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Buoni pasto e welfare irrinunciabili per 7 italiani su 10

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Se l’equilibrio vita-lavoro diventa sempre più importante mentre i salari italiani restano al palo, aumenta il peso del welfare aziendale e dei fringe benefit riconosciuti dall’azienda.

Per 7 lavoratori italiani su 10 buoni pasto e piano welfare sono ormai requisiti irrinunciabili nella scelta del lavoro.

Il dato emerge dall’indagine BVA Doxa sul sentiment dei lavoratori, a corredo del rapporto annuale

dell’Osservatorio Welfare di Edenred Italia che fotografa lo stato del welfare aziendale nel Paese. Prima di approfondire i risultati delle ricerche, giova sottolineare che l’adozione dei fringe benefit da parte delle aziende si è dimostrata correlata all’andamento dei consumi perché questi benefit, sotto forma di buoni, offrono ai lavoratori un’opportunità per aumentare il proprio potere d’acquisto in diversi settori.

Welfare aziendale in crescita

Il panorama del welfare in Italia nel 2023 è stato caratterizzato da una costante crescita, soprattutto per quanto riguarda la spesa, con un notevole aumento dell’utilizzo dei fringe benefit da parte dei beneficiari. I dati emergono dall’Osservatorio Welfare 2024 presentato ieri a Milano durante il Welfare Forum organizzato da Edenred Italia.
L’azienda leader nel campo degli employee benefit riporta che, nel 2023, il credito welfare pro capite ha registrato un valore medio di 910 euro, in aumento rispetto agli 850 euro del 2021 ma in leggero calo rispetto ai 940 euro del 2022, anno influenzato dall’aumento temporaneo del limite di spesa per i Fringe Benefit a 3.000 euro, misura non confermata per il 2023.

Nello specifico:

Il 54% del campione ha beneficiato di un’erogazione fino a 500 euro;
Il 19% ha ricevuto un importo compreso tra i 500 e i 1.000 euro;
Il 16% ha ottenuto un’assegnazione tra i 1.000 e i 2.000 euro;
Il 6% ha avuto un’assegnazione tra i 2.000 e i 3.000 euro;
Solo il 5% ha ricevuto un importo superiore ai 3.000 euro.

Guardando ai settori economico-produttivi, emerge una maggiore spesa nel comparto dei servizi finanziari con 1.683 euro pro capite, seguito dai servizi professionali con 1.181 euro e dal settore immobiliare con 1.117 euro. Nel complesso dell’industria e del manifatturiero, la spesa media si attesta sui 693 euro.

Nel 2023, l’80% del credito disponibile è stato utilizzato, con il restante 20% non impiegato. Tra le voci di spesa, prevalgono i fringe benefit, rappresentando il 31,8% del totale, seguiti dall’area ricreativa con il 29,5%. Le spese sociali, come istruzione, previdenza integrativa, assistenza sanitaria e assistenza familiare, insieme compongono il 34,8% della spesa totale. In particolare, si osserva un notevole aumento nella spesa per i fringe benefit e l’area ricreativa, che rappresentano insieme il 61% della spesa complessiva nel 2023, mentre si registra una riduzione della spesa per l’istruzione nel medesimo arco temporale.

Buoni pasto indispensabili

L’indagine di BVA Doxa che misura il sentiment dei lavoratori sul welfare aziendale evidenzia che buoni pasto e piano welfare sono diventati requisiti irrinunciabili nella scelta del lavoro. Ma quanto sono sviluppati nelle aziende italiane?

Il 42% dei dipendenti conferma che la propria azienda ha adottato un piano di welfare strutturato, anche se questa percentuale cambia a seconda del contesto:

Welfare più sviluppato nelle grandi aziende: tra quelle con oltre 1.000 dipendenti, il 53% ha un piano di welfare;
Welfare più sviluppato nel settore privato (51% del totale) e nelle regioni del Nord Italia (46%).

Nello specifico, i buoni pasto restano l’opzione più gradita dai lavoratori e più utilizzate dalle aziende, anche se utilizzata da meno della metà:

Il 41% dei dipendenti riceve buoni pasto, con un valore medio di poco inferiore ai 7 euro;
I buoni pasto rimangono il benefit più diffuso, seguiti dai servizi per la salute (31%) e dalle convenzioni e scontistiche (25%);
La metà dei dipendenti ritiene i buoni pasto il benefit più utile, seguiti dai buoni benzina (41%) e dai servizi per la salute (38%);
7 intervistati su 10 considerano i buoni pasto un benefit irrinunciabile nella scelta del lavoro futuro, insieme a un piano di welfare vantaggioso che rappresenta un’opportunità interessante per il 68% del campione.

