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Ucraina, il mese nero della guerra: “Russia...

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Ucraina, il mese nero della guerra: “Russia avanza”

La controffensiva non ha sfondato, gli aiuti dagli Usa arrivano col contagocce

Soldati in guerra in Ucraina

L'Ucraina sta per chiudere il 'mese nero' nella guerra con la Russia, iniziata a febbraio 2022 e sempre più vicina al traguardo dei 2 anni. Le ultime fasi del conflitto sono state durissime. La controffensiva di Kiev non ha prodotto i risultati sperati, la pressione degli attacchi russi è aumentata costantemente costringendo le forze armate ucraine a difendere le posizioni. "A mio avviso, il mese più difficile è questo", sintetizza il portavoce del raggruppamento delle truppe ucraine di Tavria, Oleksandr Shtupun, dopo la sua valutazione sulla situazione sul campo in quest'area del sud dell'Ucraina.

"Il nemico ha attaccato Marinka e Avdiivka senza tregua, ha subito pesanti perdite, ma continua ad avanzare - dice - Cercano risultati prima della fine dell'anno o forse hanno altre scadenze. Se contate il numero di assalti e la pressione sulle nostre unità - prosegue - l'ultimo mese di quest'anno è il più difficile".

I 'mini-aiuti' Usa non bastano

L'Ucraina, che aspetta in particolare l'arrivo degli F-16, intanto riceve un 'mini-pacchetto' di 250 milioni di dollari fornito dagli Stati Uniti. E' l'ultimo invio di armi americane fino a quando il Congresso non approverà il pacchetto di 61 miliardi di dollari per Kiev. Pacchetto che è rimasto ostaggio dei negoziati con cui i repubblicani vogliono imporre, in cambio del loro assenso dei drastici cambiamenti, in senso restrittivo, delle leggi in materia di immigrazione e asilo.

Sono state frustrate infatti le speranze del presidente Joe Biden di raggiungere un accordo, e quindi il voto del pacchetto - che complessivamente è di 100 miliardi, comprendendo anche fondi per Israele, Taiwan e appunto il rafforzamento del confine - entro la fine dell'anno, come chiedeva una lettera inviata a metà del mese dall'ufficio budget della Casa Bianca al Congresso in cui si avvisava che entro la fine dell'anno sarebbero finiti i fondi a disposizione dell'Ucraina.

A quasi due anni dall'inizio del conflitto in Ucraina e oltre 75 miliardi di dollari inviati per aiuti militari, finanziari ed umanitari, è sempre più un dubbio la possibilità che questo livello di aiuti possa continuare, nonostante Biden e i suoi consiglieri continuino a ripetere l'impegno che Washington sosterrà Kiev "per tutto il tempo necessario".

Con le elezioni del 2024 ormai alle porte, e con Donald Trump che non nasconde il suo scetticismo sugli aiuti a Kiev, ha recentemente apprezzato le lodi di Vladimir Putin e promette di chiudere il conflitto, che con lui alla Casa Bianca non sarebbe mai esploso, in pochi giorni, il problema prima che economico appare come politico, con il presidente Biden che sembra stentare a convincere i sempre più scettici repubblicani che l'interesse nazionale americano coincida con l'assicurare che Mosca non vinca la guerra.

Il nuovo pacchetto di aiuti militari, che comprende bombe di artiglieria, equipaggiamento di difesa aerea, missili anti-carro e munizioni per fucili, fa parte dei cosiddetti "drawdown", cioè i prelievi che l'amministrazione anche nei mesi scorsi ha fatto dagli arsenali del Pentagono, senza dover quindi dover chiedere l'autorizzazione del Congresso, ma è l'ultimo - ammettono dalla Casa Bianca - senza lo sblocco degli altri fondi che sono necessari per avviare la produzione di nuove armi da parte dell'industria bellica Usa, un processo che potrebbe richiedere anni.

