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Italiani tra i più stacanovisti d’Europa: quali conseguenze...

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Italiani tra i più stacanovisti d’Europa: quali conseguenze sulla demografia?

Italiani, popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori e di…stacanovisti. A dirlo è l’ultimo rapporto Eurostat da cui emerge che in Italia quasi un lavoratore su dieci tra i 20 e i 64 anni nel 2023 ha lavorato in media almeno 49 ore alla settimana, una percentuale superiore a quella media dell’Unione europea (7,1%).
Tra i 27 solo Grecia, Francia e Cipro registrano una percentuale maggiore di lavoratori che raggiungono questo monte ore.

Il 9,6% degli occupati italiani ha lavorato l’equivalente di un giorno in più a settimana, considerando un orario standard tra le 36 e le 40 ore a settimana. Basterebbe farsi un giro altrove per capire che questa non è la prassi negli altri Paesi Ue: nelle Repubbliche baltiche raggiungono queste ore extra di lavoro l’1/2% dei lavoratori. Percentuali più alte, ma nettamente al di sotto dell’Italia, nei Paesi scandinavi (la Norvegia è al 5,2% e la Finlandia al 5,7%) e in Germania con il 5,4%.

Autonomi e manager i più stacanovisti

I risultati non sono equamente distribuiti tra le varie categorie di lavoratori. Gli italiani più stacanovisti sono i lavoratori autonomi: secondo la ricerca, quasi un autonomo su tre (29,3%) dichiara di lavorare 49 ore settimanali. Più in generale, a superare la soglia del normale orario di lavoro sono il 46% degli autonomi italiani contro il 41,7% della media dei “colleghi” europei.
Diverso lo scenario dei dipendenti, anche frutto del divario crescente tra aziende e lavoratori come dimostra il fenomeno della Great Resignation e la costante fuga dei cervelli. Lavorano su orari lunghi il 3,8% dei subordinati italiani contro il 3,6% della media europea.

Dichiarano di lavorare oltre le classiche 40 ore settimanali anche i professionisti, gli addetti nell’agricoltura (36,3% contro il 27,5% in Ue) e gli impiegati nei servizi e nelle vendite (10,9% contro il 6,5%).
Tra le categorie professionali più stacanoviste, con quasi 50 ore settimanali, spiccano i manager, sia autonomi che dipendenti: nel primo caso arrivano al 40,5%, più del doppio rispetto alla media Ue.

Gender gap e conseguenze

Anche questa report Eurostat evidenzia un importante gender gap con le sue conseguenze in chiave demografica. Spesso, infatti, gli orari lunghi interessano gli uomini italiani: il 12,9% degli occupati totali dichiara di lavorare 49 ore alla settimana (nell’Ue sono il 9,9%). Anche tra i dipendenti la percentuale aumenta tra gli uomini: è al 5,1%.
Nonostante il divario, anche le donne italiane che lavorano almeno 49 ore alla settimana sono aumentate in Italia: sono il 5,1% del totale contro il 3,8% nel resto dei 27. Il divario rispetto agli uomini si presta a diverse chiavi di lettura: positiva se si pensa che le donne riescono ad avere orari lavorativi più standard, negativa se si pensa che spesso questo gap è dovuto a minori responsabilità e opportunità di carriera per le donne.

Come leggere il gender gap

C’è poi un altro aspetto cruciale quando si parla di monte ore e famiglia: se gli uomini restano a lavorare più delle donne, spesso queste ultime devono accollarsi la cura della famiglia e della casa, che è un’attività non retribuita.

Questo scenario è ampiamente confermato dallo studio di LHH che testimonia un aumento dell’occupazione femminile nel corso del tempo, ancora insufficiente però a colmare il gap. Nel 2022 l’occupazione femminile ha superato il 51%, contro il 69% degli uomini. L’analisi si è soffermata sul calcolo della RAL annuale in Full Time Equivalent (Fte) del settore privato, escluse sanità e istruzione privata. Nell’anno 2022, l’Osservatorio JobPricing ha registrato un pay gap pari all’8,7%, che raggiunge il 9,6% considerando la RGA (Retribuzione Globale Annua, comprensiva cioè̀ della parte variabile). Dunque, un gap di 2.700 euro lordi sulla RAL e circa 3.000 euro sulla RGA.