Il 75% degli intervistati ritiene molto valido l’uso dei buoni pasto come strumento che aumenta il coinvolgimento dei dipendenti, e migliora il rapporto con l’azienda, fattore cruciale in questo periodo di nuove esigenze per i lavoratori.

Poca diffusione, tanta consapevolezza

Un recente studio commissionato da Edenred Italia e condotto da The European House – Ambrosetti, ha disegnato uno scenario particolare. Infatti, anche se solo il 28% delle 273 aziende intervistate ha offerto ai propri dipendenti fringe benefit, ben il 96% delle aziende li considera come un acceleratore di benessere e inclusione per i dipendenti.

C’è anche un problema di pari trattamento: il 40% ha scelto di non adottarli, temendo possibili disuguaglianze e malcontento tra i lavoratori, così come quattro intervistati su cinque ritengono fondamentale che le soglie di esenzione siano uniformi per tutti i dipendenti. Sul punto, la Legge di Bilancio per il 2024 ha aumentato la soglia massima di detassazione per i dipendenti senza figli a carico, portandola da 258,23 a 1.000 euro, e ridotto quella per i dipendenti con figli a carico, abbassandola da 3.000 a 2.000 euro. Questa soglia rappresenta il beneficio concreto per l’azienda, il massimo importo non sottoposto a tassazione.

Burnout? No, piano welfare

Il 76% dei lavoratori riferisce di aver provato almeno un sintomo di burnout nella sua carriera. Secondo una indagine dell’Unicusano di settembre scorso, ben 9 italiani su 10 hanno manifestato profonda insofferenza per il proprio lavoro, decidendo nel 43% dei casi di abbandonarlo, nel 97% dei casi senza un “piano B”.

A soffrirne sono maggiormente le donne e i giovani sotto i 27 anni: il 77% di loro ha deciso di rinunciare a contratto e carriera professionale in cambio di una maggiore libertà personale. Dall’altra parte, c’è chi lavora troppo: i dati Eurostat fotografano la situazione degli italiani stacanovisti, con uno su dieci che lavora 49 ore a settimana o più. Incidono su questi dati la necessità di guadagnare di più a fronte degli stipendi troppo bassi, ma anche la scarsa produttività del sistema e la carenza di dipendenti, aggravata dalla crisi di competenze.

L’indagine BVA Doxa dimostra che i dipendenti che fruiscono di piani di welfare segnalano un elevato benessere lavorativo ed emotivo. Il 62% indica nel sentirsi responsabilizzato il valore più importante, seguito dal sentirsi apprezzato (52%) e coinvolto (51%) e il 68% dei dipendenti ritiene molto rilevante l’impatto della condizione lavorativa sul benessere mentale e psicologico, una percentuale che sale notevolmente tra coloro che hanno un elevato benessere (87%) e la Generazione X (71%).

Qui puoi approfondire il tema del welfare aziendale e le sue ricadute demografiche

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Istat, 74,5% vede futuro in coppia a prescindere da...

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Vivere in coppia, a prescindere dal matrimonio. Lo pensa il 74,5% dei giovanissimi. Solo il 5,1% pensa di divere da solo e gli indecisi solo il 20%. Questo è quanto è emerso dall’indagine ‘Bambini e ragazzi 2023’ dell’Istat. A vedersi principalmente single sono per lo più le ragazze rispetto ai ragazzi. Come differenze altrettanto importanti si leggono tra stranieri e italiani. Il futuro in coppia, per gli stranieri, è una prospettiva del 65,8% e a vedersi da solo da grande è il 7,6%. Ma vediamo insieme cos’è emerso.

Un futuro in coppia?

Chi immagina il proprio futuro con un partner pensa che il matrimonio sia la modalità più diffusa per formare una famiglia (72,5%). Questa percentuale è lievemente superiore per gli stranieri (78,4% contro il 72,0%). Crescendo, però, il desiderio del matrimonio inizia a sfumare e all’aumentare dell’età aumenta anche la quota dei giovanissimi che crede che il matrimonio sia così importante: dal 73,7% tra gli 11-13enni al 70,8% nella classe 17-19 anni.

