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Lavorare troppo a 20 anni e ritrovarsi depressi a 50: i...

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Lavorare troppo a 20 anni e ritrovarsi depressi a 50: i risultati dello studio di Wen-Jui Han

Lavora tanto, fai gli straordinari, vai a dormire tardi finché sei giovane. Quante volte vi siete sentiti dire o dite voi stessi questa frase? Il ragionamento è semplice: bisogna sfruttare l’energia della gioventù per dare un boost alla propria carriera e assicurarsi un futuro più tranquillo in vecchiaia, quando sarà impossibile tenere certi ritmi.

Semplice, ma non logico. Secondo un recente studio guidato da Wen-Jui Han, professoressa della NYU Silver School of Social Work e pubblicato su PLOS One, lavorare troppo da giovani aumenta esponenzialmente il rischio di cadere in depressione e avere una cattiva salute già nella mezza età, intorno ai 50 anni.

Già la genesi dello studio è emblematica: dopo aver abbracciato per anni la mentalità della cultura della fretta e della produttività a tutti i costi, a 40 anni il medico curante di Han le ha detto che aveva l’età biologica di un sessantenne. Da allora, la ricercatrice esperta nel campo della sociologia e dello sviluppo della psiche ha deciso di approfondire questa tematica. Ne è emerso uno studio che rivela come i ritmi estenuanti e il lavorare fino a tarda notte abbiano ricadute negative sulla salute dei lavoratori quando hanno ancora tanti anni di vita davanti.

Dal lavoro standard al lavoro senza orari

Partiamo dalla fine, dalle conclusioni del rapporto dove si evidenzia una relazione diretta tra l’aumento della produttività e il sorgere di problemi di salute soprattutto per gli individui con orari di lavoro “non standard”.

I ricercatori hanno evidenziato che dagli anni Ottanta, l’occupazione è stata modellata dai progressi tecnologici e digitali globali, insieme all’ascesa e al predominio dell’economia dei servizi. “Questi cambiamenti – si legge nel rapporto – hanno prodotto conseguenze indesiderabili sulla salute, inclusa l’interruzione della nostra routine del sonno, un aspetto della nostra vita quotidiana fondamentale per preservare la nostra salute”, come abbiamo già sottolineato nel nostro articolo dedicato al fenomeno dell’early night.

Lo studio guidato dalla prof.ssa Wen-Jui Han ha fondamenta solide, basandosi sull’analisi degli orari di lavoro e delle condizioni di salute di 7.336 lavoratori americani nell’arco di trent’anni. Ne è emerso che solo un quarto dei partecipanti lavorava con orari diurni regolari.

Nello specifico, è stato definito orario di lavoro “standard” il lavoro che inizia alle 6.00 o più tardi e termina alle 18.00, “serale” il lavoro che inizia alle 14 o più tardi e termina entro mezzanotte, “notturno” il lavoro che inizia alle 21 o più tardi e con termine entro le 8. Una particolare criticità è emersa anche per chi lavora a turni, definito orario “variabile” nell’indagine, ovvero se il partecipante ha avuto turni o orari irregolari.

I risultati dello studio

L’indagine trentennale offre un confronto dettagliato tra i vari scenari. Prima di entrare nel dettaglio, segnaliamo che le evidenze su problemi di salute fisica e/o mentale sono stati intercettati tramite le interviste ai lavoratori tra i 22 e i 49 anni. In pratica, si è chiesto ai lavoratori stessi come si sentissero, soprattutto in relazione agli stati di ansia e depressione.

I lavoratori con orari di lavoro variabili o non standard hanno testimoniato conseguenze negative su:

– quantità e qualità del sonno;

– funzionalità fisiche e mentali;

– cattive condizioni di salute o sintomi depressivi.

Queste conseguenze sono state testimoniate anche tra i lavoratori che hanno iniziato la propria carriera con orari di lavoro standard ma sono poi passati a orari “volatili” dopo i 30 anni. Anche in questi casi è stato testimoniato un cattivo stato di salute già all’età di 50 anni.

