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Intervento al cervello da sveglio, in sala operatoria suona...

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Intervento al cervello da sveglio, in sala operatoria suona i tamburi

L'operazione all'ospedale di Cremona, il paziente 39enne sta bene

Un momento dell'operazione chirurgica (Immagine messa a disposizione con licenza CC-BY 3.0 IT)

Dell'intervento subìto qualche giorno fa all'ospedale di Cremona, Sergio ricorda poco: la preparazione, il momento dell'anestesia, un sapore cattivo in bocca. I medici che lo chiamano per nome mentre è "sotto i ferri", il risveglio, l'occhio destro che non si apre bene. In sala operatoria riconosce la musica di sottofondo che ha scelto e, su indicazione dei sanitari, inizia a tenere il ritmo, con gesti fluidi e precisi, battendo su due piccoli tamburi recuperati per l'occasione. Nel frattempo, i chirurghi armeggiano alle sue spalle, ultimando le manovre per rimuovere un grosso tumore dall'insula. "Un'area molto delicata del cervello da cui dipendono funzioni importanti come il linguaggio, il movimento e la creatività. Per questo - spiega Antonio Fioravanti, che ha diretto l'équipe di Neurochirurgia dell'ospedale nel 65esimo intervento complesso di 'chirurgia da sveglio' - far suonare il paziente durante l'operazione è stato clinicamente decisivo".

Il paziente - 39 anni, fisico criogenico, ricercatore a Barcellona - sta bene. Seduto sul letto dell'ospedale, gambe incrociate, non si capacita di quello che è accaduto: "Fa impressione pensare che qualcuno abbia toccato il mio cervello, il luogo dei pensieri, dei sentimenti e della memoria; una specie di organo sacro, ben protetto nella sua scatola cranica". Sergio si è detto "molto contento di tornare a casa per Natale e stare con la mia famiglia che mi è stata di grande conforto. So che mi attendono cicli di terapie". Ma intanto racconta: "Sono sorpreso di essermi potuto alzare subito dal letto, parlo normalmente, le mie mani si muovono come voglio".

Fino a qualche anno fa Sergio suonava la batteria. "Mai avrei pensato di esibirmi in sala operatoria in una condizione così difficile, mi sembrava di vivere dentro un sogno", sorride. Quando i chirurghi gli hanno chiesto di smettere, ha rilanciato: "Posso suonare ancora 10 minuti?". La diagnosi di Glioma (a basso grado) è arrivata il 10 novembre scorso, dopo alcuni accertamenti fatti in un ospedale di Barcellona, in seguito a improvvise crisi epilettiche. Da quel momento ci sono stati due consulti in Spagna (dove Sergio vive da 8 anni) e uno in Italia, poi la visita in telemedicina con la Neurochirurgia di Cremona e la scelta. "Affrontare un'operazione come questa spaventa, ma non l'ho vissuta come una violazione del corpo, anzi. È stato come mettere la mia vita in buone mani. La paura c'è ed è grande, ti segna", dice Sergio, che aggiunge: "Ho deciso di fidarmi ciecamente dei medici e della scienza. A una persona che si trova nella mia situazione direi di non scoraggiarsi, se non affronti l'intervento poi non lo racconti".

"La chirurgia da sveglio, praticata all'ospedale di Cremona da 5 anni - spiega Fioravanti - è una metodica molto sofisticata che consente di dialogare e interagire con il paziente durante l'operazione. Questo garantisce una specie di doppio controllo in tempo reale rispetto all'andamento dell'intervento che, nel caso specifico, era molto complesso. Sergio, infatti, oltre ad essere un giovane uomo, è ambidestro e bilingue: riuscire a preservare entrambe le funzioni (linguaggio e movimento) era il nostro obiettivo". Per raggiungerlo, oltre all'interazione fra medico e paziente, "in sala operatoria abbiamo utilizzato anche il 'navigatore', una guida di massima precisione che, insieme alla fluorescenza (tecnica che colora le cellule tumorali) ci ha aiutato a circoscrivere l'area da rimuovere e creare le migliori condizioni per mantenere integre le sue abilità", continua il camice bianco.

