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Israele attacca Iran, il raid nel giorno del compleanno di Khamenei

La Guida suprema iraniana è nata il 19 aprile 1939, la storia dell’ayatollah che sfida l’Occidente

Il Grande Ayatollah Ali Khamenei - (Afp)

L’annunciata rappresaglia israeliana contro l’Iran, ancora non confermata da Tel Aviv e che, secondo i media della Repubblica islamica, non avrebbe causato danni ingenti, è avvenuta in una giornata significativa per la Guida Suprema iraniana, che proprio oggi compie 85 anni. Per l’ayatollah, nato il 19 aprile del 1939 a Mashad, città santa per gli sciiti, è stato un compleanno ‘amaro’, anche se sembrano essere stati scongiurati i timori di una possibile ritorsione su larga scala dello Stato ebraico, mentre da giorni l’intera comunità internazionale sollecitava Israele alla de-escalation e alla moderazione.

Chi è Khamenei, l’ayatollah che sfida l’Occidente

Khamenei iniziò il percorso di studi in una ‘maktab’, l’allora scuola elementare. Il figlio secondogenito dell’hojatoleslam Javad Khamenei frequentò poi il seminario di Mashad, dove frequentò le lezioni del grande ayatollah Milani.

Il giovane Khamenei lasciò l’Iran a 18 anni per svolgere un pellegrinaggio a Najaf, città irachena che ebbe un ruolo importante nella vita della Guida Suprema. L’anno dopo si spostò a Qom, il ‘Vaticano’ degli sciiti, dove fino al 1964 seguì gli insegnamenti di alcuni degli ayatollah più famosi dell’epoca, tra cui l’ayatollah Borujerdi e Ruhollah Khomeini, il ‘padre’ della Repubblica islamica.

“Per quanto riguarda le idee politiche e rivoluzionarie e la giurisprudenza islamica, sono certamente un discepolo dell’Imam Khomeini”, affermò Khamenei, che sempre nei primi anni Sessanta si unì alle file dei rivoluzionari che si opponevano al regime dello Shah e alla sua politica filo-americana. Il ‘matrimonio’ con la causa khomeinista gli costò una notte in carcere nel maggio del 1963, quando il leader della rivoluzione gli affidò la missione di portare un messaggio segreto all’ayatollah Milani. Un mese dopo fu nuovamente arrestato e rinchiuso in carcere per attività antigovernative.

In quegli anni Khamenei rimase a stretto contatto con Khomeini, a quell’epoca in esilio prima in Iraq e poi in Francia, e di cui divenne un fidato consigliere. Subito dopo il ritorno di quest’ultimo a Teheran nel 1979 fu nominato membro del Consiglio della Rivoluzione. Dopo il suo scioglimento divenne vice ministro della Difesa e rappresentante personale di Khomeini nel Consiglio Supremo per la Difesa. Per un breve periodo comandò i Guardiani della Rivoluzione. Falco in politica estera, fu uno dei negoziatori chiave della cosiddetta crisi degli ostaggi.

Tra i membri fondatori del Partito Islamico Repubblicano (Pir), nel 1981, mentre stava tenendo un discorso in una moschea di Teheran, una bomba esplose facendogli perdere l’uso del braccio destro. L’attentato venne poi rivendicato dai Mojahedin del Popolo. In quell’anno fu eletto deputato e poi presidente, incarico che ricoprì per due mandati di seguito fino al 1989, quando alla morte di Khomeini venne eletto Rahbar dall’Assemblea degli Esperti, approfittando della rottura tra il fondatore della Repubblica islamica e colui che appariva il candidato naturale alla sua successione, l’ayatollah Montazeri.

In realtà Khamenei non aveva i titoli per ottenere la carica. La Guida Suprema, infatti, doveva essere riconosciuta come ‘marja-e taqlid’, cioè fonte di imitazione. Ma davanti al vuoto che si era creato con la morte di Khomeini, si emendò la Costituzione pur di nominare un nuovo Rahbar. In una notte fu anche ‘promosso’ da hojatoleslam ad ayatollah.

