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Agricoltori e imprenditori lavorano più di tutti: l’analisi in Ue e in Italia

Dai dati Eurostat del 2023, emerge una grande differenza tra i Ventisette nelle ore lavorate ogni settimana: si va dalle 39,8 ore dei greci alla media di 32,2 ore di olandesi e austriaci.

Questi godono della settimana lavorativa più breve tra tutti i Paesi Ue, seguiti dai tedeschi con 34 ore. L’Italia si allinea perfettamente con la media europea, registrando 36,1 ore settimanali. In cima alla classifica delle ore lavorate troviamo invece i greci, con 39,8 ore settimanali, seguiti dai polacchi a 39,3 ore e dai bulgari, con una media di ore lavorate per settimana pari a 39.

Prima che vi sentiate (giustamente) estraniati da questi numeri, bisogna specificare che il conteggio Eurostat tiene conto del monte ore annuale suddividendolo allo stesso per ogni settimana, quindi, include anche i giorni e le settimane non lavorate per ferie, permesso, congedi e malattia. La ricerca si concentra sull’occupazione principale degli intervistati nella fascia di età 20-64 anni

I settori dove si lavora di più

C’è un confronto che non verrà mai meno, almeno in Italia. Quel bisogno di affermare la propria operosità per cui “se tu hai lavorato tanto, io ho lavorato di più”.
Può essere utile capire quali siano i settori dove, in Europa, si lavora di più:

agricoltura, silvicoltura e pesca, con una media di 41,5 ore settimanali;
estrazione mineraria con 39,1 ore;
edilizia con 38,9 ore.

La settimana lavorativa più corta viene registrata tra i datori di lavoro con un monte ore settimanale pari a 26,7 ore lavorate. Per quanto riguarda i settori, quelli dove si lavora meno ore sono:

istruzione (31,9 ore);
attività artistiche, di intrattenimento e ricreative (33 ore).

Differenze tra i Paesi Ue

Nel 2023, il 37,1% degli occupati nell’Unione Europea ha lavorato tra le 40 e le 44,5 ore settimanali. Solo il 7,1% ha registrato meno di 20 ore settimanali nel proprio lavoro principale.
La fascia di 40-44,5 ore settimanali rappresenta la quota maggiore nella maggior parte dei Paesi, eccetto Irlanda, Finlandia, Belgio, Francia e Danimarca, dove è più frequente lavorare tra le 35 e le 39,5 ore a settimana.

Le differenze più significative sulle ore lavorate si trovano proprio nella fascia 40-44,5 che in Bulgaria riguarda l’82,2% dei lavoratori, in Romania l’80,2% e in Lettonia il 77,7% contro la media europea del 37,1%, mentre in Belgio (16,1%), Francia (13,3%) e Danimarca (10,6%) si registrano le quote più basse.

Differenze di genere

Anche l’analisi Eurostat 2023 denota il problema del gender gap lavorativo.
Mediamente, in Ue gli uomini impiegati a tempo pieno lavorano 39,8 ore settimanali, rispetto alle 37,8 ore delle donne. Disparità che poi si riversano sui salari e spesso derivano da esigenze di cura domestiche. Secondo i dati Ocse, citati da Openpolis nel terzo trimestre 2023, le donne impiegano mediamente 4,73 ore al giorno per il lavoro domestico e di cura, gli uomini solo 1,84 ore.

La forbice più ampia si riscontra in Irlanda, dove gli uomini lavorano 40,5 ore settimanali contro le 36,5 delle donne. Nei Paesi Bassi, gli uomini lavorano 38,8 ore settimanali rispetto alle 35,2 delle donne, mentre in Grecia gli uomini lavorano 42,5 ore settimanali contro le 39,3 delle donne. Secondo i numeri dell’Istituto europeo di statistica, nel 2023 in Italia gli uomini hanno lavorato mediamente 40,2 ore settimanali rispetto alle mentre le donne 37 delle donne. Forbice più stretta a Cipro, dove gli uomini lavorano 41,3 ore settimanali contro le 38,8 delle donne.

Gender gap occupazionale

Il monte ore e il part-time forzato è solo un aspetto del problema. L’altro riguarda il gender gap occupazionale in senso stretto. Secondo un’elaborazione Openpolis sui dati Eurostat pubblicata a settembre 2023, in Europa risulta occupato l’80% degli uomini contro il 69,3% delle donne. Il gender gap medio è quindi del 10,7%, ma ci sono molte differenze tra i Ventisette.

