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Sostenibilità

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Il cambiamento climatico potrebbe ridurre il Pil mondiale di oltre il 4%

Standard and Poor’s Global lancia l’allarme e spiega quali sono le zone più a rischio

Mano tesa su terreno siccitoso - Canva

Il cambiamento climatico potrebbe provocare la perdita del 4,4% del Pil globale ogni anno, già a partire dal 2050.

L’allerta arriva da uno studio di Standard and Poor’s Global Rating, dove si spiega che è possibile evitare questo scenario disastroso per l’economia mondiale solo tenendo le temperature ben al di sotto dei +2°C rispetto al periodo preindustriale (1850-1900).

Il primo punto chiarito dal report di S&P Global “Lost GDP: Potential Impacts Of Physical Climate Risks” è che il cambiamento climatico non è ‘solo’ un problema ambientale, ma anche finanziario e sociale.

Il riscaldamento del pianeta, causato principalmente dalle emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane, ha già effetti tangibili e negativi sulle condizioni di vita di milioni di persone, sulla biodiversità, sulla sicurezza alimentare e idrica, sulla salute e sui diritti umani.

Ma qual è il costo finanziario del cambiamento climatico? Quali sono i settori e i paesi più esposti ai rischi fisici legati al clima e le possibili soluzioni per mitigare il cambiamento climatico prima che le conseguenze diventino irreversibili?

L’impatto economico del cambiamento climatico

Come detto in apertura, secondo S&P le conseguenze del cambiamento climatico possono portare a una perdita del 4,4% del Pil ogni anno tra meno di trent’anni, già a partire dal 2050. Un dato allarmante, se si considera che il Pil globale nel 2020 era di circa 84 trilioni di dollari, secondo il Fondo Monetario Internazionale e che quindi la perdita sarebbe di oltre 3 trilioni di dollari. Sarebbe come perdere il Pil di Germania, Regno Unito o Francia ogni anno. Il report si basa su quattro scenari climatici per esaminare l’esposizione potenziale di 137 paesi a perdite economiche causate dagli impatti fisici del clima.

È possibile valutare i danni anche considerando il trend di crescita delle perdite nel settore assicurativo che dal 1992 al 2022, è cresciuto in media del 5%-7% all’anno a causa dei disastri naturali. I dati Swiss Re certificano che gli eventi climatici più estremi causano la maggior parte delle perdite assicurative.

C’è poi un’altra tendenza sottolineata nel report che getta (ancora più) ombre sul futuro: è probabile che gli impatti di tali rischi non siano lineari, come già è accaduto storicamente. In pratica, l’aumento marginale della temperatura produce più danni quanto più elevata è la temperatura di partenza. In futuro, è quindi probabile che il cambiamento climatico diventi esponenziale una volta raggiunti determinati punti critici.

Quali sono i rischi climatici

L’agenzia di rating con focus sulla sostenibilità ha individuato 7 tipi di rischi climatici:

- Ondate di calore;

- siccità;

- inondazioni;

- tempeste;

- incendi;

- innalzamento del livello del mare.

Utilizzando i dati sui tassi di perdita storici associati a questi rischi, S&P ha quindi stimato i potenziali impatti economici. Ciò che emerge dalla ricerca è che la diffusione dei rischi climatici fisici erode gradualmente la capacità produttiva dei Paesi per vari motivi: gli investimenti sono più deboli perché aumenta il timore di perdere tutto per calamità naturali, c’è minore produttività, i tassi di mortalità diventano più elevati e si perde capitale.

Prendendo in considerazione uno scenario definito “di transizione lenta” S&P Global Ratings utilizza tre parametri per valutare gli impatti economici dei rischi climatici fisici:

- l’esposizione: la percentuale di Pil o di popolazione che può essere messa a rischio dai cambiamenti climatici;

- il Pil a rischio: il valore del Pil che potrebbe essere perso ogni anno a causa dei rischi climatici, espresso in valore assoluto;

- la prontezza: indica la capacità dei paesi di rispondere ad alcune di queste perdite in base alla loro forza economica e istituzionale.

