rimane inferiore rispetto alla popolazione generale”.
“Molte donne affette – continuano i ricercatori – hanno attribuito il loro scarso desiderio di gravidanza e maternità a preoccupazioni influenzate dalla malattia stessa e dalle sue conseguenti complicanze. I danni al feto dovuti all’uso di farmaci durante la gravidanza, il rischio di trasmissione di malattie al feto e le sfide legate alla cura del bambino sono solo alcune delle preoccupazioni che queste donne devono affrontare riguardo alla gravidanza e alla maternità. Diversi studi relativi al ruolo materno nelle donne affette hanno riferito che queste donne non sono soddisfatte del loro ruolo di madre. Questa insoddisfazione per il ruolo è causata, da un lato, dall’incapacità delle donne di valutare i bisogni fisici e psicologici dei loro neonati e bambini, e dall’altro, dall’influenza del senso di colpa dovuto alla possibilità di trasmissione di malattie e trascurare il benessere dei loro neonati e bambini in futuro”.
Sostenere e guidare le donne in età riproduttiva nell’assecondare il desiderio di diventare madri è fondamentale anche per migliorare la salute delle donne. La disponibilità di sistemi di supporto, sia formali che informali, può contribuire a rendere la genitorialità durante i periodi prenatale e postnatale migliore delle aspettative. Molte donne con Sm durante la gravidanza e dopo il parto esprimono preoccupazione per la mancanza di sostegno da parte della famiglia e del personale sanitario.
“Nelle donne con Sm, 3-6 mesi dopo il parto, la riacutizzazione più probabile della malattia è dovuta all’eliminazione dello stato immunosoppressivo della gravidanza e all’improvvisa diminuzione degli estrogeni. Allo stesso tempo, diminuisce il sostegno fisico ed emotivo ricevuto dalle famiglie e dai genitori, intensificando i danni causati dalla riacutizzazione della malattia. Nel frattempo, il sostegno sociale ricevuto durante questo periodo gioca un ruolo vitale nella transizione alla maternità.”, hanno evidenziato i ricercatori.
Lo studio
Lo studio, a questo punto, ha deciso di approfondire gli aspetti fenomenologici tramite approccio qualitativo, concentrandosi sulla “voce dei pazienti” e riflettendo sulle loro esperienze. Lo scopo è quello di capire i bisogni e le necessità delle donne con sclerosi che diventano mamme e indicare un programma completo composto da linee guida sino ad oggi assenti. Divisa in tre fasi, la ricerca intende capire come rallentare la malattia attraverso un supporto alla gravidanza.
L’obiettivo principale della prima fase dello studio è condurre un’analisi fenomenologica per comprendere il significato del ruolo materno nelle donne con Sm. “Questo ci aiuterà a identificare i bisogni e le sfide che queste donne affrontano in questo periodo, il che contribuirà allo sviluppo di un programma di sostegno nella seconda fase”, annunciano i ricercatori.
Obiettivi della prima fase:
1. Esplora l’esperienza vissuta del ruolo materno nelle donne in gravidanza con Sm e in coloro che hanno un bambino di meno di un anno.
2. Identificare i bisogni e le aspettative delle madri riguardo a un programma di sostegno.
L’obiettivo generale della seconda fase è creare un programma di supporto basato sui risultati dello studio fenomenologico, sulla revisione della letteratura e sulle interviste con informatori chiave.
Obiettivi della seconda fase:
1. Determinare le esigenze e le sfide per la progettazione di un programma di supporto basato sui risultati dello studio, sulla revisione della letteratura e sulle interviste.
2. Definire i componenti, le caratteristiche e le strategie del programma di supporto utilizzando un modello logico.
Lo scopo generale della terza fase è convalidare il programma di sostegno utilizzando la tecnica del gruppo nominale.
