Il lavoro è la causa dei nostri malesseri? Serenis: nell’80% dei casi, no
Un recente studio condotto dalla piattaforma Serenis, focalizzata sul benessere mentale, ha rivelato che l’80% dei pazienti che avviano un percorso di psicoterapia segnalando difficoltà legate al lavoro non riceve una diagnosi di conferma in relazione a tali problemi.
L’indagine interna condotta da Serenis su un campione di oltre 3000 individui ha evidenziato che solo il 20% dei pazienti che iniziano un percorso di psicoterapia segnalando problematiche lavorative riceve una diagnosi correlata. Dall’analisi dei dati, emerge che le donne rappresentano il gruppo più numeroso, con una percentuale del 67%, mentre la fascia di età compresa tra i 25 e i 35 anni è quella più colpita, coinvolgendo il 46% del campione. In contrasto, la categoria degli individui di età superiore ai 45 anni risulta la meno coinvolta, con solo il 9%manifestante disturbi in questa area.
Quali sono i disturbi più comuni dietro al malessere lavorativo?
Dall’indagine emerge che, tra le persone che si rivolgono agli psicoterapeuti di Serenis dichiarando difficoltà legate al lavoro, il 37% presenta un disturbo di ansia, il 22% intraprende un percorso di crescita personale, il 19% affronta problemi legati alla mancanza di autostima, il 17% ha difficoltà relazionali, l’8% segue un percorso per gestire lo stress, il 7% affronta crisi esistenziali, il 6% lavora sull’assertività, il 5% presenta problemi di coppia, il 4% ha un disturbo depressivo e il 3% inizia un percorso per la gestione dei conflitti. La restante parte delle persone si rivolge agli psicoterapeuti per disagi legati al lutto, a traumi, ai disturbi dell’umore, agli attacchi di panico, al comportamento alimentare, al sonno e altre sfide personali.
Per quale ragione, dunque, si tende ad additare il lavoro come la causa dei nostri malesseri? Martina Migliore, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale di Serenis, commentando i dati della ricerca, spiega: “Il posto di lavoro è il luogo dove passiamo la maggior parte del nostro tempo, circa 60.000 ore della nostra vita spese a lavorare in media, e spesso ci sottopone alle pressioni maggiori: è naturale quindi che faccia da trigger per altre difficoltà psicologiche. In terapia, in generale, si indagano le difficoltà che questo genera nel comportamento quotidiano: non a caso, la capacità di portare avanti una vita lavorativa autonoma è uno dei parametri anche psichiatrici per la salute mentale. Il mondo del lavoro, in ogni caso, sta cambiando a velocità sostenuta, e spesso non si trova in linea con la preparazione accademica dei nostri pazienti. Questo può generare una confusione negli obiettivi e nelle prospettive, anche considerando il peso delle aspettative della famiglia, con le quali viene a crearsi inevitabilmente un gap molto ampio”.

Cerchi qualcosa in particolare?
Pubblichiamo tantissimi articoli ogni giorno e orientarsi potrebbe risultare complicato.
Usa la barra di ricerca qui sotto per trovare rapidamente ciò che ti interessa. È facile e veloce!
Lavoro
Aggiornamento RSPP datore di lavoro: le ultime novità

Tutti i datori di lavoro sono consapevoli del valore dell’aggiornamento RSPP. Chiunque si trovi a gestire un’impresa, infatti, sa quanto sia importante il responsabile del servizio di prevenzione e protezione in materia di sicurezza sul lavoro. La figura RSPP corrisponde a quella del soggetto che ha la responsabilità di prevenire i rischi che si possono verificare e concretizzare sul posto di lavoro. Ciò vuol dire poter garantire la sicurezza di tutti i lavoratori, un obiettivo che può essere conseguito con l’implementazione di misure di prevenzione che sono finalizzate proprio a limitare gli incidenti sul lavoro. Proprio perché stiamo parlando di una figura di importanza fondamentale, è opportuno un aggiornamento costante.
Il decreto sull’aggiornamento RSPP
Poco tempo fa è stato introdotto dal ministero del Lavoro un decreto nuovo che concerne proprio l’aggiornamento RSPP datore di lavoro. Si tratta di un testo normativo che individua nuove regole e specifica i requisiti che devono essere soddisfatti in materia di aggiornamento delle competenze. In base al decreto, i dirigenti e i datori di lavoro che svolgono la mansione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione sono tenuti a seguire, una volta ogni 5 anni, un corso di aggiornamento, la cui durata è variabile a seconda della tipologia di azienda: almeno 28 ore per le imprese che hanno oltre 50 dipendenti e almeno 14 ore per le imprese che hanno meno di 50 dipendenti.
