Cronaca
L’ex pm Principato: “Con Giammanco la Procura...
L’ex pm Principato: “Con Giammanco la Procura nel baratro”
Le discussioni con l'ex Procuratore Pietro Giammanco che "mortificò e ostacolò" il lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e "che non aveva a cuore la loro sicurezza", ma anche il momento più doloroso, al Palazzo di giustizia, quando davanti al picchetto d'onore per Giovanni Falcone, Borsellino le disse: "Ragazzi, chi vuole continuare continui, ma questa è la fine che faremo...". E, ancora, le indagini per l'arresto del boss mafioso latitante Matteo Messina Denaro "aiutato durante la sua latitanza anche da 'talpe' d Stato". Un racconto, a tratti pieno di dolore, quello di Teresa Principato, l'ex Procuratore aggiunto di Palermo ed ex componente della Direzione nazionale antimafia, durante la presentazione del suo libro, 'Siciliana', in cui ripercorre la sua vita, la sua carriera, da prima donna a entrare in Italia in una Direzione distrettuale antimafia. Principato, rispondendo alle domande della giornalista Adnkronos, Elvira Terranova, ha ricordato il periodo del 1992, poco prima che Cosa nostra uccidesse i due giudici antimafia Falcone e Borsellino, con Francesca Morvillo e gli agenti di scorta.
"L'ex Procuratore di Palermo Pietro Giammanco, a capo della Dda ai tempi delle stragi mafiose del 1992 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, "stava portando la Procura di Palermo verso il baratro, dopo avere mortificato e ostacolato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino". "Tra l'altro non aveva a cuore la sicurezza di suoi sostituti, che trattava con la politica delle ''carte a posto''; ecco perché un gruppo di pm decise di scrivergli una lettera per sfiduciarlo e prenderne le distanze". Eccolo, il racconto di Teresa Principato alla Biblioteca Fardelliana di Trapani. Presente anche l'ex Procuratore aggiunto di Palermo, Dino Petralia.
Dopo la strage di Capaci "in Procura eravamo distrutti, non sapevamo cosa fare, dove andare, se valeva ancora la pena continuare. C'era una sorta di inquietudine che attraversava tutti. Si può capire cosa significa perdere un uomo che era un vero punto di riferimento. E 57 giorni dopo la strage, a questa angoscia si è aggiunta la morte di Paolo Borsellino che ha aumentato la nostra angoscia", dice. "Per me è stata devastante, ma tutti, io credo, avevamo perso ogni speranza. Lo stesso Antonino Caponnetto lo disse: "E' tutto finito". Insomma, fu un momento di vero e proprio sfacelo. Non volevamo continuare a lavorare con Giammanco, una persona che aveva già dimostrato di non lavorare soltanto per lo Stato: non sapevamo se, continuando, avremmo lavorato per lo Stato, considerati i personaggi politici che lui frequentava", spiega ancora Principato. "Ricordo che Roberto Scarpinato", il suo ex marito, oggi senatore del M5S, "la sera dopo avere visto il corpo di Paolo Borsellino in via D'Amelio, ridotto ad un tronco, a cui erano rimasti integri solo i baffetti che avevano resistito al fuoco, d'accordo con Alfredo Morvillo (fratello della moglie di Falcone, Francesca Morvillo morta nella strage ndr) scrisse la lettera a Pietro Giammanco in cui esprimeva con chiarezza che non avevamo più fiducia in lui e che lasciavamo il pool antimafia".
'Nei confronti di Borsellino adottò una indifferenza scandalosa'
"Giammanco, che non si era mai occupato dei problemi della sicurezza di nessuno di noi, nei confronti di Paolo adottò un'indifferenza scandalosa - prosegue Principato - Non ci fu nessuna strategia per assicurare la sua sicurezza. Non ci fu un momento di vera organizzazione. Tutti noi ci aspettavamo che dopo Giovanni toccasse a Paolo. Lui voleva andare a Caltanissetta per partecipare alle indagini, cosa impossibile. Disse in un convegno pubblico, al quale non si sottrasse, che lui era un magistrato e avrebbe parlato solo con i magistrati ai quali aveva molto da dire, ma non fu mai chiamato dalla Procura di Caltanissetta. Fu citato per il giorno successivo alla sua morte, un po' troppo tardi...".