Il “soffitto di cristallo”, così come lo ha definito la stessa LHH, è causato principalmente dalla differenza uomo-donna nella progressione di carriera, con le donne italiane che rappresentano una minoranza nei ruoli dirigenziali e quadri. La disparità è particolarmente evidente nel settore privato con l’83% dei dirigenti rispetto al 17% delle donne e il 69% “quadri” maschili rispetto al 31% femminile. Il gap è meno accentuato nel pubblico, anche per effetto di alcune norme a favore delle quote rosa che migliorano il dato del mercato nel suo complesso (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne).

Gli uomini chiedono di fare la loro parte

Dunque, gli italiani sono tra i più stacanovisti d’Europa e le ore di lavoro aumentano per gli uomini e i manager che spesso, appunto, sono uomini. La cura della casa è per lo più affidata ancora alle donne, anche se si sono avuti miglioramenti negli ultimi anni. In sintesi, spesso le donne italiane si trovano costrette a scegliere tra carriera e genitorialità come dimostrano i dati sulle dimissioni delle neomamme in Italia.

Il tutto è aggravato dalla crisi dei servizi all’infanzia che interessa il Belpaese: sono troppo pochi e quelli che ci sono costano molto, soprattutto se paragonati agli stipendi medi italiani, fermi da tre decenni.

Qual è allora la strada per migliorare la situazione?

La risposta è molteplice e riguarda senz’alto l’equilibrio vita-lavoro, l’aumento degli stipendi e la riduzione del gender gap. In questo senso, sempre più uomini chiedono di fare la loro parte e molti manager vorrebbero l’estensione del congedo di paternità obbligatorio.

L’attuale durata di 10 giorni è l’emblema di una cultura e di una struttura per cui le donne devono stare a casa, e gli uomini, a casa, ci devono portare il pane. Una logica frutto della situazione socio-economica e dei lavori più sviluppati nel ‘900, spesso manuali, ma oggi del tutto anacronistica. Negli ultimi anni si sono registrati dei progressi nella distribuzione delle mansioni in casa anche grazie ad una cultura più evoluta ben intercettata e sostenuta dal mondo della comunicazione. Lo dimostrano le pubblicità che mostrano gli uomini intenti a svolgere mansioni tradizionalmente attribuite alle donne come stirare, fare il bucato e cullare il figlio neonato. Purché alle 20 non sia ancora al lavoro o vittima del traffico della città tornando dal lavoro.

Italiani stacanovisti, le conseguenze del lavoro eccessivo

Chiaramente, la soluzione per il gender gap non può essere quella di aumentare il monte ore delle donne, ma ridurre quello degli uomini e attribuire ruoli di maggiori responsabilità alle donne. D’altra parte, non vanno sottovalutate le conseguenze che l’essere stacanovisti ha sulla salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Come dimostrato da un recente e approfondito studio guidato da Wen-Jui Han, professoressa della NYU Silver School of Social Work e pubblicato su PLOS One, lavorare troppo da giovani aumenta esponenzialmente il rischio di cadere in depressione e avere una cattiva salute già nella mezza età, intorno ai 50 anni.