Obiettivi della terza fase:
1. Convalidare il programma di sostegno raccogliendo opinioni di esperti durante la riunione nominale del gruppo.
2. Formulare il programma finale sulla base del feedback degli esperti nella riunione nominale del gruppo.
A causa dell’assenza di studi che esplorino le esperienze delle “madri iraniane con Sm nel loro ruolo materno e della mancanza di un piano completo per loro durante la gravidanza e il postpartum, i ricercatori hanno sviluppato un programma di supporto basato sui bisogni di queste madri – concludono i ricercatori -. L’obiettivo è ridurre le sfide affrontate da queste madri e utilizzare nella pratica dati qualitativi. Speriamo di porre le basi per compiere un passo iniziale per ulteriori ricerche sia all’interno che all’esterno dell’Iran”.
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Solo un neogenitore su tre si sente pronto al nuovo ruolo
Diventare genitori è una sfida che sempre meno italiani sono pronti ad affrontare. Tra le cause della grave denatalità che colpisce il Paese, i giovani denunciano lo scarso supporto psicologico offerto dal Ssn, che, complici gli stipendi bassi, lo scarso equilibrio vita-lavoro e una società sempre più esigente, li allontana dalla scelta di avere figli.
Come rilevato da una ricerca Nestlé, in Italia solo un neogenitore su tre (32%) si sente pronto ad affrontare il nuovo ruolo, mentre sei su dieci (60%) vorrebbero un supporto psicologico per gestire dubbi e pressioni tipiche della genitorialità.
Per rispondere a queste esigenze, l’azienda ha lanciato un progetto innovativo in collaborazione con Unobravo, offrendo un percorso psicologico gratuito e personalizzato ai neogenitori o a chi si prepara a diventarlo.
L’importanza del benessere emotivo per la famiglia
Lo studio “Genitori ai primi passi” , condotto con il supporto di YouGov, ha coinvolto oltre 1.100 genitori e futuri genitori, esplorando il loro stato mentale e fisico. I dati evidenziano come la genitorialità sia spesso accompagnata da incertezze e pressioni, aumentando il bisogno di supporto emotivo. In un periodo dell’anno in cui la famiglia assume un ruolo centrale, Nestlé sottolinea l’importanza di creare un ambiente sereno, a beneficio non solo dei genitori ma anche dei bambini.
Nestlé offre ai neogenitori l’opportunità di accedere a un percorso psicologico personalizzato. Dopo un questionario iniziale e un colloquio conoscitivo gratuito con uno psicologo di Unobravo, i partecipanti possono usufruire di tre sedute aggiuntive completamente finanziate dall’azienda. L’iniziativa è pensata sia per supporto individuale sia di coppia, con l’obiettivo di promuovere un benessere duraturo e un migliore equilibrio emotivo.
L’impegno per i primi mille di vita del bambino
Questa iniziativa si inserisce nell’impegno di Nestlé di sostenere le famiglie durante i primi mille giorni di vita del bambino, un periodo cruciale per lo sviluppo fisico e mentale come dimostrano diversi studi scientifici. Il periodo che va dal concepimento ai primi due anni di vita del bambino è la base per un corretto sviluppo fisico e psicologico del bambino e della sua longevità. Soprattutto in questa fase, un’alimentazione sana e il benessere psicologico sono i pilastri per il futuro del bambino e la serenità dell’intera famiglia.
Da questa consapevolezza parte l’iniziativa di Nestlé: “In questo periodo così speciale, siamo felici di offrire un supporto concreto a chi sta affrontando il meraviglioso, ma spesso sfidante, viaggio della genitorialità. Attraverso questa iniziativa in sinergia con Unobravo, vogliamo supportare il benessere emotivo e psicologico di chi affronta paure e incertezze. Questo è il nostro regalo per rendere il Natale ancora più significativo e per costruire insieme un futuro sereno”, ha spiegato Manuela Kron, Head of Corporate Affairs di Nestlé Italia.
Il valore del supporto psicologico
Anche Unobravo, con la sua esperienza nel benessere psicologico, ha sottolineato l’importanza di questa collaborazione con le parole di Davide Uberti, Partner Sales and Client Success Director:
“Crediamo fermamente che il benessere psicologico sia la base per una genitorialità sana e appagante. Per questo, insieme a Nestlé, desideriamo essere al fianco dei neogenitori in questo viaggio tanto straordinario quanto complesso, fornendo loro il supporto necessario per affrontare al meglio le sfide e vivere questa esperienza unica con maggiore serenità e consapevolezza”.