Ci sono poi di modelli occupazionali che prevedono orari standard ma con alcune ore variabili. Qui, i lavoratori testimoniano risultati significativamente peggiori in relazione al sonno e alla salute, ma rispetto ai lavoratori per cui l’orario variabile è (o è diventato) una regola, questi lavoratori non riferiscono conseguenze significative sulla funzionalità mentale.

Qualche riflessione nell’era della great resignation

I risultati di questo studio emergono in un momento storico particolare, caratterizzato dall’acuirsi della forbice sociale tra ricchi e poveri e dal fenomeno della great resignation. Sempre più persone preferiscono dare rilevanza alla propria salute prima che all’inquadramento lavorativo. Un recente report, frutto della collaborazione tra la piattaforma digitale Hacking Talents e Factanza Media, ha rilevato che il bisogno principale di Millenials e Gen Z è quello di instaurare relazioni autentiche ed empatiche all’interno dell’ambiente lavorativo, che favoriscano l’ascolto e la libertà di esprimersi.

Il report evidenzia che solo il 15% delle persone intervistate si sente completamente libera di esprimere la propria opinione sul lavoro, mentre il 64% dichiara di sperimentare stress quotidiano sul luogo di lavoro. Una situazione allarmante: “Quando il lavoro diventa un fattore di stress quotidiano, quelle viste nel report sono le conseguenze che ci si può aspettare 30 anni dopo”, spiega la professoressa Han.

Il tutto mentre le relazioni umane assumono un ruolo prioritario tra i giovani lavoratori, con la necessità di creare legami autentici ed empatici con i colleghi per favorire un ambiente lavorativo sostenibile. Insomma, il lavoro non è più visto come il focus principale, ma come un mezzo di crescita economica e professionale. L’idea sempre più frequente tra i giovani è che la vera vita sia altrove, fuori dal lavoro.

Certo, per qualcuno una buona retribuzione può ancora far chiudere un occhio, anche se questo non ha alcuna conseguenza benefica sulla salute. In ogni caso, difficilmente questo qualcuno lavora in Italia dove gli stipendi sono immobili da trent’anni acuendo la distanza tra imprese e dipendenti.

Non è solo una questione di salute

Ascoltare le richieste dei nuovi lavoratori non è solo una necessità etica per la loro salute. Lo studio condotto da Wen-Jui Han dimostra che ad un aumento dei sintomi depressivi corrisponde una diminuzione della produttività, altro tasto dolente del sistema Italia.
Dunque, i risultati suggeriscono che i modelli occupazionali che prevedono orari di lavoro non standard o variabili possono avere un impatto negativo sulla salute e sul benessere dei lavoratori, e che i datori di lavoro dovrebbero considerare l’impatto dei loro modelli occupazionali sulla salute e sul benessere dei propri dipendenti.

Ma allora perché si continua a lavorare con ritmi che il nostro organismo si rifiuta di assecondare? Per l’estrema competitività del sistema, che tenderà ad aumentare con l’enorme crescita demografica prevista a livello globale.

“Percepiscono che la cultura del loro lavoro richiede che lavorino a lungo, altrimenti potrebbero essere penalizzati”, spiega Han che aggiunge laconicamente: “Il lavoro dovrebbe permetterci di accumulare risorse, ma per molte persone questo non accade, rendendole al contrario più infelici nel tempo”. Dopo 30 anni di studio e a fronte dei lampanti risultati emersi ci sarebbero diverse frasi da poter citare della curatrice dello studio, una su tutte: “Il nostro lavoro oggi ci rende malati e poveri”.

Sia chiaro: non lavorare non è la soluzione. Il rapporto evidenzia che a chi non lavora o lavora/ha lavorato poco è associato una probabilità significativamente più elevata di cattive condizioni di salute e una funzionalità fisica significativamente inferiore rispetto ai lavoratori.

