Casa Mariù su Tele A: Rubrica di gossip e spettacolo a cura di Sante Cossentino
Casa Mariù continua la sua marcia su Tele A, con ottimi riscontri di ascolti e gradimento del pubblico. Il programma, condotto dalla brava Mariù Adamo e prodotto da Goeldlin Collection, vede adesso nuove rubriche in arrivo, tra cui già partita quella con lo spazio riservato allo spettacolo e al gossip.
Ad occuparsene è Sante Cossentino, giornalista e ufficio stampa con oltre anni di esperienza sul campo, grazie a Rai, Mediaset e l’agenzia Massmedia comunicazione, operativa nello show biz a livello anche internazionale. E già, con Sanremo e anche in collegamento dalla città dei Fiori nella settimana festivaliera, con chicche, news e sorprese, Casa Mariù continuerà a regalare nuovi appuntamenti e tanti contenuti per arricchire la trasmissione.
Massmedia si occupa anche delle PR e dell’ufficio stampa del programma e affianca anche la Goeldlin Collection nella promozione dell’immagine ed eventi e iniziative in arrivo del brand di divise ed abiti di lavoro, che hanno fatto dell’eleganza e dello stile il loro segreto di successo.
Attualità
Cardinale Camillo Ruini: 70 anni di sacerdozio, fede e...
Settant’anni. Ci pensate? Settanta lunghi anni di scelte, passi avanti, momenti difficili e gioie immense. Una vita. Pensate a tutto quello che può succedere in sette decenni: guerre, cambiamenti epocali, mille storie che si intrecciano. E lui, il Cardinale Camillo Ruini, c’è sempre stato, con la sua fede incrollabile, il suo impegno quasi sovrumano. L’8 dicembre 2024, ha celebrato il suo 70° anniversario di ordinazione sacerdotale. Un traguardo che parla di più di un semplice “quanto tempo”. Qui si parla di una vita spesa a credere, ad agire, a rispondere a una chiamata. Settant’anni di storia, di sogni, di battaglie vinte e perse, di cuore messo in ogni cosa. E forse non è neanche giusto chiamarlo “celebrare”, perché c’è qualcosa di più profondo: è ringraziare per ogni giorno, ogni passo, ogni momento che l’ha portato fin qui.
Un’infanzia che segna il destino
Camillo Ruini nasce il 19 febbraio 1931 a Sassuolo, un piccolo paese nel cuore dell’Emilia. Pensate a un borgo con le sue case basse, le stradine polverose e quell’odore di pane che sembra non andarsene mai. Era un’Italia ferita, appena uscita dalla guerra, con le persone che cercavano di rimettere insieme i pezzi. E Camillo? Un ragazzino come tanti, ma con qualcosa di diverso. Aveva quella luce negli occhi, sapete? Quella che fa dire a chiunque lo incontri: “Questo bambino farà strada“. Passava le giornate a leggere, sempre con un libro stretto al petto, magari seduto su un muretto, con lo sguardo rivolto al cielo. Non era uno di quelli che si accontentano. No, lui cercava. Cercava risposte, senso, un motivo per tutto. E poi, tra una preghiera sussurrata e le domeniche passate in Chiesa, quella vocazione ha cominciato a crescere. Piano, ma inarrestabile. Una voce dentro di lui che lo chiamava, insistente. E Camillo, alla fine, ha risposto.
L’inizio del cammino sacerdotale
L’8 dicembre 1954. Una data che per molti potrebbe non dire niente ma per Camillo Ruini è il giorno in cui tutto è iniziato davvero. La cappella dell’Almo Collegio Capranica a Roma, un luogo intriso di storia e silenzi, ha accolto quel giovane di Sassuolo in un momento che gli avrebbe cambiato la vita. Era emozionato? Forse. Ma chi l’ha visto quel giorno racconta di uno sguardo fermo, di un uomo già consapevole della strada che aveva davanti. Non è mai stato un tipo banale, Ruini. Uno di quelli che si accontentano di fare il minimo indispensabile. No, lui ha sempre voluto di più. Nei primi anni, mentre si immergeva nell’insegnamento e nella formazione teologica, metteva anima e corpo nel suo lavoro. Filosofia e teologia non erano astrazioni per lui ma strumenti veri, concreti, per capire il mondo e, ancora di più, per servire chi aveva bisogno. Perché questo è sempre stato Camillo Ruini: uno che guarda in alto, ma con i piedi ben piantati sulla terra.