Il report assume uno scenario di surriscaldamento di 3°C entro il 2050, in linea con le attuali politiche climatiche dei paesi. Tuttavia, se le emissioni di gas serra continuassero a crescere al ritmo attuale, il riscaldamento potrebbe essere anche superiore, con conseguenze ancora più gravi per l’economia mondiale.

I territori più esposti ai rischi climatici

Il report evidenzia anche che il costo del cambiamento climatico non è distribuito in modo uniforme tra i paesi e i settori economici.

Si verifica il paradosso per cui, in media, a subire le conseguenze peggiori del cambiamento climatico sono i paesi che meno hanno contribuito all’inquinamento atmosferico. I paesi più poveri e più caldi, infatti, sono quelli che subiscono le perdite maggiori a causa della loro maggiore esposizione e vulnerabilità agli impatti climatici, della loro minore capacità di adattamento e della loro dipendenza da settori sensibili al clima, come l’agricoltura e il turismo.

[Scenari di danni economici da crisi climatica - Fonte: S&P Global]

È evidente, quindi, come tra i diversi territori varino anche rischi ed esigenze di investimento.

Ad esempio, il report stima che il Pil pro capite dell’Africa sub-sahariana e della zona Mena (Medio Oriente e Nord Africa) potrebbe diminuire dell’8% entro il 2050 a causa dei rischi fisici legati al clima, mentre l’Asia meridionale potrebbe perdere addirittura il 12% di Pil, tre volte la perdita prevista a livello globale.

[La previsione sui fenomeni climatici estremi. Fonte: S&P Global]

Al contrario, nelle stime di S&P, Europa e Nord America sarebbero meno esposte e sarebbe a rischio il 2% del loro Pil. Ricordiamo inoltre un recente rapporto Oxfam-SEI dove si dimostra che l’1% più ricco della popolazione inquina quanto i 2/3 della popolazione globale.

Bisogna poi sottolineare che negli ultimi anni il cambiamento climatico sta portando eventi estremi anche in quei territori tradizionalmente miti, dove non esistevano fenomeni come siccità, inondazioni, tempeste, incendi e innalzamento del livello del mare.

Questi eventi possono causare danni ingenti alle infrastrutture, alle proprietà, alle attività economiche e alle vite umane, oltre a generare costi di adattamento e di ricostruzione. A questo va aggiunto che il cambiamento climatico può avere effetti indiretti sull’economia mondiale gravando sulle catene di approvvigionamento, i flussi commerciali e i movimenti migratori.

Gli eventi estremi in Italia

Le aziende italiane risultano particolarmente colpite dall’estremizzazione dei fenomeni, secondo i dati dell’Eib Investment Survey 2023, ricerca annuale svolta dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei) su un campione di 13 mila aziende europee.

L’indagine spiega che le imprese italiane sono tra quelle che hanno subito i danni maggiori dagli eventi climatici estremi: complessivamente ne è stato danneggiato il 73% delle aziende, meno solo della Spagna (80%) e del Portogallo (79%). La percentuale italiana supera di ben 9 punti percentuali quella media delle imprese che hanno subito perdite legate al cambiamento climatico che si assesta al 64%. Anche quest’ultimo dato è molto allarmante se si considera che è cresciuto del 7% in un solo anno (nel 2022, era stato danneggiato il 57% delle aziende).

Il dato italiano è strettamente correlato all’aumento dei fenomeni: nel 2010 nel Belpaese si verificarono 19 eventi estremi, nel 2022 sono saliti a 310, di cui 104 allagamenti, 81 trombe d’aria, 29 grandinate distruttive, per citare i più ricorrenti (dati Legambiente). Una crescita esponenziale che, secondo una ricerca dell’Icsr (International Center for Social Research) potrebbe far spendere alle imprese italiane, complessivamente, fino a 3,24 miliardi di euro all’anno per riparare i danni ma anche per tutelarsi dal rischio ambientale.