Il record negativo spetta alla Grecia con il 21% di differenza occupazionale tra uomini e donne. L’Italia segue a ruota con 19,7% che è il doppio delle media europea. Meglio del Belpaese la Romania che registra il 18,6%. Tra i Paesi più virtuosi ci sono invece quelli scandinavi e baltici: in testa Lituania (0,8%) e Finlandia (1,2%) e a seguire Estonia (2,9%) e Lettonia (3,1%).

Il gender gap in Italia

Un altro dato interessante in chiave demografica emerge dall’elaborazione Openpolis: in 22 Stati europei su 27, le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo figlio. E, soprattutto, i Paesi con le peggiori performance di natalità sono anche quelle con i minori tassi di occupazione femminile.

Una statistica che si intreccia con quella del part-time e delle dimissioni delle mamme in Italia.
Secondo i dati del report lavoro elaborato dalla Cisl a marzo 2024, il part-time riguarda il 7% degli occupati uomini, ma il 31,1% delle donne occupate. Insomma, in Italia il lavoro a tempo parziale (con tutte le sue conseguenze contributive e retributive) incide sulle donne oltre quattro volte in più rispetto agli uomini.

Con l’aggravante che anche le donne che scelgono volontariamente il part time lo fanno perché è spesso l’unico strumento di conciliazione a causa degli insufficienti servizi per la natalità e dei salari spesso troppo basi per potersi permettere una baby-sitter. l divario si allarga quando si parla di dimissioni come mostra la relazione annuale 2022 sulle dimissioni presentate entro i primi tre anni dalla nascita dei figli.

Che a licenziarsi siano soprattutto le donne neomamme lo conferma il 72,8% dei provvedimenti, pari a 44.669 dimissioni convalidate. La parte peggiore riguarda la causa: il 63% delle dimissioni rosa si basa sulla difficile conciliazione tra la cura dei figli e il lavoro, causa che tocca gli i papà solo nel 7,1% dei casi.

Altri dati del rapporto corroborano la tesi. La fascia d’età 29-44 anni occupa quasi l’80% dei destinatari delle convalide e quasi il 60% dei provvedimenti riguarda mamme e papà con un solo figlio o in attesa del primo. Le percentuali inferiori in presenza del secondo o terzo figlio dimostrano che all’aumentare del numero dei bambini peggiorano le condizioni di stabilità lavorative, ma che la sola prima maternità è sufficiente a mettere in crisi le donne che scelgono di diventare mamme.
Non è un caso che l’Italia abbia il tasso di fecondità più basso d’Europa (1,2 figli per donna), insieme a Spagna e Malta.

Chi lavora di più tra imprenditori e dipendenti?

Un dato curioso dell’indagine Eurostat 2023 riguarda le tipologie di lavoratori, intesi come dipendenti, lavoratori autonomi senza dipendenti e imprenditori con dipendenti.
La differenza di ore lavorate è molto grande:

gli imprenditori che hanno assunto dei dipendenti sono i più impegnati in assoluto e lavorano una media di 47 ore settimanali in ufficio;
poi ci sono i lavoratori autonomi senza dipendenti, che però sono molto distaccati dagli imprenditori con dipendenti e lavorano in media 40,4 ore a settimana;
i dipendenti, invece, si attestano sulle 36,6 ore settimanali.

Infine, bisogna considerare il dato secondo cui gli italiani sono tra i più stacanovisti d’Europa. Il dato, anche questo fornito dall’Eurostat sul 2023, è solo in apparenza una contraddizione. Lo studio in questione non misura la media di ore lavorate per settimane, ma quante persone facciano orari straordinari.
Il risultato è che gli italiani più stacanovisti sono i lavoratori autonomi: secondo la ricerca, quasi un autonomo su tre (29,3%) dichiara di lavorare 49 ore settimanali. Più in generale, a superare la soglia del normale orario di lavoro sono il 46% degli autonomi italiani contro il 41,7% della media dei “colleghi” europei (qui per approfondire l’indagine).

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Anche gli zii hanno la loro festa

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Immaginate una vita senza zii. Chi sarebbe lì per viziarci, raccontarci storie incredibili e offrirci consigli saggi quando ne abbiamo più bisogno? Chi ci fornirebbe quella combinazione unica di amore incondizionato e divertimento spensierato che solo uno zio o una zia può offrire? Ecco perché, ogni anno, alla quarta domenica di luglio, celebriamo la Giornata Mondiale degli Zii, un’occasione per riconoscere e apprezzare questi straordinari membri della famiglia.