Dai romani a Lenny Kravitz

Forse la soluzione sarebbe tornare ai classici e a quell’“In medio stat virtus”, tanto caro ai romani quando la produzione non era un’ossessione e c’era ancora del tempo da dedicare sé stessi, alla filosofia, allo stare in piazza con gli altri consociati interrogandosi sui problemi concreti e sulle domande più esistenziali.

Negli ultimi decenni, invece, l’equilibrio è silenziosamente passato in secondo piano fino a scomparire nelle vite di miliardi di persone e il consiglio dei romani diventa una domanda nervosa, energica, tristemente senza risposta: “Where are we running?”, “Dove stiamo correndo”?
Difficile dirlo, mentre le parole di Lenny Kravitz risuonano nelle nostre teste: “We need some time to clear our heads. Where are we runnin’? Keep on working ‘til we’re dead”, “Abbiamo bisogno di rifrescare le nostre teste. Dove stiamo correndo? Lavoriamo fin quando non siamo morti”.

A noi il compito di dar vita a un’altra risposta, prima che diventi troppo tardi.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Anche gli zii hanno la loro festa

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Immaginate una vita senza zii. Chi sarebbe lì per viziarci, raccontarci storie incredibili e offrirci consigli saggi quando ne abbiamo più bisogno? Chi ci fornirebbe quella combinazione unica di amore incondizionato e divertimento spensierato che solo uno zio o una zia può offrire? Ecco perché, ogni anno, alla quarta domenica di luglio, celebriamo la Giornata Mondiale degli Zii, un’occasione per riconoscere e apprezzare questi straordinari membri della famiglia.

La Giornata Mondiale degli Zii

La Giornata Mondiale degli Zii nasce nel 2009 grazie alla scrittrice canadese Melanie Notkin, autrice del libro “Otherhood”. In questa opera, Notkin ha coniato il termine “PANK”, acronimo di Professional Aunts No Kids, ossia “Zia di professione senza figli”. Un termine che ha rapidamente guadagnato popolarità a livello globale, sottolineando l’importanza e l’unicità del ruolo delle zie nella società moderna.

Il titolo del libro “Otherhood” è un intelligente gioco di parole con “parenthood” (genitorialità), suggerendo che gli zii possono essere considerati come secondi genitori. Il personaggio della saggia zia Savvy, presente nel libro, incarna perfettamente questo concetto, offrendo consigli e supporto ai nipoti senza mai interferire nel rapporto che essi hanno con i loro genitori.

L’impatto delle PANK nella società

La creazione della Giornata Mondiale degli Zii da parte di Melanie Notkin ha portato alla nascita di un movimento che celebra e valorizza il ruolo degli zii nella vita dei nipoti. La sedicesima edizione ufficiale dell’Auntie’s Day si terrà domenica 28 luglio 2024, un appuntamento annuale che riconosce, onora e celebra le zie di sangue e di cuore, le madrine e tutte le donne che amano un bambino non loro.

Un’indagine di qualche anno sulla ‘Generazione PANK’, ha rivelato che il 91% delle Professional Aunts No Kids considera il ruolo di zia “molto importante” mentre l’89% afferma che l’esperienza di essere zia è ancora migliore di quanto si aspettassero. Tuttavia, solo il 28% delle PANK si sente apprezzata dalla società per il ruolo significativo che svolge nella vita dei bambini e nella comunità familiare.

Le zie offrono un supporto fondamentale, aiutando a sviluppare i nipoti attraverso il legame e il gioco. Sono spesso conosciute per i regali e le esperienze uniche che offrono ai bambini, contribuendo anche all’educazione e al benessere economico delle famiglie. Uno studio ha stimato che le PANK spendono collettivamente circa 61 miliardi di dollari all’anno per i bambini che amano, estendendo la loro generosità ben oltre i semplici regali.

