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Salute e Benessere

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Testa (Snami): “Non abbiamo firmato ipotesi Acn 2019-2021, troppa fretta”

Il presidente del Sindacato nazionale autonomo medici italiani sulla firma dell’Ipotesi di Accordo collettivo nazionale, valido per il triennio 2019-2021, tra la Sisac e le organizzazioni sindacali di categoria.

Testa (Snami):

“Lo Snami non ha ancora firmato l’ipotesi di intesa per il triennio 2019-2021. Motivo? A nostro parere è mancato il tempo che contraddistingue una trattativa. Di fatto, non ci è stato permesso di discutere una bozza che ci veniva presentata per la prima volta e la maggioranza dei sindacati ha firmato seduta stante”. Lo dichiara Angelo Testa, presidente del Sindacato nazionale autonomo medici italiani (Snami), in merito all’incontro che ha portato alla firma dell’Ipotesi di Accordo collettivo nazionale, valido per il triennio 2019-2021, tra la Sisac e le organizzazioni sindacali di categoria.

“Sono state recepite molte delle richieste che lo Snami porta avanti da tanto tempo – sottolinea Testa - mi riferisco alla libera professione, alla tutela delle donne e dei fragili, alla possibilità per i medici in pensione di sostituire i medici di medicina generale e alla gestione delle quote per gli extracomunitari. Bene anche il riconoscimento degli aumenti e degli arretrati che saranno corrisposti ai medici di medicina generale”. Tuttavia - si legge in una nota Snami - resta motivo di insoddisfazione l’impostazione del ruolo unico di assistenza primaria, come delineato dalla legge Balduzzi.

"Lo Snami ribadisce la storica contrarietà al ruolo unico. Dal 2012 sosteniamo che questo istituto porterà difficoltà e modalità lavorative non appetibili per i giovani medici. Il rischio di disaffezione e, peggio ancora, di mancato appeal della professione viene aumentato da questo ruolo giuridico - conclude Testa - Restano comunque aperte tante altre questioni che porteremo sul tavolo del prossimo Acn con l’obiettivo di migliorare ulteriormente le condizioni previste dall’accordo di ieri”.

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Invecchiare con poco testosterone, più rischi di mortalità:...

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La ricerca dell'Università dell'Australia Occidentale, i risultati di una revisione sistematica e una metanalisi che ha esaminato 11 studi su oltre 24mila partecipanti

Anziano - Fotogramma

Invecchiare con poco testosterone nel sangue potrebbe aumentare il rischio di morte negli uomini. E' quanto emerge da una revisione sistematica e una metanalisi che ha esaminato 11 studi su oltre 24mila partecipanti, per chiarire il legame tra ormoni sessuali, mortalità e malattie cardiovascolari nella popolazione maschile con l'avanzare degli anni. I risultati del lavoro, condotto da ricercatori dell'Università dell'Australia Occidentale, in collaborazione con colleghi di Australia, Europa e Nord America, sono pubblicati su 'Annals of Internal Medicine'.

L'analisi indica che "solo gli uomini con basse concentrazioni di testosterone totale avevano un rischio più alto di mortalità per tutte le cause". Un dato "chiave", secondo gli autori, è che "gli uomini con una concentrazione di testosterone inferiore a 7,4 nanomoli/litro avevano un rischio più elevato di mortalità per tutte le cause, indipendentemente dai livelli di" ormone luteinizzante "Lh. Gli uomini con una concentrazione di testosterone inferiore a 5,3 nmol/L avevano un rischio maggiore di morte cardiovascolare".

Dall'università di Washington, in un editoriale di commento, la ricerca viene descritta come "particolarmente preziosa per la sua metodologia rigorosa". Si tratta infatti del primo lavoro del genere a valutare studi prospettici di coorte che per dosare i livelli di testosterone hanno utilizzato la spettrometria di massa, considerato il metodo di misurazione più accurato. Per 9 degli studi esaminati, inoltre, gli autori hanno ottenuto i dati grezzi e rianalizzato i dati combinati. Questo ha permesso un'analisi più sofisticata dei risultati da più ricerche, producendo dati più solidi sull'associazione fra livelli testosterone e rischio di malattia e morte.