"Ecco perché Giammanco era una persona che non poteva stare in quel posto; lui era un manager che si occupava del funzionamento dell'Ufficio, delle segreterie, del personale. E dei suoi 'amici'", dice l'ex Procuratore aggiunto Teresa Principato, che poi racconta un aneddoto: "Subito dopo la morte di Salvo Lima, io stessa vidi entrare nella sua stanza, anzi irrompere nella sua stanza, Mario D'Aquisto, il quale era stato fino a 50 minuti prima con Salvo Lima. E Giammanco, per la solita strategia delle ''carte a posto'' poiché non voleva mostrare alcun orientamento politico, mandò a sostituti di ogni corrente, io di Md, Pignatone di Mi ed altri che non ricordo, a fare la perquisizione a casa e nell'ufficio di Lima. Poi ci trovammo in una riunione e all'improvviso Giammanco si alzò di scatto e disse 'Devo andare' e noi: 'Ma stiamo discutendo di cose importanti, non puoi andare via' e lui rispose: 'Devo andare al funerale di Lima'. Una cosa che avrebbe dato un'immagine della Procura devastante".
"Ed ecco perché al funerale di Paolo Borsellino le persone che stavano in prima fila, dopo essersela presa con le autorità, se la presero con Giammanco", dice. Per Principato, "la gente aveva capito che questi due martiri non erano stati presi nella giusta considerazione da Giammanco che li aveva ostacolati, mortificati, che non gli aveva consentito di lavorare ed espletare un lavoro prezioso, come quello che loro potevano fare". Così la gente cominciò "a insultarlo e a lanciargli delle monetine, come accadde con Bettino Craxi. E il procuratore fu costretto a rinchiudersi in una macchina e dopo si finse malato perché non poteva più partecipare a nessuna funzione pubblica". Così, il 23 luglio otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redassero la lettera per mettere nero su bianco le criticità che affliggevano la procura retta da Giammanco e le condizioni di "assoluta insicurezza" in cui si svolgeva il loro lavoro. Lo fecero mettendo nero su bianco le proprie dimissioni dall'ufficio, affinché fosse chiara a tutti la gravità delle loro rimostranze e l'urgenza delle preoccupazioni".
'Dopo le stragi non avrei mai potuto abbandonare quello che stavo facendo'
"Noi ci andammo di persona, perché non volevamo essere vigliacchi, ma volevamo dirgli 'Non sei stato 'capace'. E Giammanco ci disse: "Allora io sono un'altra vittima delle stragi". E guardando verso me, disse: 'Teresa, pure tu?...'. Ce ne siamo andati da lì con il cuore stretto. Ma era troppo lo smarrimento per la morte dei nostri due amici, Giovanni e Paolo'', racconta ancora Teresa Principato, che si è occupata per molti anni di inchieste antimafia a Palermo, Trapani, Caltanissetta e, infine, alla Direzione nazionale antimafia. Poi, un altro aneddoto: "Durante il picchetto d'onore per Giovanni Falcone e le altre vittime della strage di Capaci al Palazzo di giustizia, Paolo Borsellino ci disse: 'Ragazzi, chi vuole continuare continui ma sappiate che è così che finiremo', indicando le bare. Dopo la morte di Giovanni Falcone prima e di Paolo Borsellino poi, alcuni colleghi se ne andarono dalla Procura, ma io decisi subito di continuare. Non per coraggio, ma per amore e rimpianto di Giovanni., di quello che mi aveva dato, per gratitudine. Io non avrei mai potuto abbandonare. Sarebbe stata una sorta di tradimento", racconta visibilmente commossa. "Io avevo ancora il sogno di cambiare molte cose. Sono stata una sognatrice, così come lo era stato lui e come era Paolo - dice - Io ritengo che quelle persone che hanno trovato la morte per perseguire e realizzare un ideale fossero tutte sognatori che pensavano di cambiare con il loro esempio questa Sicilia".
Poi, alcuni aneddoti sull'inchiesta che ha coordinato per la ricerca dell'allora latitante Matteo Messina Denaro, poi arrestato, il 16 gennaio 2023 in una clinica a Palermo e morto pochi mesi dopo. "Potrei raccontare decine di episodi in cui noi stavamo per arrivare a Matteo Messina Denaro: ogni volta, se n'era andato da poco, perché lo avevano avvertito del pericolo. Non posso e non voglio dimenticare che io sono arrivata a fare personalmente una denuncia contro il Procuratore dell'epoca, Francesco Messineo, al Csm, per il suo comportamento", dice Principato. "Nei giorni in cui noi aspettavamo da un momento all'altro la sua cattura, e non dormivamo, perché si era trovato il collegamento tra Messina Denaro e i palermitani che lui voleva incontrare, questo collegamento - Leo Sutera- fu all'improvviso tranciato dal Procuratore Messineo - spiega - senza una vera spiegazione, ma con comportamenti equivoci".