Una situazione che ha il proprio risvolto sociale, noto con il termine di “Ecoansia”, una paura che coinvolge quasi 1 italiano su 2!

Le possibili soluzioni

In conclusione, il report di Standard and Poor’s Global Rating ribadisce che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia seria e urgente per la stabilità finanziaria, che richiede una rapida e decisa azione da parte dei governi, delle imprese e della società civile. In realtà, la tanto temuta soglia dei +2°C rispetto al periodo preindustriale è stata già raggiunta (e superata) lo scorso 17 novembre e il tempo a disposizione non sembra molto.

L’obiettivo principale resta quello di ridurre le emissioni di gas serra, in modo da limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 registrato nella Cop 21. L’edizione numero 28 della Conferenza delle parti, in corso a Dubai, ha il compito di trovare delle soluzioni condivise per contrastare il cambiamento climatico. Per raggiungere questo obiettivo, sono necessarie politiche efficaci e ambiziose, che incentivino la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, basata sulle energie rinnovabili, sull’efficienza energetica, sulla mobilità sostenibile, sull’innovazione tecnologica e sulla circolarità dei materiali.

Allo stesso tempo, sono necessarie politiche di adattamento, che aiutino i paesi e i settori più vulnerabili a far fronte agli impatti climatici già in atto o inevitabili, aumentando la loro resilienza e capacità di recupero. Queste politiche devono essere integrate e coordinate a livello locale, nazionale e internazionale, tenendo conto delle diverse esigenze e opportunità dei diversi attori coinvolti. Quando però si tratta di passare dalle parole ai fatti, gli accordi non si trovano e gli interessi particolari continuano a prevalere.

Non fosse altro che solo a novembre, il presidente della Cop e ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti 28 Sultan Al Jaber ha espresso dubbi sulla possibilità di rinunciare ai combustibili fossili senza “tornare all’età delle caverne”. Lui dice di essere stato frainteso e di avere fiducia nella scienza.

Intanto, anche S&P ha lanciato l’allarme cercando di far leva su ciò che, per alcuni operatori, può essere più preoccupante: la perdita economico-finanziaria a cui la popolazione mondiale va incontro senza una decisa inversione di rotta.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Sostenibilità

I cinque punti di non ritorno dell’ambiente

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Presentato alla Cop28 il rapporto sui Global Tipping Points

Ghiaccio della Groenlandia - - Canva

"E se fossimo in ritardo?" Questo è il sentiment comune che travolge almeno due generazioni che si ritroveranno, in un futuro non molto lontano, a fare i conti con una dura realtà. Esistono già, infatti, dei punti considerati di “non ritorno” dell’ambiente. Punti che, anche quando meno lo si possa prevedere, potranno generare delle vere e proprie catastrofi. Per evitare allarmismi, però, il monitoraggio e l’attenzione puntata alla prevenzione è quanto di più importante ci sia al momento, oltre che l’assumere tutta una serie di comportamenti che facciano della “sostenibilità” non uno slogan, ma una pratica quotidiana.

Scopriamo insieme di quali punti si tratta.

Global Tipping Points

Presentato il 6 dicembre alla Cop28, il Global Tipping Points Report è una valutazione autorevole dei rischi e delle opportunità dei punti di svolta sia negativi che positivi nel sistema Terra e nella società.

Secondo il report, cinque importanti punti critici sono già a rischio di essere superati a causa del riscaldamento in questo momento e altri tre sono minacciati nel 2030 mentre il riscaldamento globale supera 1,5 gradi.

Il danno totale causato dai punti di non ritorno negativi sarà di gran lunga maggiore del loro impatto iniziale. Gli effetti si riverseranno sui sistemi sociali ed economici globalizzati e potrebbero superare la capacità di adattamento di alcuni paesi. I punti di non ritorno negativi mostrano che la minaccia posta dalla crisi climatica ed ecologica è molto più grave di quanto comunemente si pensi e ha una portata mai affrontata prima dall’umanità.