Tra le ragazze cinesi e marocchine, nello specifico, si registra una minore frequenza di chi ritiene che da grande vivrà in coppia (rispettivamente 39,9% e 56,7%); per le stesse collettività si rilevano anche, le percentuali più alte di coloro che si vedono single da grandi (rispettivamente il 12,7% tra le cinesi e il 12,8% tra le marocchine).

I ragazzi e le ragazze di cittadinanza marocchina evidenziano la percentuale più elevata di giovanissimi che pensano al matrimonio come passaggio nel loro futuro (in entrambi casi con quote oltre l’80%). A fronte di un’età al primo matrimonio che nel 2022 in Italia era di 34,6 anni per gli uomini e di 32,5 anni per le donne, la larga maggioranza (76,9%) dei giovanissimi vorrebbe sposarsi entro i 30 anni e, tra questi, quasi il 21% prima dei 26 anni. Per le ragazze l’incidenza di chi si vuole sposare entro i 30 anni è più alta che per i ragazzi (80,7% e 73,4%). Il 23,2% delle giovani desidera sposarsi prima dei 26 anni.

Per gli stranieri la percentuale di coloro che pensano di sposarsi entro i 30 anni è più elevata che per gli italiani: 81,7% contro 76,5%. Differenze più evidenti si rilevano rispetto alla quota di coloro che vogliono sposarsi prima dei 26 anni, pari al 19,4% tra gli italiani e al 36,8% tra gli stranieri. Anche tra gli stranieri sono soprattutto le ragazze a pensare di sposarsi in giovane età: il 41,9% ipotizza di sposarsi prima di aver compiuto i 26 anni.

Desiderio di genitorialità

Il 69,4% dei ragazzi e delle ragazze dice di volere dei figli, il 21,8% è indeciso e l’8,7% dice di non volerne. Tra le ragazze è leggermente più alta la quota di coloro che non vogliono figli (10,3%). Gli stranieri sono più indecisi degli italiani: 26% contro il 21,4%. Tra i ragazzi e le ragazze cinesi è particolarmente elevata la quota che non vuole figli (15,3%) e quella di indecisi (45,2%); addirittura, tra le sole ragazze cinesi la quota di quelle che non vuole avere figli supera il 24% e quella di indecise sfiora il 46%.

“Il 61,5% dei giovanissimi che pensa di avere figli ne vorrebbe due – scrive l’Istat -, l’8,8% un solo figlio, il 18,2% tre o più, mentre il restante 11,5% pur asserendo di volerne non indica quanti. Per quanto possa sembrare azzardato confrontare le legittime aspirazioni giovanili con la realtà odierna, è utile prendere a riferimento una reale generazione di donne che ha da poco concluso la sua esperienza riproduttiva, le donne nate nel 1973. Tale coorte femminile ha messo al mondo 1,46 figli a testa, tra di loro il 78% ha avuto almeno un figlio. Cosicché il fatto che solo il 69,4% dei giovanissimi abbia espresso di volere dei figli lascia intendere la necessità di dover creare le condizioni affinché almeno una parte di indecisi (21,8%) sia portata a cambiare idea in futuro.

Altro aspetto interessante riguarda la distribuzione per numero di figli avuti. Tra le donne della coorte 1973 il 42% ha avuto un solo figlio, il 28% due e solo l’8% tre o più figli. “Questo – continua l’Istat – conferma quanto già emerso da precedenti indagini, ossia che nel Paese il desiderio di maternità è pressoché stabile nel tempo. Le risposte fornite dalle nuove generazioni rappresentano quindi la conferma che una ripresa della natalità nel nostro Paese è possibile, a patto naturalmente che i desideri espressi possano tradursi in realtà. Per le ragazze l’incidenza di coloro che vogliono tre o più figli è più elevata di quella che si rileva per i ragazzi: 20,7% contro 15,6%. Sia tra gli italiani sia tra gli stranieri sono comunque le ragazze a desiderare un numero più elevato di figli”.

Per quanto riguarda il desiderio di fare figli, l’Istat ha rilevato che la quota di coloro che desidera avere tre o più figli è superiore tra gli stranieri, con un 20,5% contro il 18,1% degli italiani. Il valore generale degli stranieri nasconde però notevoli differenze tra le collettività: l’incidenza di coloro che vogliono tre o più figli arriva al 24,8% per gli albanesi e al 22,7% per i marocchini; per i cinesi si colloca invece al 4,8%, molto al di sotto del valore rilevato anche per gli italiani, rafforzando l’immagine dei giovanissimi cinesi con basse intenzioni di fecondità.