Sotto la sua leadership l’Iran affrontò momenti di grande difficoltà. Il primo ostacolo per la Guida Suprema fu il doppio mandato del presidente Mohammad Khatami, un riformista che spingeva per la distensione con l’Occidente, una linea che Khamenei vedeva come fumo negli occhi. Il Rahbar riuscì sostanzialmente a far fallire la presidenza Khatami bloccando molte delle sue riforme che avevano come obiettivo aprire il Paese sia da un punto di vista sociale che politico.

Fu però con il suo successore, l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, da molti ritenuto un suo protegé, che la Repubblica islamica fu sul punto di crollare. La contestata rielezione dell’ex sindaco di Teheran nel 2009, infatti, portò il Paese sull’orlo del caos, con centinaia di manifestanti uccisi nella repressione dell’Onda Verde. Davanti alle più gravi manifestazioni di piazza dai tempi della rivoluzione, Khamenei usò il pugno di ferro. Migliaia di dissidenti, tra cui i due leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, furono arrestati. La presidenza Ahmadinejad fu caratterizzata anche da aspre critiche contro il governo per la gestione dell’economia e per alcune decisioni di politica estera e alla fine del mandato la rottura tra l’allora presidente e Khamenei divenne evidente.

Nel 2013 fu tempo di nuovo di un riformista alla presidenza dell’Iran. Il doppio mandato di Hassan Rohani fu caratterizzato dall’accordo sul programma nucleare (Jcpoa) che nel 2015 portò alla revoca delle sanzioni contro la Repubblica islamica. Intesa che poi nel 2018 l’allora presidente americano, Donald Trump, fece naufragare. Khamenei appoggiò quell’accordo storico con le potenze mondiali, ma contrastò ogni tentativo di Rohani di espandere le libertà civili.

L’abbandono del Jcpoa da parte degli Stati Uniti fece sprofondare l’Iran in una nuova crisi economica, innescando una nuova ondata di proteste antigovernative nel 2019, durante le quali i manifestanti scandirono lo slogan “morte al dittatore” – un riferimento al Leader. Il ‘tradimento’ statunitense rafforzò quel sentimento anti-occidentale, che sfociava in un vero e proprio odio per gli Usa e che ha sempre dominato la retorica populista di Khamenei in tutti i suoi anni al potere. “L’ho detto fin dal primo giorno: non c’è da fidarsi dell’America”, commentò subito dopo la mossa di Trump. Ma se c’è un ‘nemico’ che Khamenei non ha mai cessato di bersagliare in tutti i suoi interventi pubblici quello è stato Israele. La Guida Suprema, che più volte ha negato l’Olocausto, minacciò innumerevoli volte di cancellare lo Stato ebraico, definito “un cancro”, dalle mappe geografiche.

Un altro momento drammatico che fece tremare le fondamenta della Repubblica islamica sotto Khamenei fu l’uccisione del suo stretto alleato nonché amico personale Qassem Soleimani. L’allora capo della Forza Quds, corpo di elite dei pasdaran, venne assassinato in un raid di un dronte statunitense a Baghdad nel gennaio 2020. Khamenei promise “vendetta” e ordinò come rappresaglia il lancio di alcuni missili balistici contro due basi irachene che ospitavano truppe americane.

Pochi giorni dopo la morte di Soleimani, l’Iran fu scosso da un altro episodio. L’abbattimento per errore di un aereo ucraino scambiato per un velivolo nemico ad opera della contraerea dei Guardiani della Rivoluzione. Il bilancio pesantissimo di 176 morti scatenò un sentimento di rabbia e nuove proteste antigovernative.

Alcuni mesi dopo l’Iran, come il resto del mondo, fu colpito dalla pandemia. Una prova durissima per il Paese, che tra quelli del Medio Oriente ha pagato il prezzo più alto in termini di vite umane. L’ayatollah inizialmente minimizzò la minaccia del coronavirus, sostenendo che fosse una tattica per spaventare il Paese. “E’ un problema che passerà. Non è niente di straordinario”, disse.

Data l’età ed i problemi di salute che si sono susseguiti, più volte si sono diffuse notizie – rivelatesi in alcuni casi delle fake – che volevano Khamenei ricoverato in ospedale, a volte in punto di morte o che alimentavano speculazioni sul suo successore. In questa chiave molti hanno visto la traiettoria politica di Ebrahim Raisi, nominato capo della magistratura ed eletto presidente nel 2021, come propedeutica all’ascesa al ruolo di Guida Suprema.

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