Attualmente non esiste una governance globale adeguata alla portata delle minacce poste dai punti di non ritorno negativi. Superare un punto critico, addirittura potrebbe innescarne altri, causando un effetto domino di cambiamento accelerato e ingestibile ai nostri sistemi di supporto vitale. Prevenire ciò – e farlo in modo equo – dovrebbe diventare l’obiettivo principale e la logica di un nuovo quadro di governance globale. La prevenzione è possibile solo se le società e i sistemi economici vengono trasformati per ridurre rapidamente le emissioni e ripristinare la natura.

L’attuale approccio del cambiamento incrementale lineare, favorito da molti decisori, non è più un’opzione. Le istituzioni di governance esistenti e gli approcci decisionali devono adattarsi per facilitare il cambiamento trasformazionale.

Fondamentali per raggiungere questo cambiamento trasformativo sono le opportunità di punti di svolta positivi, in cui i cambiamenti desiderabili nella società diventano auto promotori. Le azioni concertate possono creare le condizioni abilitanti per innescare una trasformazione rapida e su larga scala. La storia umana è ricca di esempi di bruschi cambiamenti sociali e tecnologici. Esempi recenti includono l’aumento esponenziale dell’elettricità rinnovabile, la portata globale dei movimenti per la giustizia ambientale e l’accelerazione della diffusione dei veicoli elettrici. Le minacce di punti di svolta negativi potrebbero essere mitigate se ci fosse un grande sforzo per innescare altre opportunità di punti di svolta positivi.

I punti critici

Se la temperatura globale dovesse superare di 1,5 gradi quella del periodo preindustriale (usata come riferimento negli accordi internazionali come quelli di Parigi) potrebbero verificarsi delle serie criticità: sciogliersi le piattaforme di ghiaccio della Groenlandia e dell'Antartide occidentale, le enormi aree di permafrost nordamericane, cambiare la corrente nel Mare del Labrador e danneggiarsi gran parte delle barriere coralline tropicali. Tra i 2 e 4 gradi di aumento perderemmo altri meccanismi cruciali che regolano il clima, come quelli che generano le piogge torrenziali nel Sahel e in qualche modo limitano la desertificazione a sud del Sahara, mentre oltre i 4 gradi perderemmo definitivamente anche tutti i ghiacci antartici e la corrente Atlantica.

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Sostenibilità

Politiche alimentari assenti alla Cop28

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La denuncia di Slow Food Italia

Politiche alimentari - - Canva

Un’altra Cop28 con delle tematiche che sembrano “grandi assenti” nello scenario futuro: questa è ciò che si è notato negli ultimi giorni. La Conferenza delle Nazioni Unite si è riunita a Dubai per discutere delle politiche dedicate al cambiamento climatico, ma pare non aver soddisfatto, neanche quest’anno, le aspettative dei cittadini di tutti i Paesi coinvolti. Si è sottolineata la mancanza di coraggio nelle scelte, la difficoltà di indirizzare le politiche verso dei binari fino ad oggi non ancora intrapresi e l’assenza di alcune tematiche di rilevanza non trascurabile.

E mentre si capisce cosa farne dei combustibili fossili, le politiche alimentari continuano a non essere una priorità. Ma scopriamo meglio di cosa si tratta.

Le politiche alimentari

A denunciare l’assenza delle Politiche alimentari dalla Cop28 è la presidente di Slow Food Italia durante la presentazione della ventesima edizione di Terra Madre Salone del Gusto, la più rilevante manifestazione internazionale dedicata al cibo salutare e pulito organizzato da Slow Food, Città di Torino e Regione Piemonte. “Le politiche alimentari – ha affermato la presidente - sono assenti alla Cop28. Abbiamo visto le dichiarazioni provocatorie rilasciate sull’impossibilità di fare a meno dei combustibili fossili, quando invece probabilmente è l’unica strada seria e in tempi brevi per incidere al contrasto della crisi climatica”.