Le aspettative per il futuro, però, si scontrano con un’altra realtà. L’età media delle madri al primo figlio in Italia è pari a 31,6 anni. Questo dato, infatti, non è congruo con i desideri attuali dei giovani che dimostrano, invece, di volere un figlio entro i 30 anni per il 65%, contro un 14,6% che ne vorrebbe uno prima dei 26 anni. Solo il 2,6% colloca la nascita del primo figlio dopo i 35 anni. Per le ragazze la quota di coloro che pensa di avere il primo figlio entro i 30 anni raggiunge il 71,6%. Tra gli stranieri si evidenziano percentuali più alte di ragazzi e ragazze che vogliono diventare genitori prima dei 30 anni e, in particolare, di coloro che collocano la nascita di un figlio tra i 20 e i 25 anni. Tra i ragazzi italiani l’11,4% pensa di diventare padre entro i 25 anni, tra gli stranieri la quota sale al 19%. Per le ragazze italiane la percentuale di coloro che si vedono madri entro i 25 anni è del 16,6%, tra le straniere del 26,2%. Man mano che ci si avvicina però alle età indicate, l’incidenza di coloro che pensa di avere figli tra i 20 e i 25 anni diminuisce, passando dal 16,3% tra coloro che hanno tra 11 e 13 anni al 10,5% tra coloro che hanno tra i 17 e i 19 anni.

Con questi dati, l’istituto di ricerca ha voluto sottolineare desideri e aspettative dei giovani e adolescenti che si trovano in un’età di transizione. Per quelli stranieri, nello specifico, i complessi percorsi di integrazione potrebbero rendere più complessa la realizzazione delle aspettative attuali, con mutamenti futuri in linea con la tendenza al calo delle nascite che si registra da oltre quarant’anni in Italia. Inoltre, che all’aumentare dell’età aumenta anche una consapevolezza più vicina ai dati della realtà sottolinea quanto le previsioni che si hanno da ragazzini possano fare i conti con necessità e bisogni completamente diversi per il proprio futuro.

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“Non ci sono abbastanza bambini”, l’allarme degli esperti...

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L’inverno demografico sta arrivando. Lo ha annunciato Jesus Fernadez-Villaverde, economista specializzato in demografia presso l’Università della Pennsylvania. Il mondo sta vivendo una crisi demografica e il tasso di fertilità globale scenderà sotto il livello di sostituzione generazionale nei prossimi decenni. I livelli di reddito, istruzione e partecipazione femminile non sembrano essere le uniche discriminanti con le quali misurare i tassi di successo delle politiche familiari nazionali. E mentre lo scorso anno, la popolazione dell’India ha superato quella della Cina, le superpotenze temono le conseguenze demografiche sull’economia.

Il calo demografico

Il calo demografico è diventato una questione di urgenza nazionale in molti Paesi a medio e alto reddito. A preoccupare i governi sono il rallentamento della crescita economica, la riduzione dei finanziamenti diretti alle pensioni e il ricambio generazionale. Il Wall Street Journal ha acceso i riflettori sulla questione che ha sollevato gli interrogativi dagli Stati Uniti alla Russia.

Alcuni demografi e economisti come Jesus Fernadez-Villaverde ritengono che la popolazione mondiale potrebbe iniziare a diminuire entro quattro decenni: una delle poche volte in cui ciò è accaduto nella storia.

“Donald Trump, il candidato repubblicano alle presidenziali di quest’anno, ha definito il collasso della fertilità una minaccia più grave per la civiltà occidentale rispetto alla Russia. Un anno fa, il primo ministro giapponese Fumio Kishida dichiarò che il crollo del tasso di natalità del paese gli faceva dubitare “se possiamo continuare a funzionare come società”. Il primo ministro italiano Giorgia Meloni dà priorità all’aumento del “Pil demografico” del Paese – scrive il quotidiano americano -. I governi hanno lanciato programmi per arrestare il declino, ma finora non hanno ottenuto alcun risultato efficace”.

Il tasso di sostituzione

Nel 2021, secondo le conclusioni delle Nazioni Unite, il tasso di sostituzione era pari a 2,3, vicino a quello che i demografi considerano il tasso di sostituzione globale di circa 2,2. Con questo termine si intende il tasso che mantiene stabile la popolazione, e che è pari a 2,1 nei paesi ricchi e leggermente più alto nei paesi in via di sviluppo, dove nascono meno bambine che bambini e più donne muoiono in età fertile.