Il colonnello Garron Garn, portavoce del Pentagono, ha spiegato chiaramente che sono finiti i fondi con cui la Difesa sostituisce le armi inviate a Kiev con queste donazioni. "Senza i fondi supplementari chiesti al Congresso, ci saranno dei vuoti nei rifornimenti degli arsenali Usa che potranno avere effetti sulla prontezza militare americana", ha poi avvisato, senza però dire se l'amministrazione Biden intenda fare altre donazioni a Kiev anche in assenza dei fondi per rifornire gli arsenali.

Lo scenario

La prospettiva è quella di una guerra di logoramento. Nelle ultime ore il presidente della Lituania, Gitanas Nauseda, ha detto che, poiché l'Ucraina non raggiunge i suoi obiettivi nella tanto annunciata controffensiva contro la Russia, l'anno prossimo si tornerà ad una "estenuante" guerra di posizione.

"Ci aspettavamo che la controffensiva dell'Ucraina fosse diversa", ha riconosciuto il presidente lituano in alcune dichiarazioni al portale d'informazione baltico Delfi. "Ora torneremo allo 'status quo' e sarà ancora una volta una guerra di posizione, estenuante", ha detto. "Si conteranno le perdite di entrambe le parti e alla fine aspetteremo finché uno dei due Paesi raggiungerà il punto in cui la guerra non potrà più continuare", ha previsto Nauseda, che ritiene che ora la Russia cercherà di prendere l'iniziativa.

"La Russia, ovviamente, può mobilitare risorse senza tenere conto dell'opinione del proprio popolo, può mobilitare le persone e indirizzare tutto verso fini militari. Le capacità di altri Stati sono più limitate, perché sono società democratiche", ha spiegato il presidente lituano.

Nauseda ha chiarito che un ipotetico progresso significativo da parte della Russia l'anno prossimo significherebbe una sconfitta definitiva per l'Ucraina. "Stiamo parlando di uno scenario di guerra sfavorevole per l'Ucraina", ha spiegato.

D'altra parte, ha avvertito che la Russia potrebbe proporre uno scenario di presunti negoziati, con l'intenzione di ricostituire le forze e "attaccare nuovamente con maggiore vigore" in seguito. Nauseda ha inoltre legato ogni iniziativa in merito ad una possibile decisione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

"L'ultima parola sull'avvio dei negoziati dovrebbe spettare all'Ucraina. Un Paeese che ha fatto così tanti sacrifici e perso così tanto ha il diritto morale di decidere in modo indipendente se avviare negoziati e a quali condizioni negoziare. Nessun altro può avere voce decisiva in questa materia", ha rimarcato.

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Milei chiama “corrotta” la moglie di Sanchez,...

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Madrid: "Gravissime le parole del presidente argentino alla convention di Vox"

Javier Milei (Afp)

"Gravissime" le parole del presidente argentino Javier Milei, che alla convention del partito di estrema destra spagnolo Vox oggi a Madrid ha definito "corrotta" Begona Gomez, la moglie del premier Pedro Sanchez. Per questo il governo spagnolo ha richiamato per consultazioni "sine die" l'ambasciatrice in Argentina, María Jesús Alonso. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri Josè Manuel Albares, affermando che l'esternazione del presidente di estrema destra argentino "non ha precedenti nella storia delle relazioni internazionali", e ha chiesto da Milei "le scuse" per il suo attacco.

Durante il suo intervento alla convention 'Europa Viva 24', Milei ha detto: "Non sanno che tipo di società e di Paese il socialismo può produrre e che tipo di gente frega al potere e quali livelli di abuso può generare. Anche se la moglie è corrotta, diciamo sporca, si prende cinque giorni di tempo per pensarci".

Le parole del presidente populista argentino si riferiscono al fatto che Sanchez alla fine del mese scorso aveva annunciato di voler prendere del tempo per riflettere sulle possibili dimissioni dopo le accuse di corruzione rivolte alla moglie da un sindacato dell'ultra destra. Accuse archiviate come infondate nel giro di pochi giorni dalla procura di Madrid.