Lavorare tanto può essere anche un fattore positivo, ma se reiterato e causa di eccessivo stress incide anche sulla vita extralavorativa. Spesso, gli italiani si trovano a fare i conti con la fatidica domanda: “Se lavoro 50 ore a settimana, chi tiene nostro figlio?”. Un’esigenza a cui va incontro il nuovo piano asili nido da 734,9 milioni di euro. Per contrastare la crisi demografica, però, serve un approccio olistico che con al centro la necessità di intervenire sui salari e sull’equilibrio vita-lavoro, sempre più determinante nelle scelte dei giovani.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Infertilità, colpita una coppia su sette in Svizzera

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L’infertilità in Svizzera colpisce una coppia su sette. Negli ultimi anni, questo problema ha raggiunto portata globale, configurandosi come un tema di salute pubblica. L’accesso alle tecnologie che consentono la riproduzione assistita, però, è spesso limitato dai costi elevati o da legislazioni severe.

L’Oms ha definito la sterilità come l’incapacità di concepire dopo 12 mesi o più rapporti sessuali regolari non protetti. Si configura, quindi, come un problema che causa disagio, stigma e anche difficoltà finanziare, coinvolgendo il 18% degli adulti in tutto il mondo. In Svizzera, stime nazionali riportano che circa il 15% delle coppie siano colpite da infertilità. Ogni anno, tra le 3 mila e le 4 mila donne avviano un programma di fecondazione assistita o congelamento degli ovuli.

Infertilità e pma

L’infertilità è uno dei disturbi cronici più comuni nelle persone in età fertile. Le stime dell’Oms riportano che la diffusione del fenomeno può variare dal 10% al 20% a seconda della regione del mondo. In Europa, ad esempio, pare ne siano colpite 25 milioni di persone.

Sulle cause, la ricerca medica gioca un ruolo di prim’ordine nell’analisi quotidiana di quei fattori non ancora individuati. Stile di vita, esposizione climatica, problemi al sistema riproduttivo: l’aumento dell’infertilità viaggia di pari passo anche con l’età delle madri al primo figlio, sempre in aumento e con sempre meno probabilità di riuscire ad avere un bambino senza l’ausilio delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

In Svizzera la fecondazione in vitro, però, non è coperta dall’assicurazione sanitaria ordinaria e fa i conti con un aumento notevole delle coppie svizzere sterili che cercano trattamenti di questa natura e che sono costretti ad andare all’estero. Anche una legislazione restrittiva, oltre i costi elevati, contribuisce a rendere dispendiosa in termini di salute mentale, la scelta di avere un figlio in modo non del tutto naturale. Alcuni paesi, come la Repubblica Ceca, la Danimarca e soprattutto la Spagna, sono specializzati nell’accoglienza di cittadini provenienti da tutta l’Europa che sperano di avere dei figli.

Oltre i confini della Svizzera si diffonde l’idea che i governi dovrebbero fare qualcosa per combattere l’infertilità nell’ambito delle loro politiche familiari. Tomas Sobotka, vicedirettore dell’Istituto di demografia di Vienna, ha dichiarato che “è fondamentale che le persone che ne hanno bisogno abbiano accesso ai trattamenti per l’infertilità”.

Preoccupati per il calo dei tassi di natalità nei loro paesi, alcuni governi sembrano pronti ad andare in questa direzione. Il Giappone ha annunciato nel 2022 che il sistema di assicurazione sanitaria pubblica giapponese ora coprirà diverse tecnologie utilizzate per la Pma, così come alcune città cinesi e province canadesi. Per non parlare del piano di Emmanuel Macron in Francia, dedicato proprio alla costante analisi della fertilità dei giovani con check up gratuiti e supporto alla genitorialità con incentivi.

Il calo demografico svizzero

Per più di un secolo la Svizzera ha conosciuto una crescita demografica continua e spesso forte. Il 1978 è stato l’ultimo anno in cui si registrato un calo demografico. Tra il 2010 e il 2020, i tassi di crescita annuali sono stati per lo più superiori all’uno per cento, a partire dal 2018 leggermente inferiori. Le cifre pubblicate l’anno scorso dall’Ufficio federale di statistica (UST) hanno comunque sorpreso: nel 2022, il tasso di fecondità è sceso al di sotto dell’1,4, il livello più basso dal 2001. Questo nonostante 9 persone su 10 vorrebbero, idealmente, avere almeno due figli, in linea con la tendenza di tanti altri Paesi con medio o alto reddito.