La Giornata Mondiale degli Zii

La Giornata Mondiale degli Zii nasce nel 2009 grazie alla scrittrice canadese Melanie Notkin, autrice del libro “Otherhood”. In questa opera, Notkin ha coniato il termine “PANK”, acronimo di Professional Aunts No Kids, ossia “Zia di professione senza figli”. Un termine che ha rapidamente guadagnato popolarità a livello globale, sottolineando l’importanza e l’unicità del ruolo delle zie nella società moderna.

Il titolo del libro “Otherhood” è un intelligente gioco di parole con “parenthood” (genitorialità), suggerendo che gli zii possono essere considerati come secondi genitori. Il personaggio della saggia zia Savvy, presente nel libro, incarna perfettamente questo concetto, offrendo consigli e supporto ai nipoti senza mai interferire nel rapporto che essi hanno con i loro genitori.

L’impatto delle PANK nella società

La creazione della Giornata Mondiale degli Zii da parte di Melanie Notkin ha portato alla nascita di un movimento che celebra e valorizza il ruolo degli zii nella vita dei nipoti. La sedicesima edizione ufficiale dell’Auntie’s Day si terrà domenica 28 luglio 2024, un appuntamento annuale che riconosce, onora e celebra le zie di sangue e di cuore, le madrine e tutte le donne che amano un bambino non loro.

Un’indagine di qualche anno sulla ‘Generazione PANK’, ha rivelato che il 91% delle Professional Aunts No Kids considera il ruolo di zia “molto importante” mentre l’89% afferma che l’esperienza di essere zia è ancora migliore di quanto si aspettassero. Tuttavia, solo il 28% delle PANK si sente apprezzata dalla società per il ruolo significativo che svolge nella vita dei bambini e nella comunità familiare.

Le zie offrono un supporto fondamentale, aiutando a sviluppare i nipoti attraverso il legame e il gioco. Sono spesso conosciute per i regali e le esperienze uniche che offrono ai bambini, contribuendo anche all’educazione e al benessere economico delle famiglie. Uno studio ha stimato che le PANK spendono collettivamente circa 61 miliardi di dollari all’anno per i bambini che amano, estendendo la loro generosità ben oltre i semplici regali.

Nonostante il loro contributo significativo, le zie rimangono spesso una figura nascosta e poco apprezzata nella società. La Giornata degli Zii è stata creata per mettere in luce questo gruppo di donne amorevoli e generose e per dare loro il riconoscimento che meritano.

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Elon Musk, la figlia transgender è morta? Solo per lui

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La figlia transgender di Elon Musk, Vivian Jenna Wilson, ha denunciato pubblicamente i gravi comportamenti avuti dal padre durante la sua infanzia. Nella sua prima intervista, rilasciata a NBC News, Wilson ha accusato il magnate di essere stato un padre assente e crudele che non ha mai accettato l’orientamento queer di sua figlia.

Elon Musk contro la figlia transgender: cosa ha detto

A far scaturire tutto è stato lo stesso Musk che lunedì scorso, 22 luglio, ha parlato della loro relazione in un’intervista video con lo psicologo e commentatore conservatore Jordan Peterson, trasmessa in diretta su X.
In questa occasione, il Ceo di Tesla ha affermato di non supportare l’identità di genere di Wilson: “Ho perso mio figlio, essenzialmente”, ha detto Musk. Per lui la figlia è “morta, uccisa dal virus della mente woke”.

Musk, padre di dodici figli, ha anche affermato di essere stato “ingannato” quando gli è stata chiesta l’autorizzazione a un trattamento medico transgender per Wilson, all’epoca 16enne.

La risposta di Vivian Jenna Wilson

In seguito a queste gravi dichiarazioni, Wilson ha deciso di rompere il silenzio. Per prima cosa, ha smentito il padre: “Non è stato affatto ingannato. Conosceva tutti gli effetti collaterali” ha ribattuto la giovane ragazza, sottolineando che il consenso dei genitori era necessario per procedere con il trattamento.

Ma sono state soprattutto le affermazioni di totale disconoscimento della figlia ad aver spinto Wilson ad agire: “Penso che lui desse per scontato che non avrei detto niente e che avrei lasciato correre, senza essere contestato. – ha spiegato – Cosa che non farò perché se menti su di me, tipo, sfacciatamente a un pubblico di milioni di persone, non lascio correre.”

L’infanzia difficile di Wilson e il padre assente

Il suo astio, la sua rabbia sono indicative della difficile infanzia avuta da Vivian Jenna Wilson, oggi 20enne. Raccontando le sue esperienze dolorose, Wilson ha svelato il lato oscuro di Musk. Ha raccontato che il padre era raramente presente nella sua vita, lasciando lei e i suoi fratelli sotto la cura della madre o delle tate, nonostante la custodia congiunta: “Era con noi forse il 10% del tempo, e mi sto tenendo larga”, ha spiegato la giovane ragazza.