Aggiornamento RSPP: ecco perché è così importante
Come si può facilmente intuire, l’aggiornamento RSPP datore di lavoro risulta indispensabile per poter garantire la massima sicurezza di qualunque ambiente di lavoro. Il più recente aggiornamento del decreto assicura che il responsabile del servizio di prevenzione e di protezione conosca la normativa più recente e tutte le procedure che devono essere seguite e rispettate in riferimento alla sicurezza sul lavoro. Il testo, inoltre, permette a chi svolge il ruolo di RSPP di individuare nuovi rischi potenziali e programmare delle misure di prevenzione adeguate.
Aggiornamento RSPP: a chi rivolgersi
Per essere certi di rispettare la normativa in materia di aggiornamento RSPP datore di lavoro, è necessario che i corsi che vengono scelti dai datori di lavoro soddisfino i requisiti che sono indicati nel nuovo decreto. Tali corsi possono essere frequentati in modalità online o presso istituti di formazione accreditati; in tutti i casi, però, l’aggiornamento deve essere effettuato una volta ogni 5 anni. L’aggiornamento rappresenta in primo luogo una responsabilità legale, e al tempo stesso un passo in avanti in direzione della costituzione di un ambiente di lavoro che sia efficiente e caratterizzato dai più alti standard di sicurezza. Il decreto più recente ha consentito ai datori di lavoro di conoscere le linee guida da seguire per l’implementazione di tale aggiornamento. Le aziende si possono rivolgere a Progetto81, una realtà che vanta una lunga esperienza nel campo della formazione in materia di sicurezza sul lavoro.
Il corso online di Progetto81
Progetto81, in particolare, offre la possibilità di seguire un corso di aggiornamento RSPP online, della durata di 40 ore, erogato tramite videolezioni. Si tratta di un corso dedicato a tutti i macro settori ATECO, svolto attraverso la modalità e-learning che permette ai fruitori di seguire le lezioni in qualsiasi momento della giornata e in qualunque giorno della settimana. Infatti, la piattaforma e-learning che viene utilizzata è accessibile 7 giorni su 7 e 24 ore su 24. Al termine del corso è previsto un esame finale, che consiste in un test online con quesiti a risposta multipla; se l’esame non viene superato, è comunque possibile ripetere il test.
La figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e l’obbligo di aggiornamento
Vale la pena di ricordare che se l’aggiornamento RSPP non viene effettuato entro la scadenza quinquennale prevista, non si può più rivestire il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione e protezione in quanto non si è più in possesso dei requisiti necessari; una volta soddisfatto l’obbligo formativo, il ruolo può essere nuovamente ricoperto. Gli RSPP sono necessari non solo nelle aziende private, ma anche presso gli enti pubblici che prevedono la presenza di lavoratori o comunque di soggetti che possano essere equiparati ai lavoratori, come per esempio i tirocinanti. Il responsabile del servizio di prevenzione o protezione può essere interno o esterno all’azienda.
Economia
Pensioni in Italia: strategie reali per puntare a 1.500-2.000 euro netti

Sai quella sensazione strana, un misto tra ansia e speranza, quando si parla di pensioni? Ecco, ce l’abbiamo tutti. Prima o poi arriva quel momento in cui ti chiedi: “Ma quello che guadagno adesso… basterà?” E poi, la domanda delle domande: “Come si fa ad arrivare a quei benedetti 1.500, magari 2.000 euro al mese?” Perché sì, di numeri si tratta, ma anche di sogni, di paure, di futuro. Roba seria. Allora proviamo a capirci qualcosa, senza troppi tecnicismi, senza giri di parole. Così, dritti al punto, tra una regola complicata e una realtà che spesso ci coglie impreparati.