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Attacco hacker russo a Snylab: dati sanitari di migliaia di...

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L’attacco hacker russo a Snylab tocca uno degli aspetti più avvertiti dalla popolazione nell’ultimo decennio: la “privacy”. Con l’avanzamento della tecnologia, del digitale e dei meccanismi di tracciamento, i cittadini sanno che i propri dati personali sono esposti.

Se poi si tratta di dati sanitari, che la legge fa rientrare nei “dati personalissimi”, la situazione diventa ancora più delicata, come quella che riguarda migliaia di pazienti italiani vittime dell’attacco a Synlab, una tra le principali aziende sanitarie private d’Italia e d’Europa.

L’attacco hacker russo a Snylab

Dati personali, referti, esami diagnostici e documenti d’identità di migliaia di italiani sono stati sottratti lo scorso 18 aprile dagli archivi di Snylab. L’attacco hacker è stato sferrato da un gruppo di matrice russa denominato Black Basta e rischia di essere solo la prima puntata di un massiccio attacco russo studiato da Putin contro l’Occidente, in programma verso la fine dell’estate.

Non si sa ancora il numero precise dei pazienti vittime dell’attacco hacker russo, e ciò che si sa è mastodontico: sono stati pubblicati sul dark web dati sanitari per 1,5 terabyte. Negli oltre 380 laboratori di Synlab, distribuiti in Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Campania e Toscana, si eseguono ogni anno circa 35 milioni di esami e l’azienda ha comunicato che si impegnerà a “informare opportunamente i soggetti coinvolti”.

Dopo l’attacco di aprile, il gruppo Black Basta aveva chiesto un riscatto all’azienda, minacciando di pubblicare i dati qualora non fosse stato pagato. Synlab aveva ribadito di non essere disposta a pagare e quindi, il 14 maggio, i dati sono stati pubblicati dall’organizzazione russa sul dark web.

Radiografie, ecografie, analisi del sangue con tanto di nome e cognome e altri dati personali dei pazienti sono ora alla mercè di chiunque. Ma anche domicili, numeri di telefono e altri dati sono a rischio. Un danno difficile da misurare. Queste informazioni, inoltre, vengono spesso utilizzate per orchestrare altri reati, a partire dalle truffe online.

Il contesto

Che la sicurezza digitale sia sempre più a rischio lo ha sottolineato anche la presidente della Commissione Ue von der Leyen al Summit per la Democrazia di Copenaghen: “Una volta rilevate informazioni o propaganda maligne, dobbiamo garantire che vengano rapidamente rimosse e bloccate. Questo è il ruolo delle piattaforme online, che ora hanno una serie di responsabilità. Dobbiamo essere vigili e intransigenti nel garantirne la corretta applicazione. Non è solo una responsabilità morale, ma è diritto dell’Ue. Ora, a mano a mano che le cose evolvono, dobbiamo valutare se ciò è sufficiente” (cosa è lo “Scudo per la Democrazia”).

A tal proposito, il governo italiano è al lavoro per potenziare la crescita digitale e la cybersecurity. 623 milioni di euro, attinti ai fondi del Pnrr, andranno a rafforzare la sicurezza informatica, mentre poco più di un miliardo di euro è stato investito nel 2022 per prodotti e servizi nel settore.

Gli attacchi hacker alle istituzioni italiane

Stando ai dati raccolti nel 2023 dal rapporto Clusit, l’Associazione italiana per la sicurezza informatica, i casi di attacchi hacker sono aumentati notevolmente dal 2018 al 2022 e già nel primo semestre del 2023 si erano verificati diversi episodi, di cui quattro hanno interessato portali nell’orbita del governo.

Già nel 2022, in Italia gli attacchi hacker erano aumentati del 169% rispetto all’anno precedente.