Un leader nato
Parlare di Camillo Ruini senza toccare il suo ruolo nella guida della Chiesa italiana? Impossibile. Negli anni Ottanta diventa vescovo ausiliare di Reggio Emilia. Un passo importante, certo. Ma è nel 1991 che la sua storia cambia davvero. Papa Giovanni Paolo II lo chiama. Due incarichi giganteschi lo aspettano: presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e vicario del Papa per Roma. Due montagne da scalare, enormi, che avrebbero fatto tremare chiunque. Ma lui? Lui si fa avanti. Con quella calma che pareva scolpita nella pietra, con una determinazione che non lasciava spazio ai dubbi. Era il suo stile, il suo modo di essere: silenzioso, ma fermo. Un leader nato, capace di prendere decisioni difficili, di navigare tra mille complessità senza mai perdere di vista la sua meta.
E qui, lasciatecelo dire, emerge davvero la statura di un uomo capace di navigare tra le complessità di una società in evoluzione. La secolarizzazione, i temi etici legati alla bio-medicina, il delicato rapporto tra fede e politica: Ruini non ha mai evitato di affrontare questioni spinose, scegliendo sempre il dialogo come strumento principale. Non è stato facile, certo. Ma il suo impegno è stato quello di mantenere un equilibrio, di tenere insieme una comunità in un periodo in cui sembrava facile perdersi.
Dialogare con la modernità
Uno dei momenti che forse racconta meglio chi è stato davvero Camillo Ruini è il famoso “Progetto culturale orientato in senso cristiano“. Detto così potrebbe sembrare una cosa da manuale, noiosa, per addetti ai lavori. Ma no, è molto di più. Era un’idea, una visione, un modo di guardare il futuro con radici ben piantate nella tradizione. Ruini ci credeva davvero: riportare i valori cristiani al centro della cultura italiana. Non con grida o imposizioni, niente di forzato. Ma con il lavoro di tutti i giorni, con pazienza, con tenacia. Questo era il suo stile: costruire ponti, non muri. Parlava di dialogo, ma dialogo vero, di quello che richiede coraggio. Perché dialogare non significa annacquare i propri valori, significa metterli in gioco, trovare un linguaggio che arrivi anche a chi è lontano. Ecco, questo era Ruini. Uno che non aveva paura di sporcarsi le mani, di guardare in faccia un mondo che cambiava e di rispondere: “Ci sono, eccomi. Parliamone.“
Le sfide di una vita
Non sono mancate le difficoltà. Anzi, ce ne sono state tante. Dagli scandali che hanno colpito la Chiesa agli occhi severi di un’opinione pubblica sempre pronta a giudicare, Ruini ha dovuto affrontare momenti davvero complicati. Ma quello che colpisce è il modo in cui lo ha fatto: con una calma che è sempre sembrata autentica, non ostentata. Non è un uomo di facili entusiasmi, Ruini. Ma è un uomo di profonda fede, e forse è proprio quella fede a dargli la forza di affrontare anche le tempeste più violente.
Una celebrazione carica di emozione
E così arriviamo all’8 dicembre 2024, una data che segna un traguardo straordinario. La celebrazione del suo 70° anniversario di sacerdozio è stata un momento carico di emozione, non solo per Ruini, ma per tutta la comunità ecclesiale. A Roma, una messa commemorativa ha raccolto intorno a lui rappresentanti della Chiesa e della società civile. Le parole del cardinale, pronunciate durante l’omelia, sono state semplici ma profonde: “Il sacerdozio è un dono immenso. Ogni giorno mi ricorda l’importanza di servire gli altri e di essere testimone della fede.”
Guardando alla sua lunga carriera, è impossibile non vedere l’impatto duraturo che Ruini ha avuto sulla Chiesa italiana. Non si tratta solo delle decisioni prese o dei progetti avviati ma di un esempio. Un esempio di dedizione, di saggezza, di capacità di ascolto. E forse, è proprio questo il suo lascito più grande. In un mondo che spesso sembra andare troppo veloce, Ruini ci ricorda che c’è valore nella riflessione, nella preghiera, nel prendersi il tempo per comprendere.