Un Natale all’insegna del benessere familiare
Durante il periodo natalizio, l’iniziativa vuole ricordare che il miglior regalo per i propri figli è una famiglia serena. Offrendo strumenti pratici e un supporto psicologico mirato, Nestlé e Unobravo puntano a creare un impatto positivo sul benessere dei genitori e, di riflesso, dei bambini. Rimuovere le barriere alla genitorialità è il primo passo per riempire le culle. E la paura di diventare genitori è una barriera ancora sottovalutata.
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Tokyo introduce la settimana corta per rilanciare la...
Il Giappone vuole introdurre la settimana lavorativa corta come risposta alla crisi demografica. Quello di Tokyo sarà un esempio prezioso per tutti quei Paesi, Italia in primis, che da tempo cercano una soluzione alle culle vuote senza trovare la chiave giusta. Stipendi troppo bassi, servizi all’infanzia carenti e uno scarso work-life balance sono tutte concause della crisi demografica. La sfida per gli Stati è trovare il canale preferenziale, quello su cui insistere con più determinazione per ripopolare le culle.
Tokyo ha scelto la sua strada: per contrastare la denatalità introdurrà la settimana lavorativa di 4 giorni per incoraggiare le coppie giapponesi ad avere figli in un momento in cui il tasso di fertilità del Paese è ai minimi storici.
La crisi demografica in Giappone
L’anno scorso in Giappone ci sono state solo 727.277 nascite, il numero più basso di sempre. Mentre le case si svuotano, il governo nipponico cerca una soluzione partendo dal particolare contesto culturale del Paese.
I dati suggeriscono che una principali della denatalità può essere proprio la cultura della produttività a tutti i costi, che spesso porta i giapponesi a lavorare ben oltre le 40 ore a settimana. Questo è lo stesso Paese in cui è nato il fenomeno degli hikikomori, ragazze e ragazzi giovanissimi che si rinchiudono in casa soprattutto perché non si sentono all’altezza della società e delle sue richieste.
In Giappone, il divario di genere occupazionale è più alto che in altre nazioni ad alto reddito: nel 2023 ha lavorato il 55% delle donne contro il 72% per gli uomini (dati Banca Mondiale). Il controsenso è solo apparente. Molte donne giapponesi non lavorano perché i ritmi produttivi rendono impossibile conciliare il lavoro e la famiglia, generando un aut aut che non fa bene né all’economia, né alla natalità né tanto meno al senso di soddisfazione per la propria vita.
Relazione tra work-life balance e natalità
La difficoltà della materie non consente risposte tranchant, ma alcuni studi danno degli indizi interessanti.
L’Ocse ha condotto diverse ricerche significative sull’impatto delle politiche di work-life balance sul tasso di natalità e sulla qualità della vita delle famiglie. Ne è emerso che esiste una correlazione tra l’adozione di politiche di conciliazione vita-lavoro e l’aumento dei tassi di fertilità. I Paesi che garantiscono un accesso più equo al mercato del lavoro per entrambi i genitori, orari flessibili e politiche di supporto alla genitorialità tendono a registrare tassi di fertilità più alti rispetto a quelli che non implementano tali misure. Parliamo di Paesi del Nord Europa come Svezia e Norvegia, dove esistono sistemi consolidati di congedo parentale retribuito e ampi servizi di assistenza all’infanzia.
La ricerca Ocse sottolinea che la denatalità è influenzata da una combinazione di fattori: stress lavorativo, difficoltà economiche e la percezione di un’insufficiente supporto da parte delle istituzioni. Non a caso il Giappone dove i turni lavorativi sono molto lunghi e la cultura aziendale eccessivamente rigida, ha il tasso di fertilità più basso al mondo. La settimana lavorativa di 4 giorni, recentemente annunciata a Tokyo come misura pilota, è forse l’ultima carta a disposizione del governo.
Ma perché finora non si è andato in questa direzione?