"Messineo però non venne trasferito dal Csm perché si disse che anche se 'censurabile', tuttavia rientrava nei suoi poteri il fatto di scegliere tra l'arresto di Leo Sutera quale capo di una gang agrigentina, il cui arresto non fu peraltro convalidato, e l'arresto di Matteo Messina Denaro. Certo, è 'censurabile' ma aveva il potere di farlo. E' chiaro che questa cosa ha rotto il 'gioco', perché ha demotivato la Polizia giudiziaria che lavorava con me, cioè il Ros. Non posso esprimere il dolore che io ho provato per questa cosa, il dolore per essere stata interrotta non da una talpa, come sempre, ma dal mio Procuratore. Dallo Stato. Altre volte l'arresto di Messina Denaro era stato interrotto da talpe, da carabinieri, da rappresentanti dello Stato", racconta la ex pm. "Messina Denaro ha avuto la possibilità di usufruire di una coltre di aiuti che all'ultimo momento finivano con il salvarlo - dice Principato - Sono convinta che se non avesse avuto questa gravissima malattia che lo ha fatto tornare, difficilmente sarebbe stato arrestato. Abbiamo fatto non so quanti identikit e poi lo troviamo sorridente a fare selfie con infermieri e donne, la sua vera 'malattia'".
Cronaca
Depistaggio Borsellino, difesa: “Dai pm grave colpa,...
(dall'inviata Elvira Terranova)- I pm che si occuparono delle indagini sulla strage di via D'Amelio e che non compresero le falsità dell'ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino "non agirono con leggerezza", "ma con grave colpa" nella "valutazione degli elementi di prova". Non solo. Lo stesso Scarantino che, dopo il 2014 iniziò a fare "marcia indietro" sulle accuse ai magistrati con una "ritrosia significativa", "non fu insufflato dai tre poliziotti" che oggi sono imputati per concorso in calunnia aggravata nel processo sul depistaggio sulla strage Borsellino. E' il contrattacco della difesa di due dei tre poliziotti alla sbarra davanti alla Corte d'appello di Caltanissetta. Nell'ultima udienza, prima della sentenza, prevista con ogni probabilità per il 4 giugno, dopo le repliche eventuali, l'avvocato Giuseppe Seminara, difensore di Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, parla del ruolo svolto dai magistrati che coordinarono l'inchiesta, negli anni, accusando il "fallimento del sistema" perché "è mancata la diga della valutazione della prova".
"E' mancato il rispetto della giurisdizione da parte dei pubblici ministeri. Che, in tante occasioni, hanno omesso di vagliare gli elementi di prova come avrebbero dovuto. E questa non è la leggerezza a cui ha fatto cenno il Procuratore generale, questa è una grave colpa", accusa. Gli imputati sono l'ex dirigente di Polizia Mario Bo e i due poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Al termine della sua requisitoria il procuratore generale di Caltanissetta, Fabio D'Anna, aveva chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere per Bo e 9 anni e mezzo a testa per gli altri due. Il tribunale di Caltanissetta, in primo grado, il 12 luglio 2022, aveva dichiarato prescritte le accuse contestate a Bo e Mattei, mentre Ribaudo venne assolto. L'avvocato, nel suo intervento, parla dei pm che gestirono dopo le stragi l'allora collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino che poi si rivelò falso, facendo condannare otto innocenti all'ergastolo, ma anche del falso collaboratore Salvatore Candura.
"E questa grave colpa la rivediamo in tantissimi atti portati avanti dai pubblici ministeri - dice il legale - Non mi si interpreti negativamente, non significa che ci sia stata una responsabilità da parte dei pm, ma che in quei momenti, per le ragioni storiche, per il particolare dramma che viveva l'Italia, evidentemente c'era questa necessità di procedere attraverso il canale unico che si era palesato e che, a nostro avviso, ha una ricostruzione che si lega a un elemento". E fa riferimento al furto della 126 usata per la strage. Era stato un altro falso collaboratore, come Salvatore Candura, che aveva mentito raccontando di essere stato lui a rubare la Fiat 126 poi imbottita di esplosivo ed utilizzata per compiere la strage di via D'Amelio, in cui il 19 luglio 1992 morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Una delle bugie sulle quali era stato costruito "uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana", impedendo - ancora oggi - l'accertamento pieno della verità. Salvatore Candura confessando il furto mai commesso aveva patteggiato la pena nel 1994, era stato poi inevitabilmente assolto nel 2017 dopo la sentenza di revisione del processo sulla strage.