“Era freddo”, “Si arrabbia molto facilmente. È indifferente e narcisista”. E quando era presente, la rimproverava. Il magnate ha sempre mostrato un forte risentimento nei confronti della figlia, di cui non ha mai accettato il percorso di transizione.

Nell’intervista telefonica all’emittente americana, Wilson ha anche riportato episodi di molestie verbali da parte di Musk, che la rimproverava per il suo comportamento femminile sin dalla tenera età. “Ero in quarta elementare… e lui continuava a urlarmi contro in modo feroce perché avevo la voce troppo alta,” ha raccontato Wilson. “È stato crudele”.

Un rapporto così viziato che, per la ragazza, la pandemia è stata una manna dal cielo. Wilson ha raccontato che il lockdown è stata l’opportunità per sfuggire alla crudeltà di Musk, permettendole di vivere sempre con sua madre. È stata una delle prime cose a cui ha pensato.

I due coming out e il cambio di cognome

Wilson ha rivelato di aver fatto coming out due volte: una volta come gay in seconda media e una seconda volta come transgender a 16 anni. Come per tutte e per tutti coloro che iniziano questo percorso, anche per lei non è stato facile prendere la decision di iniziare il trattamento per la disforia di genere. Un percorso reso ancora più difficile dall’opposizione del padre: Wilson ha ottenuto il necessario consenso di entrambi i genitori, solo dopo mesi di insistenza. è stata difficile il necessario consenso di entrambi i genitori solo dopo mesi di insistenza. “Ci ho provato per mesi, ma lui ha detto che dovevo incontrarlo di persona” ha detto spiegando che “A quel punto, era molto chiaro che entrambi nutrivamo profondo disprezzo l’uno per l’altra”.

Non a caso, porta un cognome diverso da quello del padre. La sua storia ha iniziato ad attirare l’attenzione due anni fa, quando ha chiesto al tribunale della California l’approvazione per cambiare cognome. “Non vivo più con il mio padre biologico e non desidero più essere imparentata con lui in alcun modo, forma o aspetto”, ha affermato nella documentazione depositata in tribunale. Wilson non si aspettava tutto quel clamore mediatico in seguito alla sua decisione.

Oggi non solo riscriverebbe le frasi condivise con il tribunale, ma, alla luce del clamore dato alla notizia, sarebbe ancora più esplicita.

Vivian Jenna Wilson e il percorso di transizione

Il fondatore di SpaceX, notoriamente vicino a Donald Trump, ha persino attribuito la transizione di sua figlia alle proprie posizioni conservatrici. Una teoria che Wilson respinge con forza, spiegando che il trattamento ricevuto le ha permesso di avere la vita che voleva, nonostante i numerosi ostacoli burocratici e personali.

Wilson ha anche criticato la biografia di Musk scritta da Walter Isaacson, definendola inaccurata e ingiusta nei suoi confronti, e ha sottolineato di non essere mai stata contattata direttamente dall’autore prima della pubblicazione.

La figlia di Elon Musk ha concluso l’intervista sottolineando la sua volontà di definire la propria vita e identità senza l’influenza di suo padre: “Vorrei sottolineare una cosa: sono un’adulta. Ho 20 anni. Non sono una bambina,” ha detto. “La mia vita dovrebbe essere definita dalle mie scelte.”

Le controverse posizioni di Musk

Negli ultimi anni, Musk, che a dicembre ha partecipato al Festival di Atreju di Fratelli d’Italia, ha preso una svolta radicale verso la politica conservatrice, conducendo una campagna contro le persone transgender e le politiche progettate per supportarle. Questo mese, ha dichiarato che avrebbe ritirato le sue attività dalla California per protestare contro una nuova legge statale che impedisce alle scuole di richiedere che i bambini transgender facciano coming out con i loro genitori.

Wilson ha dichiarato alla NBC News che per anni aveva pensato di parlare apertamente del comportamento di Musk come genitore e come persona, ma che non poteva più rimanere in silenzio dopo i commenti fatti dal magnate lunedì scorso, in diretta su X.

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Sentenza sui conviventi, cosa cambia per le imprese...

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Cosa significa la sentenza sui conviventi emanata ieri, 25 luglio 2024, dalla Corte costituzionale? Sicuramente una svolta significativa nella tutela dei diritti dei conviventi di fatto.
Con la sentenza n. 148 del 2024 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme che non equiparavano i conviventi di fatto ai familiari, escludendoli così dai benefici riconosciuti a questi ultimi nell’ambito dell’impresa familiare.