L’importanza del metodo di calcolo: la transizione dal retributivo al contributivo
Sappiamo che in Italia la pensione pubblica si è a lungo basata sul sistema retributivo, secondo cui si valutava la media degli ultimi stipendi e si erogava una percentuale (intorno al 2% annuo) per ogni anno di contributi. In pratica, con 40 anni di lavoro, molti potevano raggiungere anche il 70-80% dell’ultimo stipendio. Poi, la riforma del 1995 ha introdotto in modo graduale il sistema contributivo (per i contributi successivi al 1996), che tiene conto dell’intera vita lavorativa. Per capirci: si accumulano contributi (pari al 33% dello stipendio lordo per i dipendenti, in parte versati dal datore di lavoro), questi formano un “montante” che viene rivalutato di anno in anno. Quando si va in pensione, il montante si trasforma in una rendita tramite un coefficiente di trasformazione legato all’età di uscita.
In altre parole, più tardi si decide di smettere di lavorare, più alto sarà il coefficiente e quindi l’assegno annuo. Sembra semplice, ma c’è un rovescio della medaglia: se si hanno buchi di carriera, salari bassi o si va in pensione presto (magari a 62 anni), si rischia di incassare meno. Di conseguenza, i tassi di sostituzione – ossia la percentuale dell’ultima retribuzione sostituita dalla pensione – oggi faticano ad avvicinarsi ai livelli “generosi” di qualche decennio fa.
Quanto serve guadagnare per ottenere 1.500-2.000 euro netti?
Diciamolo in modo schietto: chi ambisce a una pensione sopra i 1.500 euro dovrà aver avuto, in media, stipendi piuttosto alti o aver lavorato senza sosta per molti anni. Secondo simulazioni citate da più fonti, un reddito netto di circa 1.800 euro al mese per 40 anni di contributi potrà generare (andando in pensione a 67 anni) un assegno compreso fra 1.150 e 1.600 euro netti. Per “sfiorare” i 2.000 euro, occorre puntare a retribuzioni ancora più consistenti (per esempio, 3.000 euro netti al mese in media) o a una carriera super-lunga, ritirandosi magari a 69-70 anni, quando il coefficiente di trasformazione diventa più vantaggioso.
Naturalmente, esistono tanti fattori che incidono ma la regola è questa: più anni di versamenti e stipendi più elevati corrispondono a una probabilità maggiore di raggiungere l’obiettivo dei 1.500-2.000 euro. Chi invece sta sui 1.300-1.500 euro netti rischia di fermarsi, senza integrazioni, a una pensione di 800-1.200 euro netti. È duro ammetterlo ma i numeri parlano chiaro.
L’età pensionabile: i 67 anni (e oltre) come punto di riferimento
Al momento, per la pensione di vecchiaia servono 67 anni e almeno 20 anni di contributi. Sì, è possibile andare in pensione prima con misure anticipate come la “Fornero” (42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 e 10 mesi per le donne) o con formule sperimentali (Quota 100 in passato, Quota 103 nel 2023), ma chi lo fa accetta di accumulare meno anni di versamento e di utilizzare coefficienti di trasformazione meno favorevoli, ottenendo quindi assegni spesso più bassi. Per chi vuole quegli agognati 1.500-2.000 euro netti, l’uscita anticipata diventa un lusso che quasi sempre penalizza in modo significativo.
In più, c’è un altro dettaglio fondamentale: questi requisiti non sono scolpiti nella pietra. Se l’aspettativa di vita crescerà, l’età di pensionamento potrebbe salire ancora, in base agli adeguamenti automatici previsti dalle normative. Già oggi, per chi non raggiunge una soglia minima d’importo (circa 1,5 volte l’assegno sociale), la pensione di vecchiaia può slittare fino a 71 anni.
Variabili che contano: buchi contributivi, rivalutazioni e retribuzione media
Il sistema contributivo valuta ogni singolo euro guadagnato dall’inizio della carriera. Significa che un lavoratore che negli ultimi anni guadagna tanto, ma ha avuto lunghi periodi di stipendio basso o disoccupazione (senza coperture figurative), si troverà comunque un montante contributivo “ridotto”. Da qui la necessità di ridurre il più possibile le interruzioni contributive o provare a riscattare certi periodi, ove conveniente (ad esempio, gli anni di laurea).
Dobbiamo anche considerare la rivalutazione annuale del montante, che dipende principalmente dall’andamento dell’economia italiana (PIL). Se il paese cresce poco, i montanti non si incrementano granché. Questo genera un impatto reale sul futuro assegno, perché dopo 20-30 anni di lavoro le differenze si sentono. E poi ci sono i coefficienti di trasformazione che, essendo collegati alla speranza di vita, sono soggetti a revisioni periodiche. Già tra il 2024 e il 2025 si prevede un taglio di circa il 2% di questi coefficienti, e potrebbe non essere l’ultima volta.