La risposta è semplice: si teme che la settimana di 4 giorni porti a un calo della produttività. Questa paura accomuna tutti quei Paesi che non hanno ancora registrato grandi aperture verso la settimana corta. Tra questi rientra l’Italia, che però ha fatto un piccolo (e per ora solo formale) passo prevedendo la possibilità di adottare la settimana corta nel settore pubblico.
La settimana corta aumenta la produttività
Ma la settimana corta è davvero nemica della produttività? Uno studio comparativo sui Paesi Ocse evidenzia che la settimana corta non solo migliora la qualità della vita, ma persino la produttività complessiva. Alla base di questo (inatteso) risultato ci sarebbe la maggiore lucidità mentale dei lavoratori, come dimostra il più ampio studio sulla materia, pubblicato nel 2023 da 4 Day Week Global e dal centro studi britannico Autonomy.
I risultati hanno dimostrato che durante il periodo di prova le entrate delle aziende hanno registrato un incremento medio dell’1,4%. Analizzando il confronto tra il fatturato dei sei mesi di sperimentazione e un periodo equivalente con la settimana lavorativa di cinque giorni, gli autori dello studio hanno rilevato un aumento del fatturato medio pari al 35%. Questi risultati suggeriscono che la produttività non solo non è diminuita, ma ha beneficiato del cambiamento. Non a caso, 18 delle 61 aziende coinvolte nel test hanno subito adottato la settimana corta come scelta definitiva.
Dopo sei mesi, il 39% dei dipendenti intervistati ha riferito di sentirsi meno stressato, mentre il 71% ha segnalato una riduzione del livello di burnout, una forma di stress cronico particolarmente dannosa. Sono stati registrati miglioramenti in ansia, stanchezza e qualità del sonno, con un generale beneficio per la salute fisica e mentale. Le assenze dal lavoro sono diminuite del 65%, passando da una media di due giorni al mese a 0,7 giorni per dipendente. Il che, va da sé, aumenta la produttività aziendale e diminuisce la spesa pubblica.
Durante il periodo di prova, il numero di dipendenti che ha lasciato il proprio posto di lavoro si è ridotto del 57%. Il 15% degli intervistati ha dichiarato che accetterebbe persino una riduzione del salario pur di non tornare alla settimana lavorativa di cinque giorni.
Le riflessioni affrontate nell’indagine sono utili a tutti quei Paesi, come l’Italia, che presentano una grave crisi demografica. I dati sulla denatalità italiana dimostrano che le culle non si riempiono senza un cambiamento radicale. Intanto, il Paese perde 150.000 lavoratori all’anno per la crisi demografica e l’economia rischia di cadere sotto la scure di un minaccioso effetto domino.
Lo studio, che ha coinvolto 2.900 dipendenti tra giugno e dicembre 2022, ha registrato un impatto fortemente positivo sul loro work-life balance. Il 54% dei dipendenti ha affermato di aver gestito più facilmente gli impegni familiari e di cura, mentre il 62% ha migliorato il bilanciamento tra lavoro e vita sociale.
Molti lavoratori hanno espresso una maggiore soddisfazione nella gestione del tempo, delle finanze e di vivere meglio le relazioni personali. Che, giova ricordarlo, non sono mai un dettaglio quando si parla della scelta di avere o non avere figli.
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‘Cyber-Gesù’ ti ascolta, l’intelligenza artificiale arriva...
In principio era il Verbo. Ora è un algoritmo. Se pensavate che la spiritualità fosse l’ultimo baluardo immune dall’invasione tecnologica, la Svizzera vi farà ricredere. Nella parrocchia Peterskapelle di Lucerna, il confessionale ha fatto un salto nel futuro: al posto del classico prete, troverete un ologramma di Gesù, pronto a rispondere ai dubbi dell’anima in ben cento lingue. Non assolve i peccati, ma promette consigli e conforto.
Come spiega la chiesa, i fedeli possono avere un’esperienza intima e sacra con un Cristo virtuale che ascolta e risponde da dietro la grata di un classico confessionale. Non solo, ma grazie a uno schermo, tra i fori della grata è anche visibile il volto (presunto) del Figlio di Dio.