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Aviaria e rischio pandemia, l’Italia è pronta?

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L'epidemiologo Gianni Rezza all'Adnkronos Salute: "Piano pandemico aggiornato c'è, ma va approvato e ben finanziato". Il punto sulla trasmissione da uomo a uomo

Controlli medici per l'aviaria - Fotogramma /Ipa

Negli Usa il dibattito è già in corso: ci si sta preparando ad una eventuale pandemia di influenza aviaria? Se sulla rivista 'The Lancet' si evidenziano i passaggi fondamentali da non tralasciare - dal rapido sviluppo di test specifici H5 ad analisi virologiche continue per identificare i cambiamenti nel virus che potrebbero avere un impatto su adattabilità e trasmissibilità, dallo sviluppo e produzione di vaccini alla comunicazione chiara e trasparente col pubblico - esperti d'Oltreoceano come lo scienziato Eric Topol fanno notare che al momento "non si sta facendo tutto ciò molto bene" e occorre "prepararsi" alla possibilità di trasmissione dell'influenza aviaria di H5N1 da uomo a uomo. E l'Italia è pronta? "Noi dovremmo avere un piano pandemico aggiornato. Credo sia pronto, anche se non ancora approvato, mi sembra. Spero che avvenga presto, chiaramente con un finanziamento adeguato", evidenzia all'Adnkronos Salute l'epidemiologo Gianni Rezza.

"Topol conosce gli Stati Uniti e sa meglio di noi quello che si sta facendo - riflette l'ex Dg Prevenzione del ministero della Salute, oggi docente straordinario di Igiene all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - Ricordo, però, che negli Stati Uniti venne identificato il virus H1N1 nel 2009, che era emerso in Messico e venne identificato in California" e poi in altri Stati, prima di essere dichiarato pandemia. "Mi riesce dunque difficile pensare che i Cdc", Centri Usa per il controllo e la prevenzione delle malattie, "o chi per loro non siano in grado oggi di identificare terreni di trasmissione umana. Sul fatto della preparazione, invece, non so come si stanno muovendo" gli States. "In Italia il piano pandemico aggiornato dovrebbe essere pronto", in attesa di ok. "Quello che è importante è che si siano fatte delle esercitazioni, che ci siano scorte sufficienti di ciò che serve ed è chiaro che su questo fronte il fatto che ci sia stata una pandemia da poco aiuta, anche nella flessibilità per adattare le esigenze a un'epidemia".

Cosa si dovrebbe fare in caso di trasmissione interumana confermata su larga scala? "A quel punto - analizza Rezza - si dovrebbe attivare tutto in termini di risposta: scorte, anche di dispositivi di protezione, piano di distribuzione del vaccino, sistemi diagnostici per identificare prontamente un'eventuale circolazione anche nel nostro Paese. Tutte cose che sono previste anche in questo piano pandemico che spero sia approvato presto e, ripeto, con un finanziamento adeguato".

Sarà pandemia? Lo scenario futuro e il "finale non scontato"

Una pandemia da influenza aviaria H5N1, a così breve distanza da Covid, potrebbe verificarsi davvero? "Non è un finale scontato. La ritengo possibile, non so quanto probabile. Sono 20 anni che questo virus circola. Ora circola più frequentemente nei mammiferi, è vero, però si adatterà all'uomo tanto da essere trasmesso in maniera efficiente da persona a persona? Non lo sappiamo. E, pure se fosse, manterrà questa virulenza una volta che si trasmettesse da persona a persona? Gli allarmismi" senza elementi chiari "sarebbero deleteri. Gridare 'al lupo, al lupo' fa sì che nel momento in cui qualcosa succede davvero nessuno ci crede. Questo è da evitare, anche perché oggi non è che la gente debba fare qualcosa" per scongiurare eventuali rischi, "o debba spaventarsi per qualcosa particolare. Quello che è importante è che chi deve occuparsene sia pronto", spiega quindi Rezza che guarda agli scenari futuri.