Previdenza integrativa: un sostegno prezioso per colmare il gap
Chiunque stia inseguendo la soglia dei 1.500-2.000 euro conosce l’importanza di una pensione complementare. Non è solo un’opzione da “finanziaristi incalliti”: aderire a un fondo pensione – che sia negoziale (di categoria) o individuale (PIP, fondi aperti) – può incrementare il tasso di sostituzione anche di 7-10 punti percentuali. Tradotto: se un lavoratore arriverebbe da solo al 60% dello stipendio finale, con una buona integrativa potrebbe spingersi al 70% o più. Bastano queste cifre per capire come mai si parli tanto di fondi pensione. Eppure, in Italia, solo un terzo dei lavoratori risulta iscritto a una forma di previdenza complementare. Sembra incredibile ma è così.
C’è poi la questione della tempistica. Partire presto – a 25 o 30 anni – significa versare poco alla volta ma per molto tempo, sfruttando la capitalizzazione composta (gli interessi su interessi). Farlo tardi, invece, costringe a sforzi maggiori in un lasso di tempo ridotto e chiaramente, si perde parte dei benefici fiscali (deducibilità dei contributi, tassazione agevolata sui rendimenti, e così via).
Futuro incerto, ma pianificazione necessaria
Le previsioni dicono che, tra qualche decennio, i tassi di sostituzione potrebbero ridursi ulteriormente. La Ragioneria Generale dello Stato stima che, entro il 2050, un lavoratore dipendente con 38 anni di contributi potrebbe trovarsi intorno a un 59% di sostituzione netta, mentre nel 2020 la media era oltre il 70%. Non serve un genio per capire che chi percepisce salari modesti rischia di trovarsi molto lontano da 1.500-2.000 euro.
D’altro canto, c’è una crescente consapevolezza: possibili riforme future potrebbero introdurre ancora più flessibilità in uscita, ma non è detto che ciò aiuti a raggiungere pensioni alte, anzi. Spesso, la flessibilità si traduce in penalizzazioni: meno anni di contributi o coefficienti penalizzanti. Nel frattempo, si discute anche di “pensione di garanzia” per i giovani con redditi bassi e carriere discontinue ma sono idee in evoluzione, nulla di definitivo.
Verso un traguardo possibile, ma impegnativo
Raccontarlo con onestà è doveroso: non è impossibile mirare a 1.500-2.000 euro netti di pensione, ma occorrono retribuzioni sopra la media, un arco di versamenti piuttosto lungo (idealmente 40 e più anni) e magari un aiuto da un buon fondo pensione. Non vogliamo scoraggiare nessuno: il sistema pubblico offre comunque un sostegno, e certi correttivi (come il posticipo dell’età pensionabile) possono incrementare l’importo.
Tuttavia, non si scappa: serve un piano ragionato che parta fin da quando si è (relativamente) giovani. Andare a tentoni, rimandare la questione o immaginare che “tanto qualcosa arriverà” può portarci ad amari risvegli. Noi, da parte nostra, continueremo ad approfondire e a fare il possibile per tenervi informati nel modo più limpido. L’obiettivo di una pensione dignitosa e adeguata, alla fine, riguarda tutti. E il momento di pensarci, spesso, è proprio adesso.
Attualità
I giovani snobbano i ruoli dirigenziali: il management non è più di moda?

C’era un tempo in cui la scalata aziendale era un obiettivo chiaro e condiviso: fare carriera significava puntare alla scrivania con la vista migliore, al titolo di “manager” e ai benefit annessi. Ma oggi qualcosa è cambiato. La Generazione Z, i giovani nati tra la fine degli anni ’90 e il 2010, sembra tutt’altro che entusiasta all’idea di assumere ruoli manageriali tradizionali. Secondo una ricerca condotta da Robert Walters su 3.600 giovani lavoratori, il 72% preferirebbe progredire in un ruolo individuale piuttosto che diventare un manager responsabile di altre persone.