Settant’anni. Una vita intera, ma, sapete una cosa? Per Camillo Ruini è come se fossero solo l’inizio. Perché lui, uno come lui, non si ferma mai. Settanta anni di servizio, di fede, di battaglie interiori e impegni quotidiani. Ma per lui non sono un traguardo da festeggiare, sono una spinta, una promessa. Quasi un sussurro che dice: “Non è ancora finita. C’è ancora tanto da fare.” E lui lo sa bene. Lo senti, lo vedi in ogni gesto, in ogni parola che lascia cadere con calma. Guardare avanti, cercare strade nuove, mettere ancora una volta la fede al centro, portarla lì dove sembra mancare più che mai. Questa è la sua strada. E – chissà – questa sua tenacia, questa fede che non si arrende, riuscirà davvero a ispirare chi verrà dopo di lui.
Attualità
Notre-Dame: Il simbolo che torna a splendere
Ci sono momenti che restano scolpiti nella memoria e quella sera di aprile del 2019, beh, è sicuramente è uno di quelli. Notre-Dame in fiamme. Chiunque abbia visto quelle immagini – e chi non le ha viste? – non può averle dimenticate. Parigi sembrava fermarsi, il mondo intero tratteneva il fiato. La guglia che crollava, il tetto ridotto a cenere, tutto sembrava irreale. Come se un pezzo dell’anima del mondo si stesse sgretolando sotto i nostri occhi. Era storia che bruciava. Arte, fede, bellezza che diventavano fumo nel cielo della sera. Ma oggi, sei anni dopo, non possiamo fare a meno di guardare a quel momento con occhi diversi. Perché, contro ogni previsione, Notre-Dame è tornata. Non solo intatta: viva. Più viva che mai.
Quel giorno che cambiò tutto
Era il 15 aprile 2019. Alle 18:20, un incendio si sviluppò nel sottotetto della cattedrale, la parte conosciuta come “la foresta” per via delle travi in legno secolare. In poche ore, 1.300 metri quadrati di storia vennero distrutti. La guglia, aggiunta nel XIX secolo, collassò sotto lo sguardo attonito del mondo. Le immagini fecero il giro del pianeta, portando con sé un carico di sgomento e tristezza.
Le cause? Beh, si è parlato di un corto circuito. Forse è andata davvero così. Ma – e non è facile ammetterlo – si sapeva già che la cattedrale aveva bisogno di cure, di mani esperte che la custodissero meglio. Era lì, fragile e bellissima, e per anni nessuno aveva fatto abbastanza. E poi, in quel caos di fiamme e disperazione, c’è stato un miracolo. Alcune reliquie sacre, come la corona di spine, sono state salvate. Salvate davvero. Ed è strano dirlo ma in mezzo a tutto quel disastro, avere qualcosa che si è potuto stringere al petto è stato un piccolo conforto. Un briciolo di luce in una giornata che sembrava buia come la notte.
La promessa: ricostruire in cinque anni
Pochi giorni dopo il disastro, Macron si fece avanti. Con quella sua aria decisa, quasi sfidando l’impossibile, promise: “Ricostruiremo Notre-Dame in cinque anni.” Cinque. Anni. Chiunque ascoltò quelle parole pensò: è pazzo, è solo politica. E invece qualcosa si accese. Era come se quella promessa avesse dato il via a un’energia collettiva incredibile. Donazioni? Arrivarono da ogni angolo del pianeta. 840 milioni di euro raccolti in un batter d’occhio. Un fiume di speranza e di solidarietà che travolse ogni cinismo.
Poi iniziarono i lavori. E qui la parola “eroico” non è sprecata. Stabilizzare quelle mura, quelle pietre antiche, non fu semplice. Operai e ingegneri si arrampicavano, sospesi nel vuoto, lavorando senza sosta, anche sotto il peso di un mondo che guardava. Ogni giorno era una lotta contro il tempo, una corsa tra tecnologia futuristica e maestria artigianale. Scanner 3D e modellazione virtuale per i dettagli, e poi mani esperte di falegnami, scalpellini, vetrai. Mille persone, mille storie, mille mani che ricostruivano un sogno.
La guglia? Tornata identica, orgogliosa, come l’aveva immaginata Viollet-le-Duc. Il tetto? Una magia che unisce vecchio e nuovo. Tradizione e innovazione che si incontrano e si abbracciano. Era chiaro: non si trattava solo di mettere insieme pietre e legno. Si trattava di ricreare un cuore, di farlo battere di nuovo. E ci sono riusciti.