La chirurgia da sveglio è una tecnica molto coinvolgente. "Si crea una relazione simbiotica con il paziente, ogni volta è un’emozione diversa. Mentre parlavo con Sergio e lui rispondeva, muoveva le mani, suonava, mi rendevo conto dell'andamento dell’intervento, è difficile spiegare cosa ho provato in quel momento", dice Fioravanti. Certo, puntualizza Sara Subacchi, neuropsicologa, "non tutti i pazienti sono candidabili alla chirurgia da sveglio, ci vuole una certa attitudine psicologica e cognitiva, un buon controllo dell'ansia, delle emozioni e dello stress. Nei giorni che precedono l'ingresso in sala operatoria il paziente viene preparato attraverso la simulazione di quello che accadrà: la postura da tenere, il momento del risveglio, i test a cui verrà sottoposto. Non ci devono essere sorprese".

Nel caso di Sergio, continua, "la preparazione ha previsto anche l’uso delle percussioni, un elemento a lui familiare, che lo ha aiutato a restare calmo e concentrato. La sua performance durante l'intervento è stata fondamentale per valutare la sua capacità di muovere le mani, di tenere il ritmo in modo coordinato, di misurare la forza e molti altri aspetti". Sergio, ripercorre la responsabile della Neuroanestesia Elena Grappa, "si è dimostrato una persona lucida, molto razionale, pacata. In questi casi, il paziente viene addormentato con una tecnica anestesiologica particolare che contempla la necessità di poterlo risvegliare, al momento opportuno, con la massima tranquillità. La fase da sveglio è la più delicata, richiede il continuo monitoraggio dei parametri, la gestione dei tempi". Prima dell'intervento, i neuroradiologi disegnano la mappa del cervello a colori, come spiega Claudia Ambrosi, direttore della Neuroradiologia. Sergio è stato sottoposto a due test specifici: "Abbiamo eseguito un test di produzione verbale, sia in italiano che in inglese, mappando le principali aree del linguaggio. Il secondo test era di tipo motorio, mediante esecuzione di movimenti fini delle dita, per tracciare, in modo analogo, la mappa dell'area motoria", conclude l'esperta.

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E’ ‘ipnosi collettiva da smartphone’ ai...

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Di Frenna: "Appello al concertone non basta. Serve di più, serve educazione digitale e se volti noti vogliono fare la differenza facciano pressione su istituzioni"

Ermal Meta durante il concerto dell'1 maggio a Roma

Enzo Di Frenna, da anni paladino anti-tecnostress, ha un nome per il fenomeno che si è potuto osservare fra il pubblico al Concertone dell'1 maggio: "Ipnosi collettiva da smartphone", la chiama. "La si vede ai concerti", dove ormai gli spalti sono illuminati a giorno dalle luci blu dei telefonini, con la videocamera immancabilmente attivata, "ma banalmente anche in metropolitana, dove praticamente tutti viaggiano con la testa china sullo schermo". E gli appelli, come quello lanciato da Achille Lauro al pubblico che ieri affollava il Circo Massimo di Roma ("Tutti i cellulari in tasca, grazie. Domani lo raccontate", ha detto il cantante), o quello lanciato appena qualche giorno prima persino dal Papa ("Lascia il cellulare e incontra le persone"), "non bastano", evidenzia all'Adnkronos Salute il presidente di Netdipendenza Onlus, organizzazione che si occupa di prevenzione del tecnostress. "Perché sono qualcosa di fugace che alimenta una fugace notizia estemporanea. Qualcuno la leggerà, qualcuno per il tempo di una canzone metterà pure in tasca lo smartphone, ma poi di fatto tornerà alle sue abitudini".

Serve di più, riflette. Serve "educazione digitale, formazione per addestrare le persone a gestire l'apparecchio. E serve insegnarlo fin dalle scuole". Se i volti noti "vogliono veramente fare la differenza", dice l'esperto, "allora devono piuttosto fare pressione sulle istituzioni perché affrontino strutturalmente il problema". Di Frenna parla di "ipnosi", per spiegare cosa spinge a non staccarsi dal cellulare neanche di fronte a un'esperienza coinvolgente come quella della musica dal vivo, per un motivo preciso: "Non ci si accorge di ciò che si sta facendo", si ha il cellulare in mano e "ci si estranea dalla realtà, non si è più neanche consapevoli. Milioni di cellulari riprendono il palco e chi è dietro a quello schermo è ipnotizzato dalla realtà virtuale. Tra la persona e l'artista in quel momento c'è un filtro. Guardiamo alla realtà non più in maniera diretta, ma con gli occhi della videocamera, del cellulare. E questo è un problema serio dal punto di vista psicologico".