La sentenza n. 148 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile, nella parte in cui non includeva i conviventi di fatto tra i familiari che collaborano nell’impresa familiare. Di conseguenza, è stata dichiarata illegittima anche la disposizione dell’art. 230-ter del Codice civile, introdotta dalla legge n. 76 del 2016 (legge Cirinnà), che prevedeva una tutela significativamente ridotta per i conviventi di fatto.

Si è stabilito che il convivente di fatto è un familiare ed è impresa familiare quella con cui collabora.

Come si è arrivati alla sentenza sui conviventi di fatto

La questione è stata portata all’attenzione della Consulta dalla Corte di cassazione alla quale aveva fatto ricorso la convivente di un uomo deceduto. La donna aveva agito in giudizio nei confronti dei figli e coeredi, chiedendo al Tribunale di primo grado di inquadrare l’azienda agricola in cui lavorava come impresa familiare. Da convivente, la donna rivendicava il diritto ad ottenere la liquidazione della sua quota come partecipante all’impresa, per il periodo in cui aveva lavorato nell’azienda di famiglia. Esattamente come accade per i familiari, insomma.

Attenendosi all’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile, il Tribunale di primo grado aveva rigettato l’istanza della donna. Sulla stessa linea si era mossa la Corte d’appello. D’altronde la norma teneva ben distinte le figura del convivente di fatto da quella del familiare; una decisione diversa non sarebbe rientrata neanche nei ranghi di una interpretazione estensiva della norma.

Definizione di conviventi di fatto

Secondo la legge Cirinnà (art. 1, comma 36), i conviventi di fatto sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”. Questa definizione è stata cruciale nel riconoscimento dei loro diritti nell’ambito dell’impresa familiare, ponendo fine a una disparità di trattamento che non era più giustificabile alla luce delle evoluzioni sociali e giuridiche.

Da qui il ricorso della donna alla Suprema corte, con specifico riferimento alla “mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale”.

Nella società moderna, si può trattare diversamente un convivente che magari ha condiviso anni di vita insieme, solo perché i due non sono sposati?

Di fronte a questa richiesta, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno passato la questione alla Consulta, sollevando questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare. La Suprema Corte ha chiesto ai colleghi della Consulta se escludere il convivente di fatto dal novero dei familiari violasse o meno gli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione.

La risposta della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione, sottolineando come la società italiana sia profondamente cambiata e come la normativa debba evolversi di conseguenza. In questo senso, ricordano i giudici, si sono già adeguate la normativa nazionale e la giurisprudenza costituzionale anche a livello europeo.

La necessità di offrire una protezione speciale al lavoro nell’impresa familiare è stata già parzialmente realizzata con l’articolo 230-bis del Codice civile. Questa disposizione, introdotta con la riforma del diritto di famiglia del 1975, ha un’ampia applicazione, coprendo non solo il coniuge e i parenti stretti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado. Nel 2016, con la legge Cirinnà, a questo elenco sono stati aggiunti anche i soggetti legati da unioni civili.

La Corte costituzionale ha ora stabilito che la cosiddetta “affectio maritalis”, ovvero l’affetto che caratterizza una relazione stabile, attenua l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e va riferita anche al convivente di fatto.

Questo riconoscimento implica che, nonostante le differenze formali rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali come il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione devono essere garantiti anche ai conviventi di fatto, senza discriminazioni.

Una sentenza storica che mira a prevenire situazioni di lavoro gratuito o sottopagato, garantendo una tutela equa a chi contribuisce all’impresa con il proprio lavoro.

Quante imprese familiari ci sono in Italia?

La sentenza acquisisce particolare rilievo perché l’Italia è un Paese fortemente ancorato alle imprese familiari.

Secondo i dati Istat, nel 2022 le imprese italiane controllate da una persona fisica o una famiglia erano più di 820mila, ovvero l’80,9% del totale delle imprese con almeno 3 addetti. Una percentuale molto elevata e in crescita rispetto al 2018, quando le imprese familiari costituivano il 75,2% di quelle con almeno tre dipendenti.

Le imprese familiari sono particolarmente diffuse tra le microimprese (83,3% dei casi) e meno frequente tra le piccole (74,5%), le medie (58,8%) e tra le grandi aziende (41,6%).
A livello settoriale, le imprese familiari sono più diffuse tra le imprese manifatturiere (81,2%), nel comparto delle costruzioni (82,4%), con una forte presenza anche nel comparto dei servizi, raggiungendo l’84,4% nel commercio e l’87,3% nel comparto dell’alloggio e ristorazione.

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