Nonostante il loro contributo significativo, le zie rimangono spesso una figura nascosta e poco apprezzata nella società. La Giornata degli Zii è stata creata per mettere in luce questo gruppo di donne amorevoli e generose e per dare loro il riconoscimento che meritano.

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Elon Musk, la figlia transgender è morta? Solo per lui

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La figlia transgender di Elon Musk, Vivian Jenna Wilson, ha denunciato pubblicamente i gravi comportamenti avuti dal padre durante la sua infanzia. Nella sua prima intervista, rilasciata a NBC News, Wilson ha accusato il magnate di essere stato un padre assente e crudele che non ha mai accettato l’orientamento queer di sua figlia.

Elon Musk contro la figlia transgender: cosa ha detto

A far scaturire tutto è stato lo stesso Musk che lunedì scorso, 22 luglio, ha parlato della loro relazione in un’intervista video con lo psicologo e commentatore conservatore Jordan Peterson, trasmessa in diretta su X.
In questa occasione, il Ceo di Tesla ha affermato di non supportare l’identità di genere di Wilson: “Ho perso mio figlio, essenzialmente”, ha detto Musk. Per lui la figlia è “morta, uccisa dal virus della mente woke”.

Musk, padre di dodici figli, ha anche affermato di essere stato “ingannato” quando gli è stata chiesta l’autorizzazione a un trattamento medico transgender per Wilson, all’epoca 16enne.

La risposta di Vivian Jenna Wilson

In seguito a queste gravi dichiarazioni, Wilson ha deciso di rompere il silenzio. Per prima cosa, ha smentito il padre: “Non è stato affatto ingannato. Conosceva tutti gli effetti collaterali” ha ribattuto la giovane ragazza, sottolineando che il consenso dei genitori era necessario per procedere con il trattamento.

Ma sono state soprattutto le affermazioni di totale disconoscimento della figlia ad aver spinto Wilson ad agire: “Penso che lui desse per scontato che non avrei detto niente e che avrei lasciato correre, senza essere contestato. – ha spiegato – Cosa che non farò perché se menti su di me, tipo, sfacciatamente a un pubblico di milioni di persone, non lascio correre.”

L’infanzia difficile di Wilson e il padre assente

Il suo astio, la sua rabbia sono indicative della difficile infanzia avuta da Vivian Jenna Wilson, oggi 20enne. Raccontando le sue esperienze dolorose, Wilson ha svelato il lato oscuro di Musk. Ha raccontato che il padre era raramente presente nella sua vita, lasciando lei e i suoi fratelli sotto la cura della madre o delle tate, nonostante la custodia congiunta: “Era con noi forse il 10% del tempo, e mi sto tenendo larga”, ha spiegato la giovane ragazza.

“Era freddo”, “Si arrabbia molto facilmente. È indifferente e narcisista”. E quando era presente, la rimproverava. Il magnate ha sempre mostrato un forte risentimento nei confronti della figlia, di cui non ha mai accettato il percorso di transizione.

Nell’intervista telefonica all’emittente americana, Wilson ha anche riportato episodi di molestie verbali da parte di Musk, che la rimproverava per il suo comportamento femminile sin dalla tenera età. “Ero in quarta elementare… e lui continuava a urlarmi contro in modo feroce perché avevo la voce troppo alta,” ha raccontato Wilson. “È stato crudele”.

Un rapporto così viziato che, per la ragazza, la pandemia è stata una manna dal cielo. Wilson ha raccontato che il lockdown è stata l’opportunità per sfuggire alla crudeltà di Musk, permettendole di vivere sempre con sua madre. È stata una delle prime cose a cui ha pensato.