A marzo 2023 i siti ufficiali della Camera, dei Ministeri di Difesa, Esteri e Trasporti e dell’esecutivo sono stati bersaglio di un attacco del tipo DDoS, una tipologia di attacco che inonda gli indirizzi IP dei server in questione con richieste di accesso finte per sovraccaricare tali pagine fino a mandarle fuori uso. Un attacco analogo ha colpito anche il Ministero del Made in Italy qualche mese più tardi, a maggio. Ad agosto scorso il Ministero della Giustizia è stato oggetto di un pericoloso attacco di tipo ransomware: i pirati informatici hanno bloccato l’accesso al sito richiedendo un riscatto al governo, affinché ottenesse nuovamente l’accesso ai dati.

Ma gli attacchi hacker russi sono sempre più frequenti. L’ultimo in ordine cronologico è di pochi giorni fa, quando a inizio maggio gli hacker filorussi del gruppo Noname hanno messo nel mirino il sito personale della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dei ministeri dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture. Soprattutto in questi tipi di attacco, i gruppi filorussi puntano alla propaganda contro i Paesi che aiutano l’Ucraina.

Come difendersi da attacchi hacker

Evitare del tutto questi attacchi è, ad ora, impossibile. Cittadini e istituzioni possono però ridurre al minimo i danni per garantire i propri dati personali sul web, in un contesto in cui il 96% delle persone è ogni giorno in rete.

In via preventiva si può:

Installare sistemi antivirus aggiornati, ma non affidarsi solo a quelli “tradizionali” che spesso non sono più sufficienti;
formare il personale a tutti i livelli, perché un errore di una sola persona può compromettere i dati di tutta l’azienda;
effettuare regolarmente backup dei dati su supporti esterni e offline;
aggiornare sempre i sistemi operativi e le applicazioni con le ultime patch di sicurezza;
utilizzare password complesse e cambiarle periodicamente;
diffidare di email, link e allegati sospetti che potrebbero contenere malware.

La situazione diventa più complessa quando l’attacco si è già subito, per cui è cruciale fare in modo che nel web gli hacker trovino meno dati possibili. Dopo aver subito un attacco hacker:

Anche pagando il riscatto chiesto dai cybercriminali non c’è alcuna garanzia di recuperare i dati;
denunciare l’accaduto alle autorità competenti;
contattare un esperto di cybersecurity per analizzare l’attacco, capirne la fonte e ripristinare i sistemi;
cambiare immediatamente tutte le password compromesse;
monitorare attentamente i propri conti bancari e carte di credito per individuare eventuali transazioni sospette;
in caso di aziende o istituzioni, informare eventuali clienti e partner coinvolti.

Quello a Snylab è solo l’ultimo attacco russo, ma il tempo stringe e la sicurezza digitale diventa una priorità politica per tutti i cittadini italiani ed europei.

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Giornata Internazionale contro l’Omofobia, impatti e...

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Nel panorama globale, la lotta contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia non può essere ignorata né minimizzata. Queste forme di discriminazione non solo violano i diritti umani fondamentali, ma hanno anche impatti significativi sul tessuto stesso delle nostre società. Oggi 17 maggio si celebra la Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Bifobia e la Transfobia (IDAHOBIT – International Day against Homophobia, Biphobia, Transphobia) che non rappresenta solo una celebrazione simbolica, ma costituisce un momento cruciale per riflettere sulle sfide ancora presenti e per rinnovare il nostro impegno per una maggiore tolleranza e inclusione.

L’omofobia e la transfobia non sono semplicemente questioni personali o individuali; esse minano i fondamenti stessi su cui si basa una società civile e progressista. Queste forme di discriminazione non solo danneggiano direttamente le persone LGBTQ+ che ne sono vittime, ma minano anche i valori di uguaglianza e tolleranza su cui dovrebbero essere fondate le nostre comunità.