Quando il confessionale si fa hi-tech
In duemila anni di storia la Chiesa – e i fedeli – ne ha viste tante, ma il cyber-Gesù che ‘confessa’ mancava. Finora. Per arrivarci, c’è voluta l’Intelligenza Artificiale, che ormai dilaga ovunque e svela le sue potenzialità praticamente in qualsiasi campo, anche quello spirituale che sembrava poter essere immune proprio per la sua natura intima e sacra.
Il progetto (artistico e temporaneo) si chiama ‘Deus in machina’ e prevede che sia proprio Gesù a ‘confessare’ il fedele, grazie a un’intelligenza artificiale creata da informatici e teologi dell’Immersive Realities Research Lab della Lucerne University of Applied Sciences and Arts. L’AI celeste è stata addestrata sul Nuovo Testamento e offre risposte in linea con la fede cristiana (o almeno dovrebbe: al momento non si sono registrati casi di ‘deviazioni’, ma una cantonata è sempre in agguato).
Ma i fedeli come hanno preso questa novità?
Più di mille fedeli (e curiosi) al confessionale virtuale
Intanto in due mesi più di mille persone, tra cui turisti provenienti da tutto il mondo, hanno provato l’esperienza sacra, ponendo al Gesù-AI domande e dubbi. E già questo denota sia una certa curiosità da parte delle persone sia la potenzialità di avvicinare alla religione che un sistema del genere potrebbe avere.
Quanto ai risultati, secondo quanto riportato dai media svizzeri almeno due terzi di chi ha testato il Gesù 2.0 ha dichiarato di aver vissuto un’esperienza “molto spirituale”, e anche sorprendente per la sua facilità. Non solo, ma il Cristo-AI ha anche dispensato molti consigli e ha consolato. Uno dei suoi punti di forza è che può farlo 24 ore al giorno, a differenza di un prelato ‘vero’. La parrocchia di San Pietro sostiene infatti che un giorno chatbot simili potrebbero sostituire almeno in parte il clero, dimostrando che nessuno può dirsi al sicuro.
Non tutti credono nel miracolo dell’IA
Ovviamente non tutti sono soddisfatti: per alcuni le risposte del cyber-Gesù erano troppo generiche, asettiche o superficiali, o legate a luoghi comuni. Qualcuno ha criticato l’uso stesso dell’immagine di Gesù e del confessionale per un esperimento simile, mentre per altri è stato difficile avere una “conversazione sincera” con un’immagine digitale. Senza contare che la fede è una materia delicata che, come sostenuto da diverse voci, non dovrebbe essere affidata a una macchina, che peraltro potrebbe anche generare risposte incompatibili con gli insegnamenti della Chiesa.
Rimane infine aperto il problema della privacy: dove finisce e per quanto tempo si conserva ciò che le ‘orecchie’ virtuali hanno ascoltato? Il Gesù virtuale, insomma, rispetta il ‘segreto del confessionale’, come da sempre sono tenuti a fare i preti in carne e ossa?
Un esperimento che fa riflettere
Va detto che l’obiettivo dell’installazione era proprio quello di stimolare la riflessione, soprattutto sui limiti della tecnologia nel contesto della religione, come chiarito da Marco Schmid, teologo della Peterskapelle: “Quello che stiamo facendo qui è un esperimento, l’obiettivo è far sperimentare alle persone un’esperienza con l’intelligenza artificiale. Sarà una base di partenza per discutere sul tema e capire meglio questa tecnologia applicata alla religione”.
Insomma, il cyber-Gesù non mira a rubare il lavoro al clero, ma in ogni caso potrebbe aprire nuove porte alla spiritualità del futuro. La rivoluzione, in effetti, potrebbe essere vicina: come spiega la Peterskapelle in un comunicato, “l’IA potrebbe essere in grado di rispondere a domande individuali e affrontare preoccupazioni in modo molto specifico personalizzando i riferimenti biblici, spirituali o teologici, spesso in modo più veloci e più completo di un pastore umano“.