E, all'Adnkronos Salute, traccia un quadro di quello che potrebbe accadere adesso, con il virus che circola sempre di più nei mammiferi, come le mucche da latte negli Usa. "Intanto - analizza - quello che conta è che" chi si dovrà eventualmente occupare della gestione di un evento simile "faccia ciò che bisogna fare per renderci pronti e non essere un passo indietro rispetto magari ad altri Paesi. Il problema oggi è, da una parte, evitare l'allarme e dall'altra essere preparati perché non c'è una scadenza delle pandemie", avverte l'ex Dg Prevenzione del ministero della Salute e super esperto di malattie infettive dell'Iss (Istituto superiore di sanità). "Potrebbe succedere un anno o il mese dopo, tanto più che si tratta di virus diversi: Covid era un coronavirus e questa sarebbe un'influenza. Però non è detto neanche che sia H5N1 la causa della prossima pandemia. Se si ricorda, nel 2009 tutti si aspettavano una pandemia d'origine aviaria che venisse da Est e arrivò una pandemia d'origine suina da Ovest. Non fu gravissima, gli anziani erano protetti".

Quindi, continua Rezza, "diciamo che l'epilogo pandemico non è ancora scritto, non è scontato, perché non abbiamo per ora un'evidenza di trasmissione dell'infezione da persona a persona. Il virus non sembra aver fatto quelle mutazioni che lo adattano del tutto all'uomo. Certo, ci sono notizie del fatto che ha circolato prima in un mammifero e dopo in un altro, c'è stato il caso umano segnalato negli Usa, il monitoraggio in corso su altre persone. Di fronte a tutto questo, le domande ci sono. Ma è una fase in cui non ci si deve sbilanciare, non per motivi diplomatici o per essere cauti, ma perché non ci sono degli elementi per dire che c'è una trasmissione in atto o escluderla. E' logico che chi deve occuparsene deve avere la massima attenzione, non c'è dubbio. Bisogna continuare a monitorare. Il caso di trasmissione interumana può anche verificarsi, ma se il virus non è ben adattato e non si trasmette in maniera efficiente da una persona all'altra, non avremo una trasmissione sostenuta". Il quadro "si dovrebbe definire e allora vedremo. Si dovrebbe pure, a un certo punto, chiarire il nodo dei casi sospetti. Per ora ci sono tutta una serie di domande che chiedono ancora delle risposte".

Vaccino pre pandemico, l'opzione c'è

Se dovesse servire un vaccino, nel caso in cui si sviluppasse un'epidemia di H5N1 nell'uomo, "il problema non sarebbe mettere a punto un vaccino contro un'influenza aviaria che si 'umanizzasse', quanto piuttosto produrlo su ampia scala in tempi rapidi. A questo proposito ci sono due aziende che già hanno prodotto dei vaccini pre-pandemici basati su H5. Se incominciasse a circolare una variante un po' diversa, potrebbe essere facilmente adattato. Non sarebbe un problema perché non siamo di fronte a un coronavirus, ma a un virus influenzale, sia pur aviario. E vaccini contro i virus influenzali ce ne sono ormai da decenni", spiega ancora Rezza.

"L'esperienza c'è, sappiamo come funziona - assicura -. Non ci troviamo di fronte a un virus completamente sconosciuto per il quale non ci sono stati vaccini mai adattati. Però è chiaro che la produzione su ampia scala non è uno scherzo. E infatti, l'Oms dice che ci vorrebbero 4-6 mesi per distribuire le dosi perché c'è uno 'scale up' della produzione da fare. Adesso ci sono anche piattaforme diverse e alle tecnologie classiche magari potrebbero aggiungersene anche altre. Intanto sulle classiche piattaforme ci sono almeno due vaccini pre-pandemici che potrebbero essere facilmente adattati".

"La partnership globale Cepi", Coalition for Epidemic Preparedness Innovations, "evidenziava che dobbiamo fare in modo che la prossima volta il vaccino lo si abbia in 100 giorni, perché ogni giorno in più conta. Il problema, in questo caso, sarebbe la produzione su ampia scala. Quanto all'Italia, quando ero al ministero opzionammo, in un joint program europeo, uno di questi vaccini pre-pandemici. E' chiaro che come Paese bisogna essere pronti. Ed essere pronti vuol dire anche avere l'opzione per eventuali vaccini pandemici".