Sebbene l’ONU non abbia ancora pubblicato le stime dei tassi di fertilità per il 2022 e il 2023, Fernández-Villaverde ha prodotto la sua stima integrando le proiezioni delle Nazioni Unite con dati reali per questi anni che coprono circa la metà della popolazione mondiale. È emerso che i registri nazionali delle nascite riportano le nascite tra il 10% e il 20% al di sotto di quanto previsto dalle Nazioni Unite.

La Cina, ad esempio, nel 2023 ha registrato nove milioni di nascite, il 16% in meno di quanto previsto. Così come, negli Usa lo scorso anno sono nati 3,59 milioni di bambini, il 4% in meno di quanto previsto dalle Nazioni Unite. In altri paesi, i numeri sono ancora più alti: l’Egitto ha registrato lo scorso anno il 17% di nascite in meno. Nel 2022 il Kenya ha registrato il 18% in meno.

Fernández-Villaverde stima che l’anno scorso la fertilità globale sia scesa tra 2,1 e 2,2, cifra che, secondo lui, sarebbe inferiore alla sostituzione globale per la prima volta nella storia umana. Dean Spears, economista della popolazione presso l’Università del Texas ad Austin, sempre secondo quanto riporta il Wsj, ha affermato che, sebbene i dati non siano abbastanza buoni per sapere esattamente quando o se la fertilità sia scesa al di sotto del tasso di sostituzione, “abbiamo prove sufficienti per garantire quasi che il punto di svolta non sia ancora stato raggiunto”.

Secondo l’Onu, la popolazione mondiale dovrebbe arrivare a 11,2 miliardi nel 2100. L’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington ha rilevato che l’unico picco realmente pensabile è di 9,5 miliardi nel 2061, poi un calo irrefrenabile. Così come il tasso di fertilità, sceso a 1.5 nelle previsioni sul futuro, “ha sorpreso gli studiosi”, ha commentato Melissa Kearney, economista dell’Università del Maryland, specializzata in demografia.

La transizione demografica

Quello che sta accadendo in buona parte del mondo è considerato dagli storici come una “seconda transizione demografica, con il declino della fertilità, iniziato nei paesi industrializzati e che corrisponderà ad un aumento dell’aspettativa di vita.

In una ricerca pubblicata nel 2021, la studiosa Melissa Kearney, dell’Università del Maryland e due coautori hanno cercato possibili spiegazioni per il continuo calo. Dalla ricerca è emerso che le differenze statali sulle leggi legate alla libertà di abortire, così come relative alla disoccupazione, ai costi delle abitazioni, all’uso di contraccettivi, e agli orientamenti religiosi e politici, potrebbero solo in minima parte spiegare le cause del calo demografico, ma “Sospettiamo che questo cambiamento rifletta questioni sociali generali che sono difficili da misurare o quantificare”, concludono i ricercatori.

“L’intensità della genitorialità è un vincolo”, ha detto la ricercatrice Kearney.

Nuove politiche

Quello che sta accadendo ha richiesto attenzione e maggiori politiche dedicate da parte dei governi che stanno cercando di invertire il calo dei tassi di natalità con incentivi. Il Giappone è tra quelli che ha aumentato per primo il congedo parentale e l’assistenza all’infanzia sovvenzionata. Il tasso di natalità è sceso di nuovo nel 2022, tornando a 1,26. Quest’anno, il primo ministro Fumio Kishida ha lanciato un altro programma per incoraggiare le nascite, estendendo i sussidi mensili a tutti i minori di 18 anni indipendentemente dal reddito, l’università gratuita per le famiglie con tre figli e il congedo parentale retribuito al 100%.

In Ungheria, invece, Viktor Orban ha promosso il programma di nascite tra i più ambiziosi in Europa. Con benefici fiscali alle donne, sussidi per gli alloggi, assistenza all’infanzia e congedi di maternità molto generosi, il tasso di fertilità ha visto una lieve crescita dopo la crisi del debito del 2010.

Il problema è che l’Institute for Health Metrics and Evaluation ha trovato poche prove che le politiche pro-natalità portino a una ripresa sostenuta della fertilità. Una donna potrebbe rimanere incinta prima per ottenere i benefici garantiti dal bambino, dicono i ricercatori, ma probabilmente non avrà altri figli più avanti.