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Iran, poteri al vice presidente ed elezioni entro 50...

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I timori di un epilogo drammatico crescono ora dopo ora e gli osservatori analizzano lo scenario che si aprirà in caso di eventuale scomparsa di Raisi

Teheran (Afp)

L'Iran attende con il fiato sospeso notizie dal luogo dell'incidente dell'elicottero con a bordo il presidente, Ebrahim Raisi, e il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian. I timori di un epilogo drammatico crescono ora dopo ora e gli osservatori analizzano lo scenario che si aprirà in caso di eventuale scomparsa di Raisi. La Costituzione iraniana, in caso di morte improvvisa del presidente, prevede che ne assuma i poteri il primo vice presidente - che ora è Mohammad Mokhber - con l'approvazione della Guida Suprema, Ali Khamenei.

Secondo la gerarchia politica della Repubblica islamica, il capo dello Stato è la Guida e il presidente è considerato il capo del governo ed il secondo nella linea di comando. La Costituzione stabilisce inoltre, con in carica il primo vice presidente, che entro 50 giorni il Paese vada alle elezioni per eleggere un nuovo presidente.

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Raisi, il discepolo di Khamenei con ombre nel passato

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Venne eletto presidente al primo turno delle elezioni del 18 giugno 2021 con quasi 18 milioni di voti

Ebrahim Raisi (Fotogramma/Ipa)

Nato nel 1960 a Mashad, la seconda città più importante dell'Iran, Ebrahim Raisi - a bordo dell'elicottero da ore oggetto di ricerche delle squadre di soccorso nella provincia dell'Azerbaigian orientale - venne eletto presidente al primo turno delle elezioni del 18 giugno 2021 con quasi 18 milioni di voti (il 61,9% delle preferenze). E' stato studente di teologia e giurisprudenza islamica della Guida Suprema, Ali Khamenei. Appena ventenne - sulla scia degli eventi della rivoluzione - venne nominato procuratore generale di Karaj, uno dei sobborghi di Teheran.

Procuratore capo della capitale dal 1989 al 1994, vice capo della magistratura dal 2004, poi procuratore generale, nel 2016 Raisi venne messo da Khamenei a capo della 'Astan Quds Razavi', una delle più grandi fondazioni religiose del Paese che sovrintende al santuario dell'Imam Reza di Mashad. Tre anni dopo divenne capo della magistratura. Fa parte dell'Assemblea degli Esperti, l'organo che elegge la Guida Suprema.

Sposato con Jamileh Alamolhoda, docente all'Università Shahid Beheshti di Teheran, e padre di due figlie, può vantare anche un legame di parentela (è il genero) con la guida della preghiera del venerdì a Mashad, l'influente ayatollah Ahmad Alamolhoda. Sanzionato dall'Amministrazione Trump per i suoi presunti abusi nel campo dei diritti umani, per l'opposizione all'estero è legato indissolubilmente alla cosidetta 'commissione della morte', un tribunale speciale voluto dall'ayatollah Khomeini in persona che nel 1988 condannò al patibolo - secondo il Center for Human Rights in Iran - migliaia di prigionieri politici iraniani.

Intervistato sulle purghe, Raisi negò qualsiasi coinvolgimento e alla sua prima conferenza stampa dopo le elezioni sostenne di aver "sempre" difeso i "diritti umani". Assai più intransigente si mostrò verso gli attivisti dell'Onda Verde che nel 2009 protestavano contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. "A coloro che parlano di 'compassione islamica e perdono', noi rispondiamo: continueremo ad affrontare i rivoltosi fino alla fine e - diceva - sradicheremo questa sedizione".

Il 19 giugno, giorno della conferma della sua vittoria alle presidenziali, promise di fare del suo "meglio per migliorare i problemi della popolazione" e due giorni dopo rispose con un secco "no" a un giornalista che gli chiedeva se fosse disposto a incontrare il presidente americano Joe Biden.

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