Trasmissione da uomo a uomo, il punto

"Non è facile capire bene la situazione in questo momento" con il virus dell'influenza aviaria A H5N1. Ci sono diversi aspetti ancora da chiarire prima di sbilanciarsi su qual è il presente e quale sarà il futuro, spiega ancora Rezza. "Questo virus che ha come serbatoio naturale gli uccelli migratori ormai, circola almeno dal 2003, quindi 20 anni - ripercorre l'epidemiologo - A partire dal 2004-2005 cominciò a dare casi umani sporadici in persone che venivano a contatto con polli e volatili da cortile contagiati da uccelli migratori. Donne e bambini che si occupavano di questi animali da cortile, in Paesi in cui c'era un'economia di sussistenza basata su questo tipo di attività, si infettavano con un'elevata letalità. Sempre nel primo decennio degli anni 2000 vi fu il primo episodio di trasmissione interumana rilevante a Sumatra in Indonesia".

Era aprile-maggio 2006: "Una donna" che prese l'infezione da un animale ammalato "infettò 6 membri di una famiglia allargata e uno di questi a sua volta infettò un'altra persona, un altro componente della famiglia: tre generazioni di casi. Dopodiché la stragrande maggioranza di casi identificati da allora, alcune centinaia, sono casi in cui è avvenuto un passaggio di specie dall'animale all'uomo. Questo virus non ha mai acquisito, perlomeno finora, la capacità di trasmettersi da persona a persona in maniera efficiente", puntualizza Rezza. Il precedente di Sumatra "sembra essere l'episodio più importante. Va detto che anche altri virus aviari, per esempio l'H7N7, hanno dato dei piccoli focolai epidemici ma si sono fermati lì". Adesso che succede? "Da un po' di tempo questo virus comincia apparentemente a circolare tra i mammiferi: visoni, cani, gatti, e adesso nelle vacche, fra le quali negli Usa sembra esserci un'epidemia abbastanza estesa. Sempre negli Stati Uniti è stato identificato un caso umano, quella congiuntivite emorragica riportata sulla rivista 'Nejm'".

Ma adesso, continua, "è stato anche spiegato che ci sarebbero circa 300 casi sospetti sotto osservazione, monitoraggio e testing, però non sappiamo se alcuni di questi siano effettivamente positivi", ricorda Rezza. La stessa Oms, facendo il punto qualche giorno fa, aveva citato almeno 220 persone monitorate e 30 sottoposte a test, evidenziando anche che erano molte di più quelle esposte ad animali infetti e potenzialmente a rischio, quindi l'importanza che tutti venissero testati o monitorati. "Anche in questo caso vorrebbe dire poco il fatto che ci siano altri casi, ammesso che sia così - ragiona Rezza - perché resterebbe la domanda principale: se questi casi, cioè, sono dovuti a trasmissione interumana o sono comunque tutte persone che sono state a contatto con vacche infette. Vanno monitorati e testati, non è sicuro che siano casi di H5N1 e in ogni caso l'ipotesi che ci sia trasmissione interumana sarebbe ancora da verificare. Non da escludere - ammette - ma da verificare".

Cosa si sa sul virus H5N1 oggi, dopo la sua circolazione nei mammiferi? "Le analisi molecolari che hanno fatto, per esempio, alcuni biologi evoluzionisti inglesi non mostrano ancora un grande adattamento del virus all'uomo, sinceramente - osserva Rezza - Questo virus", secondo queste analisi condotte sulla sua evoluzione, "avrebbe ancora maggior affinità per i recettori 'profondi', quelli che si trovano nelle basse vie respiratorie. Difficile dire dunque cosa succederà. Ed è difficile dire se questo virus si adatterà all'uomo tanto da diventare trasmissibile da persona a persona. Si può escludere? No. Succederà sicuramente? Non lo sappiamo".