Quello che la Banca Mondiale ha preannunciato come un possibile “decennio mancato per l’economia” di tutti i Paesi, ha lasciato intendere che l’unico rimedio valido potesse essere una maggiore immigrazione. Fenomeno, però, che richiede canali formali, legali e da formare professionalmente.

Gli alti livelli di immigrazione hanno anche storicamente suscitato resistenza politica, spesso a causa delle preoccupazioni sui cambiamenti culturali e demografici. È probabile che la diminuzione della popolazione nativa intensifichi queste preoccupazioni. Molti dei leader più interessati ad aumentare i tassi di natalità sono i più resistenti all’immigrazione.

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Infertilità, colpita una coppia su sette in Svizzera

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L’infertilità in Svizzera colpisce una coppia su sette. Negli ultimi anni, questo problema ha raggiunto portata globale, configurandosi come un tema di salute pubblica. L’accesso alle tecnologie che consentono la riproduzione assistita, però, è spesso limitato dai costi elevati o da legislazioni severe.

L’Oms ha definito la sterilità come l’incapacità di concepire dopo 12 mesi o più rapporti sessuali regolari non protetti. Si configura, quindi, come un problema che causa disagio, stigma e anche difficoltà finanziare, coinvolgendo il 18% degli adulti in tutto il mondo. In Svizzera, stime nazionali riportano che circa il 15% delle coppie siano colpite da infertilità. Ogni anno, tra le 3 mila e le 4 mila donne avviano un programma di fecondazione assistita o congelamento degli ovuli.

Infertilità e pma

L’infertilità è uno dei disturbi cronici più comuni nelle persone in età fertile. Le stime dell’Oms riportano che la diffusione del fenomeno può variare dal 10% al 20% a seconda della regione del mondo. In Europa, ad esempio, pare ne siano colpite 25 milioni di persone.

Sulle cause, la ricerca medica gioca un ruolo di prim’ordine nell’analisi quotidiana di quei fattori non ancora individuati. Stile di vita, esposizione climatica, problemi al sistema riproduttivo: l’aumento dell’infertilità viaggia di pari passo anche con l’età delle madri al primo figlio, sempre in aumento e con sempre meno probabilità di riuscire ad avere un bambino senza l’ausilio delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

In Svizzera la fecondazione in vitro, però, non è coperta dall’assicurazione sanitaria ordinaria e fa i conti con un aumento notevole delle coppie svizzere sterili che cercano trattamenti di questa natura e che sono costretti ad andare all’estero. Anche una legislazione restrittiva, oltre i costi elevati, contribuisce a rendere dispendiosa in termini di salute mentale, la scelta di avere un figlio in modo non del tutto naturale. Alcuni paesi, come la Repubblica Ceca, la Danimarca e soprattutto la Spagna, sono specializzati nell’accoglienza di cittadini provenienti da tutta l’Europa che sperano di avere dei figli.

Oltre i confini della Svizzera si diffonde l’idea che i governi dovrebbero fare qualcosa per combattere l’infertilità nell’ambito delle loro politiche familiari. Tomas Sobotka, vicedirettore dell’Istituto di demografia di Vienna, ha dichiarato che “è fondamentale che le persone che ne hanno bisogno abbiano accesso ai trattamenti per l’infertilità”.

Preoccupati per il calo dei tassi di natalità nei loro paesi, alcuni governi sembrano pronti ad andare in questa direzione. Il Giappone ha annunciato nel 2022 che il sistema di assicurazione sanitaria pubblica giapponese ora coprirà diverse tecnologie utilizzate per la Pma, così come alcune città cinesi e province canadesi. Per non parlare del piano di Emmanuel Macron in Francia, dedicato proprio alla costante analisi della fertilità dei giovani con check up gratuiti e supporto alla genitorialità con incentivi.

Il calo demografico svizzero

Per più di un secolo la Svizzera ha conosciuto una crescita demografica continua e spesso forte. Il 1978 è stato l’ultimo anno in cui si registrato un calo demografico. Tra il 2010 e il 2020, i tassi di crescita annuali sono stati per lo più superiori all’uno per cento, a partire dal 2018 leggermente inferiori. Le cifre pubblicate l’anno scorso dall’Ufficio federale di statistica (UST) hanno comunque sorpreso: nel 2022, il tasso di fecondità è sceso al di sotto dell’1,4, il livello più basso dal 2001. Questo nonostante 9 persone su 10 vorrebbero, idealmente, avere almeno due figli, in linea con la tendenza di tanti altri Paesi con medio o alto reddito.

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