E sulla carne sintetica ha aggiunto: “La posizione di Slow Food accoglie la complessità. Il nostro ragionamento non è solo sulla carne coltivata in sé, ma un ragionamento più ampio che riguarda gli allevamenti intensivi e lo spreco alimentare, dato che nel mondo sprechiamo un terzo del cibo prodotto. Abbiamo più che altro bisogno di fonti proteiche vegetali, una soluzione in linea con la conversione ecologica e dentro la natura, non in laboratori o nelle industrie”.

A darne rilevanza, però, è stata la premier italiana Giorgia Meloni, che, intervenuta all’inizio della Cop28 nel panel sulla sicurezza alimentare, ha dichiarato “vogliamo essere impegnati anche nella sicurezza e incolumità alimentare, che significa non solo alimenti per tutti, ma assicurare alimenti sani per tutti. Questo significa - ha sottolineato - che non vogliamo considerare la produzione alimentare come sopravvivenza, ma un mezzo per vivere una vita sana e il ruolo della ricerca è essenziale in questo contesto. Tuttavia, non per produrre alimenti in laboratorio, e magari andare verso un mondo in cui i ricchi possono mangiare alimenti naturali e i poveri cibi sintetici, con un impatto sulla salute che non possiamo prevedere: non è mondo che voglio vedere”. Ma, purtroppo, sembra proprio la direzione più plausibile che si intraprenderà se non si cambierà la rotta.

Una proposta alternativa

Intanto, a proporre delle iniziative in merito è ancora una volta l’Università e l’ambito della formazione e dell’istruzione. Nello specifico ci troviamo a Parma, città in cui, Università e OnFoods, la rete italiana di ricerca e innovazione per il cibo e la nutrizione sostenibili, hanno lanciato un bando.

La dotazione finanziaria del bando è di cinque milioni di euro, destinati a progetti di ricerca avviati da imprese e organizzazioni di ricerca pubbliche e private che non fanno parte del partenariato ma che sono interessate agli argomenti affrontati da OnFoods.

L'obiettivo è coinvolgere organizzazioni esterne interessate a realizzare progetti di ricerca fondamentale e applicata e trasferimento tecnologico nel campo dell'alimentazione e della nutrizione che siano originali, innovativi e di dimensioni medio-grandi.

“I bandi a cascata di OnFoods – ha commentato il docente dell’Università di Parma Filippo Arfini, coordinatore dello Spoke 1 - rappresentano una grande opportunità, aperta a tutti, di fornire il proprio contributo per rendere più sostenibile il nostro sistema alimentare. I food systems – cioè il modo in cui il cibo viene prodotto e consumato – sono responsabili, infatti, di un terzo delle emissioni globali di gas serra, con un impatto negativo sulla salute dei consumatori. Occorre cambiare paradigma e abbiamo bisogno di idee, strumenti e proposte innovative da parte di tutti i soggetti interessati a realizzare una nuova visione sostenibile dei sistemi alimentari.”

La call for action dello Spoke 01 "Global Sustainability”, coordinato dall’Università di Parma, punta a migliorare l'efficienza delle catene del valore alimentare combinando produttività e sostenibilità, promuovendo il trasferimento tecnologico e fornendo accesso al cibo sostenibile per le persone più vulnerabili della società. L'obiettivo è quello di incidere sulla sostenibilità sociale, economica e ambientale dei sistemi alimentari attraverso strategie che rispettino le scelte dei consumatori, diano priorità alla qualità e alla stagionalità degli alimenti e promuovano l'equità socioeconomica per ridurre la disuguaglianza sociale. Filiere dunque efficienti e sostenibili insieme.