Un altro aspetto su cui si sofferma Rezza sono i timori espressi da alcuni esperti sul rischio che possa diffondersi un virus con una letalità elevata, anche del 50%. "Ma, ancora una volta, non è detto - precisa - Non è detto che un virus che si adatti all'uomo, dopo mantenga le caratteristiche di alta virulenza. Potrebbe farlo e potrebbe non farlo. Troppe certezze in questo momento non ne abbiamo. Un ultimo elemento è come si adatta un virus all'uomo. O si adatta facendo piccole mutazioni che gli conferiscono una maggiore affinità per i recettori delle alte vie respiratorie, della gola, in modo che si trasmetta più facilmente da persona a persona. Oppure, per esempio, in un ospite come il maiale, che è recettivo sia a virus umani che a virus aviari, potrebbe fare un riarrangiamento, quello scambio di segmenti genici che in genere i virus influenzali qualche volta fanno". Ecco quindi perché, per l'esperto, è presto per dire come andrà. "Al momento è una situazione in cui ogni allarmismo è fuori luogo, anche perché adesso non possiamo fare nulla se non osservare, monitorare, testare e prepararsi", conclude.

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Salute e Benessere

Un italiano su due segue una dieta, ma vince il ‘fai...

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Solo il 19% si affida a un professionista

Misurazione del giro vita

La metà degli italiani segue una dieta o sta attento a quello che mangia ma pochi si affidano a uno specialista. "Il 51% si attiene a una dieta o a un regime alimentare controllato, ma solo nel 19% dei casi a prescriverli è stato un professionista", è la fotografia che emerge dall'indagine dell’Osservatorio Sanità di UniSalute, che insieme a Nomisma ha interrogato un campione di 1.200 persone sul loro rapporto con il cibo.

"La prima notizia è che sempre più italiani dichiarano di seguire una dieta o un regime alimentare controllato: se nella rilevazione effettuata nel 2021 erano meno di un terzo (29%), oggi sono ben il 51% - evidenzia il report - Questa percentuale è composta però solo per il 19% da chi si è affidato a uno specialista, come un dietologo o un nutrizionista, nonostante il 60% degli intervistati si dichiari interessato a farsi seguire da un professionista dell’alimentazione. Molti optano invece per il 'fai-da-te' o per il consiglio di amici e parenti (22%), mentre nel resto dei casi uno specifico tipo di alimentazione è stato suggerito dal medico di base (6%) o da un personal trainer (4%)".

Ma perché seguire una dieta? "La motivazione più spesso citata è il sentirsi bene con se stessi (46%), insieme al volersi mantenere in forma e curare il proprio aspetto fisico (46%). In secondo piano, ma comunque importanti, ci sono le questioni legate alla salute: da chi vuole risolvere un problema di sovrappeso oppure obesità (29%), a chi cerca di fare prevenzione rispetto a malattie e altri disturbi (25%), o anche chi ha dovuto cambiare il proprio regime alimentare dopo aver riscontrato dei valori fuori norma nelle analisi del sangue (22%)", evidenzia il report.

"In ogni caso, che sia a dieta o meno, quasi un italiano su due (46%) dice di aver mangiato in modo più sano ed equilibrato nell’ultimo anno, e il 55% ritiene le buone abitudini alimentari un aspetto fondamentale della propria salute. La dieta Mediterranea - si legge nel report - risulta molto diffusa, con il 45% che la indica come lo stile alimentare più simile al proprio. Seguono, a una certa distanza, le diete ipocaloriche (13%), alimentazioni personalizzate in base alle proprie esigenze specifiche (12%) e le diete iperproteiche (9%). Si descrive invece come vegano o vegetariano il 5% degli intervistati".

"Nonostante i ritmi di vita sempre più frenetici, sette italiani su dieci (70%) rivelano infine di mangiare cibo cucinato in casa in tutti i pasti o quasi. Circa uno su tre (32%) consuma anche cibi pronti o da riscaldare almeno 2 o 3 volte alla settimana, mentre solo il 16% dichiara di utilizzare almeno 2 o 3 volte a settimana i servizi di takeaway o delivery", conclude la nota.

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