Una cerimonia per il mondo intero
Il 7 dicembre 2024, un giorno che è destinato a rimanere nella memoria. Quel suono, le campane di Notre-Dame, che tornavano a riempire l’aria dopo anni di silenzio. Era come un respiro trattenuto troppo a lungo, finalmente liberato. La gente, accalcata fuori, sembrava trattenere il fiato mentre l’arcivescovo di Parigi, Laurent Ulrich, con un pastorale di legno di quercia in mano, bussava alla porta. Tre colpi, secchi, profondi. E poi, quella porta che si apriva. Era un momento che sembrava gridare al mondo intero che Notre-Dame era viva.
Dentro, un’atmosfera che ti toglieva le parole. Canti gregoriani che si alzavano verso le volte, riempiendo ogni angolo con un suono antico, quasi sacro. Non era una celebrazione pomposa, no, era qualcosa di diverso. Era come se quelle note volessero abbracciare chiunque fosse lì, ricordare a tutti che c’è qualcosa di più grande, qualcosa che unisce. Tra gli ospiti, leader da ogni parte del mondo – Macron, Zelensky, tanti altri. E per un attimo, anche in un mondo che sembra sempre sull’orlo di spezzarsi, c’era un senso di unità. Speranza. Perché è questo che Notre-Dame riesce a fare: ricordarci che è possibile ricominciare.
Un futuro per tutti
Prima dell’incendio, erano milioni. Dodici, per essere precisi, quelli che ogni anno varcavano quelle porte, che camminavano sotto le sue volte altissime, che si perdevano tra la luce filtrata dai rosoni. Adesso? Le previsioni dicono quindici milioni. Quindici milioni di cuori pronti a lasciarsi incantare. Ma come fai a gestire un flusso così enorme? Hanno dovuto ripensare tutto. Prenotazioni online, controlli biometrici – sì, hai capito bene, impronte digitali e tutto il resto – perché oggi il mondo è così, tra bellezza e tecnologia. Si stanno preparando. Perché Notre-Dame non può permettersi di chiudere le porte a nessuno.
Cosa offre oggi Notre-Dame? Percorsi guidati in 12 lingue, esperienze di realtà aumentata per rivivere la cattedrale com’era prima del disastro e spazi finalmente accessibili a tutti, grazie ad ascensori e rampe.
Il significato di questa rinascita
Notre-Dame ha sempre rappresentato qualcosa di più grande: è un simbolo che resiste, che lotta. Con i suoi 850 anni di storia, ha visto tutto: guerre, rivoluzioni, e ora persino un incendio che sembrava averla distrutta. Ma è ancora qui. Nonostante tutto, con le sue pietre che raccontano storie e il suo spirito che batte ancora più forte.
Macron, quel giorno, lo ha detto chiaramente: “Notre-Dame è il cuore della nostra nazione“. E sai una cosa? Non si sbaglia. Perché guardarla oggi, dopo tutto quello che ha passato, è una lezione. È la prova che anche quando sembra finita, quando sembra che non ci sia più nulla da fare, si può ricominciare. Non si tratta di tornare a com’era ma di essere qualcosa di nuovo, di più grande. Notre-Dame è rinata. E con lei, c’è una nuova scintilla di speranza per tutti noi.
“Ci sono momenti in cui sembra che tutto sia perduto ma è proprio allora che si scopre la forza di ricostruire. Perché dalle ceneri nascono le storie più straordinarie.” (Junior Cristarella)
Attualità
Siria: Il giorno in cui tutto è cambiato
Certe notizie non sono solo cronaca: sono storia. La caduta di Damasco, simbolo di oltre mezzo secolo di dominio della famiglia Assad, segna uno di quei momenti in cui il mondo trattiene il fiato. Dopo 24 anni di potere autoritario, Bashar al-Assad ha lasciato la capitale e con lui si è dissolto un regime che sembrava immutabile. Ma com’è stato possibile arrivare a questo punto? E cosa significa per il futuro della Siria?
Una caduta tanto rapida quanto inaspettata
Le immagini che arrivano da Damasco lasciano senza parole. Statue di Assad abbattute, prigionieri politici liberati, folle che gridano libertà. Ma dietro a queste celebrazioni c’è una storia di mesi, anni di lotta. Le forze ribelli hanno avanzato velocemente, conquistando prima Aleppo, poi Homs, e infine Deir ez-Zor. Ogni città, un pezzo di domino caduto.