Succede qualcosa di bello? Si sta vivendo un'esperienza piacevole? "La frase ricorrente è: 'Aspetta, faccio una foto, faccio un video' - osserva l'esperto - Immagini che quasi certamente finiranno nel dimenticatoio, in un archivio che nessuno aprirà più. O diventano strumenti per mostrare agli altri qualcosa per qualche secondo sui social". "Gli psicologi - continua Di Frenna - avevano lanciato diversi moniti in passato ed è quello che sta succedendo. E' un'espressione della 'telefono-dipendenza', forse la più importante oggi se pensiamo che il 95% delle persone fruisce di qualsiasi tipo di informazione attraverso il cellulare. Con il cellulare si va sui social, si guarda il meteo, si interrogano motori di ricerca, si controllano le email. Quasi tutto viene filtrato dallo smartphone. E' un'ipnosi sempre più dilagante. Anche perché adesso la grande novità è che nei telefonini sta entrando l'intelligenza artificiale, che capisce cosa vuoi e ti dà quello che corrisponde alle tue emozioni e desideri. Avremo migliaia e migliaia di persone, in particolare ragazzi, che non si accorgono di quello che riesce a fare l'algoritmo dell'Ai quando hanno il cellulare in mano".

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Ipnosi da smartphone, esperto: “Appello al...

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Ipnosi da smartphone, esperto:

Enzo Di Frenna, da anni paladino anti-tecnostress, ha un nome per il fenomeno che si è potuto osservare fra il pubblico al Concertone dell'1 maggio: "Ipnosi collettiva da smartphone", la chiama. "La si vede ai concerti", dove ormai gli spalti sono illuminati a giorno dalle luci blu dei telefonini, con la videocamera immancabilmente attivata, "ma banalmente anche in metropolitana, dove praticamente tutti viaggiano con la testa china sullo schermo". E gli appelli, come quello lanciato da Achille Lauro al pubblico che ieri affollava il Circo Massimo di Roma ("Tutti i cellulari in tasca, grazie. Domani lo raccontate", ha detto il cantante), o quello lanciato appena qualche giorno prima persino dal Papa ("Lascia il cellulare e incontra le persone"), "non bastano", evidenzia all'Adnkronos Salute il presidente di Netdipendenza Onlus, organizzazione che si occupa di prevenzione del tecnostress. "Perché sono qualcosa di fugace che alimenta una fugace notizia estemporanea. Qualcuno la leggerà, qualcuno per il tempo di una canzone metterà pure in tasca lo smartphone, ma poi di fatto tornerà alle sue abitudini".

Serve di più, riflette. Serve "educazione digitale, formazione per addestrare le persone a gestire l'apparecchio. E serve insegnarlo fin dalle scuole". Se i volti noti "vogliono veramente fare la differenza", dice l'esperto, "allora devono piuttosto fare pressione sulle istituzioni perché affrontino strutturalmente il problema". Di Frenna parla di "ipnosi", per spiegare cosa spinge a non staccarsi dal cellulare neanche di fronte a un'esperienza coinvolgente come quella della musica dal vivo, per un motivo preciso: "Non ci si accorge di ciò che si sta facendo", si ha il cellulare in mano e "ci si estranea dalla realtà, non si è più neanche consapevoli. Milioni di cellulari riprendono il palco e chi è dietro a quello schermo è ipnotizzato dalla realtà virtuale. Tra la persona e l'artista in quel momento c'è un filtro. Guardiamo alla realtà non più in maniera diretta, ma con gli occhi della videocamera, del cellulare. E questo è un problema serio dal punto di vista psicologico".

Succede qualcosa di bello? Si sta vivendo un'esperienza piacevole? "La frase ricorrente è: 'Aspetta, faccio una foto, faccio un video' - osserva l'esperto - Immagini che quasi certamente finiranno nel dimenticatoio, in un archivio che nessuno aprirà più. O diventano strumenti per mostrare agli altri qualcosa per qualche secondo sui social". "Gli psicologi - continua Di Frenna - avevano lanciato diversi moniti in passato ed è quello che sta succedendo. E' un'espressione della 'telefono-dipendenza', forse la più importante oggi se pensiamo che il 95% delle persone fruisce di qualsiasi tipo di informazione attraverso il cellulare. Con il cellulare si va sui social, si guarda il meteo, si interrogano motori di ricerca, si controllano le email. Quasi tutto viene filtrato dallo smartphone. E' un'ipnosi sempre più dilagante. Anche perché adesso la grande novità è che nei telefonini sta entrando l'intelligenza artificiale, che capisce cosa vuoi e ti dà quello che corrisponde alle tue emozioni e desideri. Avremo migliaia e migliaia di persone, in particolare ragazzi, che non si accorgono di quello che riesce a fare l'algoritmo dell'Ai quando hanno il cellulare in mano".