Un dato che non stupisce se consideriamo le dinamiche attuali del mercato del lavoro. Il Work Change Report di LinkedIn mostra come il concetto di carriera stia rapidamente mutando, con i lavoratori di oggi destinati a cambiare in media il doppio dei ruoli rispetto a quelli di quindici anni fa. Il management tradizionale, con le sue gerarchie e le sue rigidità, è sempre meno appetibile per una generazione che punta alla flessibilità e all’autonomia.
Il peso dello stress e le nuove priorità
Un altro dato significativo emerge dal Workforce Confidence Index di LinkedIn: il 69% della Gen Z italiana sarebbe disposto a lasciare il proprio lavoro se il manager non fosse all’altezza delle aspettative, contro il 46% dei Boomer. Questo suggerisce una relazione complessa con la figura del responsabile: mentre le generazioni precedenti erano più inclini a sopportare leadership discutibili pur di avanzare in carriera, i giovani di oggi vogliono ambienti di lavoro stimolanti e responsabili capaci di supportarli attivamente.
Non sorprende quindi che il 75% dei manager Millennial si dichiari sopraffatto e stressato dal carico di lavoro. Le nuove generazioni vedono i loro superiori vivere vite professionali logoranti, con e-mail a tutte le ore, responsabilità continue e un equilibrio vita-lavoro sempre più precario. Se a questo si aggiunge che, secondo lo studio di ADP, la maggior parte dei lavoratori ritiene che il proprio datore di lavoro potrebbe fare molto di più per lo sviluppo delle competenze, il quadro è chiaro: il middle management non è più un sogno, ma una trappola da evitare.
Founder e influencer crescono
Se la carriera manageriale non è più l’aspirazione massima, allora qual è l’alternativa? Sempre secondo LinkedIn, il secondo titolo professionale in più rapida crescita tra i laureati della Gen Z è “fondatore“. Il sogno non è più fare carriera dentro un’azienda, ma creare qualcosa di proprio, essere imprenditori o professionisti indipendenti.
A rafforzare questa tendenza c’è il fenomeno del conscious unbossing, ovvero la scelta consapevole di evitare ruoli di leadership tradizionali. Secondo Robert Walters, anche tra coloro che prevedono di assumere in futuro un ruolo manageriale, il 36% dichiara di non desiderarlo realmente.
Non è solo un tema di carriera imprenditoriale: la Gen Z è fortemente attratta da opportunità di lavoro che valorizzino la creatività e l’autenticità. Secondo i dati, oltre la metà dei giovani di oggi afferma che accetterebbe di diventare un influencer a tempo pieno se ne avesse l’opportunità. Perché gestire un team quando si può gestire il proprio brand personale e lavorare alle proprie condizioni?
Il management è morto? No, ma deve cambiare
Se le aziende vogliono attrarre e trattenere i talenti della Gen Z, devono ripensare il concetto stesso di leadership. I dati LinkedIn mostrano che il 50% della Gen Z e il 45% dei Millennial si sentono supportati dal proprio manager, mentre i dipendenti più anziani tendono a percepire meno sostegno. E ancora, il 42% degli italiani ritiene che sia necessario vedersi fisicamente con i propri responsabili per aspirare a una promozione, segno che il contatto umano e il supporto diretto giocano ancora un ruolo cruciale. Nel contesto italiano, questa trasformazione è ancora più marcata. Le donne, ad esempio, si sentono più supportate dai propri manager rispetto agli uomini (41% contro 28%), ma lamentano anche una maggiore difficoltà nel ricevere il giusto supporto a causa dello stress dei loro superiori (34%). Eppure, sono proprio le donne a mostrare una maggiore propensione a voler ricoprire ruoli manageriali (31% contro il 28% degli uomini), a dimostrazione che la leadership sta cambiando pelle e diventando più inclusiva.
Allo stesso tempo, il 34% dei lavoratori italiani ritiene di non essere adeguatamente retribuito per il proprio ruolo, con la soddisfazione che cala sensibilmente tra i più giovani (solo il 28% della Gen Z si sente ben pagato). Questo potrebbe spiegare perché molti scelgano strade alternative al management aziendale, preferendo percorsi più autonomi e remunerativi.
Più che una semplice avversione al management, la riluttanza della Gen Z riflette un cambiamento profondo nel mondo del lavoro. Le aziende che sapranno adattarsi a questa nuova realtà, abbandonando le rigide gerarchie del passato e adottando modelli di leadership più flessibili e orientati alla crescita, saranno quelle che prospereranno nel lungo periodo.