I due coming out e il cambio di cognome

Wilson ha rivelato di aver fatto coming out due volte: una volta come gay in seconda media e una seconda volta come transgender a 16 anni. Come per tutte e per tutti coloro che iniziano questo percorso, anche per lei non è stato facile prendere la decision di iniziare il trattamento per la disforia di genere. Un percorso reso ancora più difficile dall’opposizione del padre: Wilson ha ottenuto il necessario consenso di entrambi i genitori, solo dopo mesi di insistenza. è stata difficile il necessario consenso di entrambi i genitori solo dopo mesi di insistenza. “Ci ho provato per mesi, ma lui ha detto che dovevo incontrarlo di persona” ha detto spiegando che “A quel punto, era molto chiaro che entrambi nutrivamo profondo disprezzo l’uno per l’altra”.

Non a caso, porta un cognome diverso da quello del padre. La sua storia ha iniziato ad attirare l’attenzione due anni fa, quando ha chiesto al tribunale della California l’approvazione per cambiare cognome. “Non vivo più con il mio padre biologico e non desidero più essere imparentata con lui in alcun modo, forma o aspetto”, ha affermato nella documentazione depositata in tribunale. Wilson non si aspettava tutto quel clamore mediatico in seguito alla sua decisione.

Oggi non solo riscriverebbe le frasi condivise con il tribunale, ma, alla luce del clamore dato alla notizia, sarebbe ancora più esplicita.

Vivian Jenna Wilson e il percorso di transizione

Il fondatore di SpaceX, notoriamente vicino a Donald Trump, ha persino attribuito la transizione di sua figlia alle proprie posizioni conservatrici. Una teoria che Wilson respinge con forza, spiegando che il trattamento ricevuto le ha permesso di avere la vita che voleva, nonostante i numerosi ostacoli burocratici e personali.

Wilson ha anche criticato la biografia di Musk scritta da Walter Isaacson, definendola inaccurata e ingiusta nei suoi confronti, e ha sottolineato di non essere mai stata contattata direttamente dall’autore prima della pubblicazione.

La figlia di Elon Musk ha concluso l’intervista sottolineando la sua volontà di definire la propria vita e identità senza l’influenza di suo padre: “Vorrei sottolineare una cosa: sono un’adulta. Ho 20 anni. Non sono una bambina,” ha detto. “La mia vita dovrebbe essere definita dalle mie scelte.”

Le controverse posizioni di Musk

Negli ultimi anni, Musk, che a dicembre ha partecipato al Festival di Atreju di Fratelli d’Italia, ha preso una svolta radicale verso la politica conservatrice, conducendo una campagna contro le persone transgender e le politiche progettate per supportarle. Questo mese, ha dichiarato che avrebbe ritirato le sue attività dalla California per protestare contro una nuova legge statale che impedisce alle scuole di richiedere che i bambini transgender facciano coming out con i loro genitori.

Wilson ha dichiarato alla NBC News che per anni aveva pensato di parlare apertamente del comportamento di Musk come genitore e come persona, ma che non poteva più rimanere in silenzio dopo i commenti fatti dal magnate lunedì scorso, in diretta su X.

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Sentenza sui conviventi, cosa cambia per le imprese...

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Cosa significa la sentenza sui conviventi emanata ieri, 25 luglio 2024, dalla Corte costituzionale? Sicuramente una svolta significativa nella tutela dei diritti dei conviventi di fatto.
Con la sentenza n. 148 del 2024 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme che non equiparavano i conviventi di fatto ai familiari, escludendoli così dai benefici riconosciuti a questi ultimi nell’ambito dell’impresa familiare.

La sentenza n. 148 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile, nella parte in cui non includeva i conviventi di fatto tra i familiari che collaborano nell’impresa familiare. Di conseguenza, è stata dichiarata illegittima anche la disposizione dell’art. 230-ter del Codice civile, introdotta dalla legge n. 76 del 2016 (legge Cirinnà), che prevedeva una tutela significativamente ridotta per i conviventi di fatto.

Si è stabilito che il convivente di fatto è un familiare ed è impresa familiare quella con cui collabora.