Dal microcosmo delle relazioni personali al macrocosmo dei contesti lavorativi e istituzionali, l’omofobia, la bifobia e la transfobia persistono come ostacoli significativi sulla strada verso una società veramente inclusiva e rispettosa della diversità. Queste manifestazioni di discriminazione non solo infliggono ferite emotive e psicologiche profonde, ma hanno anche effetti corrosivi sul tessuto sociale, minando la coesione e il benessere di intere comunità.

Definendo le discriminazioni

Definire le discriminazioni è fondamentale per comprendere appieno la complessità delle sfide che affrontano le persone LGBTQ+ nella loro lotta per l’uguaglianza e il rispetto. Questi termini non sono solo etichette; rappresentano le manifestazioni tangibili di pregiudizio e oppressione che molte persone affrontano quotidianamente.

L’omofobia è un termine che descrive la paura, l’odio o la discriminazione rivolta verso le persone lesbiche, gay e bisessuali. Si tratta di una forma di discriminazione che può manifestarsi in vari modi, dall’uso di linguaggio offensivo e stereotipi dannosi, fino a violenze fisiche e discriminazioni istituzionali. L’omofobia crea un clima di intolleranza e ostracismo che può avere gravi conseguenze sul benessere e sulla sicurezza delle persone LGBTQ+.

La bifobia riguarda la discriminazione e il pregiudizio nei confronti delle persone bisessuali. Queste persone sono spesso oggetto di negazione o ignoranza della propria identità sessuale da parte sia della comunità eterosessuale che di quella LGBTQ+. La bifobia può derivare da stereotipi che dipingono le persone bisessuali come indecise o promiscue, contribuendo a un clima di discriminazione e alienazione.

La transfobia è una forma di discriminazione rivolta verso le persone transgender, non binarie o di genere non conforme. Queste persone possono essere soggette a pregiudizi, violenze ed esclusioni basate sulla loro identità di genere. La transfobia può manifestarsi attraverso discriminazioni sul posto di lavoro, accesso limitato ai servizi sanitari, discriminazioni legali e violenze fisiche o verbali.

L’impatto demografico delle discriminazioni LGBTQ+

Le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere non solo minano i diritti umani fondamentali, ma hanno anche un impatto significativo sulle dinamiche demografiche delle comunità e delle società. Le persone LGBTQ+ possono essere soggette a discriminazioni sistematiche e strutturali nel lavoro, nell’accesso ai servizi sanitari e nei contesti sociali, influenzando profondamente le loro decisioni di vita.

Decisioni di vita e famiglia

Le discriminazioni possono influenzare le scelte riguardanti la convivenza, il matrimonio e la genitorialità tra le persone LGBTQ+. La mancanza di protezioni legali e di supporto sociale può ostacolare la formazione di relazioni stabili e la creazione di famiglie, limitando così le opportunità di realizzazione personale e di sviluppo familiare.

Fertilità e natalità

La segregazione e l’isolamento sociale possono anche influenzare la fertilità e la natalità tra le persone LGBTQ+. La mancanza di accesso a servizi di salute riproduttiva adeguati e la discriminazione possono scoraggiare le persone LGBTQ+ dal formare famiglie, limitando così il tasso di natalità all’interno di queste comunità.

Impatti sulla composizione demografica

Queste dinamiche possono avere impatti significativi sulla composizione demografica delle comunità e delle società. La mancanza di inclusione e di supporto può portare a una diminuzione della popolazione LGBTQ+ all’interno di determinate aree geografiche, con possibili conseguenze sulla diversità e sulla ricchezza culturale delle stesse.

Gli stereotipi e l’ignoranza

Le discriminazioni LGBTQ+ sono spesso radicate in stereotipi, ignoranza e rigidità culturale. L’educazione e la consapevolezza sono strumenti cruciali per combatterle, poiché contribuiscono a sfidare i pregiudizi e a promuovere un clima di rispetto e inclusione.