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Il fisiatra: “Infortuni all’anca in aumento,...

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"Problematica segnalata in una percentuale che varia dall'8% al 27% dei professionisti, tra le cause la posizione sui colpi"

Sinner e il fastidio all'anca, il fisiatra:

Addio al torneo Atp 1000 di Madrid da parte di Jannik Sinner. "La mia anca mi ha dato fastidio questa settimana e sta lentamente diventando più dolorosa", ha annunciato il tennista sui social, riaccendendo i timori su una articolazione che vede in crescita il numero degli infortuni tra chi pratica il tennis ad altissimo livello. "Il dolore all'anca e gli infortuni a tale livello sono un problema crescente per i tennisti. Sebbene molto spesso siano altre le strutture coinvolte dal sovraccarico tipico del tennis, in realtà le problematiche all'anca sono state segnalate in una percentuale che varia dall'8% al 27% dei giocatori di tennis", spiega all'Adnkronos Salute Andrea Bernetti, vice presidente della Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer).

Il numero di infortuni all'anca nei giocatori di tennis professionisti maschili "è aumentato da meno di 10 nel 2012 a oltre 150 nel 2016. Nella storia dell'Atp Tour, diversi famosi giocatori professionisti classificati tra i primi 10 (tra cui Magnus Norman, Gustavo Kuerten, Lleyton Hewitt, Andy Murray, Bob Bryan e Tommy Haas) hanno subito infortuni all'anca", ricorda Bernetti.

"Il caso di Sinner però non è classificabile. Al momento sappiamo solo che ha un dolore all'anca, non meglio specificato, che lo ha costretto al ritiro dal torneo di Madrid - chiarisce il vice presidente dei medici fisiatri - Ci auguriamo che sia una problematica transitoria e che abbia deciso insieme al suo fantastico staff di preservarsi per i prossimi tornei" - tra poco inizieranno gli Internazionali Bnl d'Italia a Roma - "soprattutto in considerazione dell'elevato numero di partite che i tennisti professionisti giocano ogni anno".

Ma per quale motivo l'anca è diventata un problema per i tennisti? "Il tennis - risponde Bernetti - è uno sport che induce un alto carico sull'articolazione dell'anca perché comporta movimenti di inizio e arresto rapidi, intensi e ripetuti, durante i quali i giocatori effettuano cambi di direzione improvvisi mentre corrono e colpiscono la palla ad alta velocità. In particolare, il diritto impone un elevato carico su anche e ginocchia. Durante il diritto i giocatori possono usare diversi tipi di posizioni, che si riferiscono alla posizione dei piedi e delle anche durante il colpo: le posizioni neutrale, semiaperta e aperta. Per la posizione neutrale - illustra l'esperto - i piedi e le anche del giocatore sono perpendicolari alla rete, mentre sono paralleli alla rete per la posizione aperta 'open'. La posizione semiaperta descrive qualsiasi posizione dei piedi tra le posizioni neutrale e aperta. Attualmente, a causa dell'accelerazione del gioco negli ultimi decenni, i giocatori di tennis di alto livello assumono maggiormente la posizione open, per risparmiare tempo durante i colpi di diritto dalla linea di fondo".

"Si ipotizza che la prevalenza del colpo di diritto in posizione open possa spiegare almeno in parte l'aumento degli infortuni all'anca nei giocatori di tennis di alto livello. Una delle patologie dell'anca più frequenti nel tennis d'élite è l'impingement femoroacetabolare (Fai), caratterizzato da un contatto anomalo della porzione prossimale del femore con l'acetabolo. Con il carico ripetitivo, questo conflitto può provocare danni all'articolazione. Alcuni studi hanno mostrato che fino al 62% dei giovani tennisti d'elite possa essere a rischio per l'impingement femoroacetabolare", conclude il fisiatra.

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