Come si è arrivati alla sentenza sui conviventi di fatto

La questione è stata portata all’attenzione della Consulta dalla Corte di cassazione alla quale aveva fatto ricorso la convivente di un uomo deceduto. La donna aveva agito in giudizio nei confronti dei figli e coeredi, chiedendo al Tribunale di primo grado di inquadrare l’azienda agricola in cui lavorava come impresa familiare. Da convivente, la donna rivendicava il diritto ad ottenere la liquidazione della sua quota come partecipante all’impresa, per il periodo in cui aveva lavorato nell’azienda di famiglia. Esattamente come accade per i familiari, insomma.

Attenendosi all’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile, il Tribunale di primo grado aveva rigettato l’istanza della donna. Sulla stessa linea si era mossa la Corte d’appello. D’altronde la norma teneva ben distinte le figura del convivente di fatto da quella del familiare; una decisione diversa non sarebbe rientrata neanche nei ranghi di una interpretazione estensiva della norma.

Definizione di conviventi di fatto

Secondo la legge Cirinnà (art. 1, comma 36), i conviventi di fatto sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”. Questa definizione è stata cruciale nel riconoscimento dei loro diritti nell’ambito dell’impresa familiare, ponendo fine a una disparità di trattamento che non era più giustificabile alla luce delle evoluzioni sociali e giuridiche.

Da qui il ricorso della donna alla Suprema corte, con specifico riferimento alla “mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale”.

Nella società moderna, si può trattare diversamente un convivente che magari ha condiviso anni di vita insieme, solo perché i due non sono sposati?

Di fronte a questa richiesta, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno passato la questione alla Consulta, sollevando questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare. La Suprema Corte ha chiesto ai colleghi della Consulta se escludere il convivente di fatto dal novero dei familiari violasse o meno gli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione.

La risposta della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione, sottolineando come la società italiana sia profondamente cambiata e come la normativa debba evolversi di conseguenza. In questo senso, ricordano i giudici, si sono già adeguate la normativa nazionale e la giurisprudenza costituzionale anche a livello europeo.

La necessità di offrire una protezione speciale al lavoro nell’impresa familiare è stata già parzialmente realizzata con l’articolo 230-bis del Codice civile. Questa disposizione, introdotta con la riforma del diritto di famiglia del 1975, ha un’ampia applicazione, coprendo non solo il coniuge e i parenti stretti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado. Nel 2016, con la legge Cirinnà, a questo elenco sono stati aggiunti anche i soggetti legati da unioni civili.

La Corte costituzionale ha ora stabilito che la cosiddetta “affectio maritalis”, ovvero l’affetto che caratterizza una relazione stabile, attenua l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e va riferita anche al convivente di fatto.

Questo riconoscimento implica che, nonostante le differenze formali rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali come il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione devono essere garantiti anche ai conviventi di fatto, senza discriminazioni.

Una sentenza storica che mira a prevenire situazioni di lavoro gratuito o sottopagato, garantendo una tutela equa a chi contribuisce all’impresa con il proprio lavoro.

Quante imprese familiari ci sono in Italia?

La sentenza acquisisce particolare rilievo perché l’Italia è un Paese fortemente ancorato alle imprese familiari.

Secondo i dati Istat, nel 2022 le imprese italiane controllate da una persona fisica o una famiglia erano più di 820mila, ovvero l’80,9% del totale delle imprese con almeno 3 addetti. Una percentuale molto elevata e in crescita rispetto al 2018, quando le imprese familiari costituivano il 75,2% di quelle con almeno tre dipendenti.

Le imprese familiari sono particolarmente diffuse tra le microimprese (83,3% dei casi) e meno frequente tra le piccole (74,5%), le medie (58,8%) e tra le grandi aziende (41,6%).
A livello settoriale, le imprese familiari sono più diffuse tra le imprese manifatturiere (81,2%), nel comparto delle costruzioni (82,4%), con una forte presenza anche nel comparto dei servizi, raggiungendo l’84,4% nel commercio e l’87,3% nel comparto dell’alloggio e ristorazione.

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