La situazione in Italia

Recenti dati rilasciati da Gay Help Line evidenziano una realtà allarmante riguardante l’omofobia, la bifobia e la transfobia in Italia. Nel corso dell’ultimo anno, su un totale di 21.000 contatti registrati dal servizio su tutto il territorio nazionale, il 53% delle persone ha subito violenze. Questo dato preoccupante conferma che tali forme di discriminazione continuano a crescere, con un impatto sociale negativo significativo sulla comunità LGBTQ+ italiana.

L’Italia si trova al 36º posto su 48 paesi europei monitorati per quanto riguarda la gestione dell’omofobia e della transfobia. I dati indicano che il 36% delle violenze avviene all’interno della famiglia, con una percentuale ancora più alta tra i giovani e gli adolescenti. Il coming out in famiglia ha spesso scatenato reazioni violente, con il 32,3% dei casi segnalati dalla Gay Help Line che hanno visto una risposta aggressiva da parte dei parenti, e il 27% delle vittime sono minori di età compresa tra gli 11 ei 18 anni.

Le violenze familiari contro i minori, in seguito al coming out, sono aumentate fino al 26,7%, mentre nel 27% dei casi sono stati riportati attacchi a coppie dello stesso sesso in luoghi pubblici come i trasporti e i locali della comunità LGBTQ+. Inoltre, il fenomeno delle rapine violente ai danni di ragazzi omosessuali ha visto un aumento significativo, rappresentando il 5,4% dei casi registrati, soprattutto nelle regioni del Lazio e dell’Umbria.

Le risposte delle istituzioni

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sottolineato l’importanza dei principi di eguaglianza e non discriminazione sanciti dalla Costituzione italiana, evidenziando la necessità di combattere l’intolleranza e garantire la piena realizzazione di ogni persona umana. Il Capo dello Stato ha ribadito che l’omotransfobia mina la convivenza democratica e ha richiamato l’attenzione sulle violenze e gli atti discriminatori che molte persone LGBTQ+ continuano a subire nel paese. “L’Italia non è immune da episodi di omotransfobia: persone discriminate, schiacciate da pregiudizi, che spesso sfociano in inaccettabili discorsi d’odio, aggredite verbalmente e fisicamente. Non è possibile accettare di rassegnarsi alla brutalità. La violenza dei giudizi, di cui tanti cittadini sono vittime solo per il proprio orientamento sessuale, rappresenta un’offesa per l’intera collettività” ha dichiarato il Presidente della Repubblica in occasione della Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Transfobia e la Bifobia.

L’impegno delle Istituzioni deve essere orientato a fornire, soprattutto alle nuove generazioni, gli strumenti per comprendere le diversità delle esistenze e delle diverse esperienze umane, per una società inclusiva e rispettosa delle identità“, conclude il Capo dello Stato nel suo messaggio.

La premier Giorgia Meloni ha sottolineato l’impegno del governo nel contrastare ogni forma di discriminazione, violenza e intolleranza, assicurando il supporto alle vittime e la promozione di una società inclusiva e rispettosa delle identità. Meloni ha inoltre evidenziato l’importanza di mantenere alta l’attenzione sulle persecuzioni e gli abusi legati all’orientamento sessuale anche a livello internazionale, ribadendo il ruolo dell’Italia nel combattere queste ingiustizie: “Discriminazioni e violenze inaccettabili, che ledono la dignità delle persone e sulle quali i riflettori non devono mai spegnersi. Anche su questo fronte, il governo è, e sarà, sempre in prima linea“.

La Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Bifobia e la Transfobia è molto più di una celebrazione simbolica; è un richiamo all’azione per affrontare le ingiustizie e promuovere la tolleranza e l’inclusione. L’omofobia, la bifobia e la transfobia non solo minano i diritti umani fondamentali, ma hanno anche impatti significativi sulle dinamiche demografiche e sociali.

Affrontare queste forme di discriminazione è essenziale per costruire un mondo in cui ogni individuo possa vivere pienamente e autenticamente, contribuendo così a una società più equa, prospera e sostenibile per le generazioni presenti e future.

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