“Questo primo bando a cascata – ha dichiarato il docente dell’Università di Parma Daniele Del Rio, Presidente della Fondazione OnFoods e coordinatore del progetto – inaugura una nuova stagione per la Fondazione, nella quale ciascuno degli Spoke finanzia enti di ricerca pubblica e aziende che, nella forma di piccolo partenariato costituito da 3 a 6 entità, metteranno a terra un progetto che complementi le attività degli affiliati, ma in tutto e per tutto indipendente. L’Università di Parma, che è anche l’ente proponente del nostro progetto PNRR e sede della Fondazione, è il primo Spoke ad emanare un bando a cascata e sarà a breve seguita da tutti gli altri.”

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Sostenibilità

Cambiamento climatico, solo il 50% dei giovani conosce la...

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Secondo i risultati di un sondaggio Unicef-Gallup, l’85% dei giovani fra i 15 e i 24 anni in 55 paesi afferma di aver sentito parlare del cambiamento climatico, ma solo il 50% di loro ha indicato la definizione corretta

Crisi climatica - (Fotolia)

La maggior parte dei bambini e dei giovani dicono di aver sentito parlare del cambiamento climatico ma solo la metà comprende cosa sia. E' quanto emerge dai risultati di un sondaggio Unicef-Gallup, lanciato mentre i leader mondiali si riuniscono alla Cop28 di quest'anno. Il sondaggio globale, che ha raggiunto più di 55mila persone in 55 Paesi, ha rilevato che in media l’85% dei giovani fra i 15 e i 24 anni in 55 paesi afferma di aver sentito parlare del cambiamento climatico, ma solo il 50% di loro ha indicato la definizione corretta secondo lo United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc) quando è stato chiesto di scegliere fra "cambiamenti stagionali del clima che si verificano ogni anno" ed "eventi meteorologici più estremi e un aumento delle temperature medie mondiali derivanti dall'attività umana".

La conoscenza del cambiamento climatico fra i giovani è minore nei paesi a reddito basso e medio basso, i più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, come Pakistan (19%), Sierra Leone (26%) e Bangladesh (37%).

"I giovani sono stati tra i più grandi eroi nel guidare l'azione per affrontare l'impatto dei cambiamenti climatici. Hanno chiesto un'azione per il clima nelle strade o nelle sale riunioni, e dobbiamo fare ancora di più per garantire che tutti i bambini e i giovani comprendano la crisi che incombe sul loro futuro - ha dichiarato la Direttrice generale dell'Unicef Catherine Russell - Alla Cop28, i leader devono impegnarsi a garantire che i bambini e i giovani siano istruiti sul problema, presi in considerazione nelle discussioni e coinvolti nelle decisioni che influenzeranno le loro vite per i decenni a venire".

Le richieste ai leader riuniti alla Cop28

In occasione del Vertice sui cambiamenti climatici Cop28, in corso a Dubai, l'Unicef chiede ai leader mondiali di "garantire che le decisioni siano consapevolmente in grado di proteggere e investire nell'infanzia, anche per quanto riguarda la formazione sul clima. Questo include: valorizzare i bambini nella decisione finale di copertura della Cop28 e convocare un dialogo tra esperti su bambini e cambiamenti climatici; inserire i bambini e l'equità intergenerazionale nel Global Stocktake (Gst); includere i bambini e i servizi essenziali resilienti al clima nella decisione finale sull'Obiettivo globale per l'adattamento (Gga); garantire che il Fondo per le perdite e i danni e gli accordi di finanziamento rispondano alle esigenze dei bambini, con i diritti dei bambini integrati nella governance del Fondo e nel processo decisionale".

Al di là della Cop28, l'Unicef chiede alle parti di agire "per proteggere la vita, la salute e il benessere dei bambini, anche adattando i servizi sociali essenziali, mettendo ogni bambino in condizione di essere un campione per l'ambiente e rispettando gli accordi internazionali sulla sostenibilità e sul cambiamento climatico, compresa la rapida riduzione delle emissioni".

"Avendo constatato la forza del movimento giovanile per il clima, sono certa che informare e coinvolgere un numero ancora maggiore di giovani sulla crisi climatica potrebbe contribuire a dare un impulso al senso collettivo di urgenza di cui il mondo ha disperatamente bisogno", ha aggiunto Russell.

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