E quando si è arrivati alla capitale, tutto è sembrato quasi inevitabile. “È stato come un castello di carte”, racconta un testimone locale. Le truppe lealiste erano già stanche, demoralizzate. Il supporto internazionale per Assad – storicamente saldo, soprattutto dalla Russia – si è lentamente eroso. Vladimir Putin, concentrato su altre crisi più vicine ai suoi confini, ha ridotto la sua presenza militare. E così, in poche ore, tutto è cambiato.
Un’uscita di scena drammatica
La fuga di Assad è avvolta nel mistero, ma un elemento è chiaro: è avvenuta in fretta e con discrezione. Testimoni hanno notato movimenti insoliti al palazzo presidenziale nelle prime ore del mattino. Secondo fonti del New York Times, il Presidente avrebbe lasciato la Siria su un aereo privato diretto verso una destinazione sconosciuta. La Russia? L’Iran? Nessuno lo sa con certezza.
Mentre lui scompare, il popolo siriano resta con un misto di sollievo e incertezza. “Abbiamo atteso questo momento per decenni”, dice un manifestante nel centro di Damasco. Ma ora? Chi prenderà il comando? E come si eviterà che il vuoto di potere venga riempito da estremisti?
Le celebrazioni e le paure
Le immagini delle celebrazioni sono potenti: bandiere sollevate, cori spontanei, lacrime di gioia. Ma non è tutto rose e fiori. Nelle zone rurali, gruppi come ISIS e Al-Qaeda rimangono attivi, pronti a sfruttare ogni spiraglio. I leader ribelli stanno già lavorando per stabilire un governo provvisorio ma il percorso è accidentato. Ricostruire un paese distrutto non è facile, soprattutto con ferite ancora aperte.
La comunità internazionale osserva
E il resto del mondo? Le reazioni sono state contrastanti. Stati Uniti e Unione Europea hanno accolto con favore la caduta del regime, ma sono cauti. “La transizione deve essere inclusiva”, ha dichiarato un portavoce europeo. Le Nazioni Unite sottolineano che la riconciliazione è essenziale per evitare una nuova spirale di caos.
E poi ci sono i Paesi vicini, come Turchia e Arabia Saudita, che osservano con attenzione. Per loro, la stabilità della Siria è una questione strategica. Ogni mossa è calcolata, ogni dichiarazione pesa come un macigno.
Un conflitto devastante, una speranza fragile
La guerra in Siria non ha solo lasciato cicatrici: ha stravolto vite, cancellato sogni, spezzato famiglie. Pensa a 500.000 persone. Non sono numeri. Sono storie finite. Volti, risate, progetti mai realizzati. Dal 2011, è come se il tempo si fosse fermato per milioni di siriani, costretti a lasciare le loro case, i loro quartieri, i loro ricordi. Le città? Macerie. Non solo palazzi, ma comunità intere. E le ferite? Non si vedono sempre. Sono nei cuori, nei silenzi, negli sguardi di chi è rimasto.
Eppure, qualcosa resiste. Una scintilla, un briciolo di speranza. Fragile, sì, come una fiamma che si spegne al primo soffio di vento. Ma c’è. Ed è reale. Il popolo siriano è davanti a un bivio: ricostruire, pezzo dopo pezzo, un Paese che sia finalmente libero, giusto, per tutti. Oppure cedere al caos, alle divisioni, al rancore.
E qui non si tratta solo di loro. Il mondo non può chiudere gli occhi. La comunità internazionale ha un ruolo. Un dovere. L’umanità intera deve fare un passo avanti, tendere una mano, restare. Perché abbandonare un popolo nel momento più buio sarebbe, in fondo, abbandonare noi stessi.
Un nuovo capitolo
La pagina di Assad è stata voltata ma la storia della Siria è tutt’altro che scritta. Ora viene il difficile, quello vero: ricostruire, rimettere insieme i cocci, cercare di capire cosa significa davvero libertà dopo tanto buio. Sarà una salita ripida, piena di inciampi, eppure – finalmente – c’è una speranza che non sembra un miraggio. Una speranza concreta, anche se fragile.
La Siria è come una fenice, che cerca di rinascere dalle sue ceneri. Non tutto è chiaro, non tutto è facile. Ma chi ha vissuto il buio più nero sa riconoscere la luce, anche quando è solo un filo all’orizzonte. E mentre il mondo osserva, quasi trattenendo il fiato, la Siria muove i suoi primi passi verso un futuro che non deve essere perfetto ma può, finalmente, essere diverso. Non sarà facile, ma… chi ha vissuto il buio più profondo sa che ogni spiraglio di luce può fare la differenza.