'Dai magistrati comportamenti irrituali e superficiali'
"Quindi- spiega l'avvocato Giuseppe Seminara - Se non avessero pensato che la macchina potesse essere rubata da uno fuori dal mandamento, probabilmente oggi non saremmo qua. La convinzione che l'auto doveva essere rubata da qualcuno dello stesso mandamento ha evidentemente fuorviato le indagini. Poi, vi sono stati comportamenti irrituali, leggeri, superficiali, speculativi, da parte di tanti soggetti intervenuti nella attività, che inizia con l'attività della Polizia giudiziaria, sempre su controllo della magistratura e finisce nella valutazione della prova del processo d'appello Borsellino-bis".
L'avvocato Giuseppe Seminara nel corso dell'arringa aggiunge: "E' un processo di fallimento di sistema, perché le responsabilità singole dei singoli soggetti sono responsabilità che è difficile o impossibile pesare". Poi il legale aggiunge: "Che vi sia stata una attività precedente è cosa diversa circa la prova che Vincenzo Scarantino sia stato diretto, insufflato, sia stato riempito da parte di La Barbera o di chi apparteneva al gruppo investigativo e sia poi arrivato alle dichiarazione del 24 giugno del 1994 nel carcere di Pianosa. Ma qualcuno ha mai guardato il verbale del 24 giugno?". "E' una cosa incredibile, non riesco a capire. Scarantino in quell'interrogatorio si accusa di 6 omicidi, e non c'è nessuno che si pone il problema dei sei omicidi? Vengono trasmessi gli atti alla Procura di Palermo, che si fa una grossa risata. Qualcuno si è fatto la domanda: 'Dove sono finiti questi omicidi?'. Se io ho un collaboratore che mi parla di sei omicidi e poi tutto questo svanisce, io ho un collaboratore che deve essere messo fortemente in discussione rispetto al suo apporto conoscitivo".
"Dopo l'interrogatorio del 14 febbraio del 2014 c'è stata da parte di Vincenzo Scarantino una sorta di regressione, una ritrosia significativa nei confronti dei magistrati". Il legale di Ribaudo e Mattei fa riferimento all'interrogatorio reso da Scarantino, il falso pentito che fece condannare con le sue accuse, rivelate calunniose, otto innocenti per la strage di via D'Amelio. Durante un interrogatorio, reso il 14 febbraio 2014 Scarantino aveva accusato anche l'ex Procuratore Giovanni Tinebra, deceduto nel 2017. "Una volta dissi al dottor Tinebra- aveva detto - che non sapevo niente (delle stragi ndr). E lui mi rispose: 'Stia tranquillo, questa cosa lei la deve prendere come se fosse un lavoro. Un lavoro vero'. Stavo male, andavo a casa, piangevo e me la prendevo con mia moglie". Ma negli interrogatori successivi aveva cambiato versione. E oggi l'avvocato Seminara parla di "regressione", mentre "nei confronti dei poliziotti c'è stata una progressione di accuse". Nel 2019, in aula, al processo di primo grado sul depistaggio, a Caltanissetta, Scarantino aveva detto: "Il dottor Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Carmelo Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage. Io ho sbagliato una cosa sola: ho fatto vincere i poliziotti, di fare peccare la mia lingua e non ho messo la museruola...". In passato, tra una ritrattazione e l'altra, aveva detto di aver accusato dei mafiosi imputati perché "sollecitato" dai pm Antonino Di Matteo, Annamaria Palma e Carmelo Petralia ma anche da Giovanni Tinebra. Negli anni successivi, la retromarcia.
'Dopo il 2014 regressione di accuse di Scarantino sui pm'
"Il 14 febbraio 2014 abbiamo un picco, un 'Everest' - dice oggi l'avvocato Giuseppe Seminara - sulle accuse ai magistrati. Da quel giorno assistiamo a una continua regressione". Appunto, una "ritrosia significativa sui pm". Poi ribadisce: "Non vi è stata assolutamente la possibilità di insufflare Vincenzo Scarantino, che la dottoressa Ilda Boccassini definiva un 'fiume in piena', che effettivamente parlava di 6 omicidi e di altri fatti. Se tutti questi elementi sono reali qual è la posizione di Scarantino? Lui dice 'Io sono colpevole' e che appartiene " a un "ambito di mafia", come riferiva lo stesso ai magistrati". Quella di oggi è stata l'ultima udienza. Il Presidente della Corte d'Appello Giovanbattista Tona ha rinviato il processo al prossimo 4 giugno per le eventuali repliche e controrepliche di Pg e difesa. Lo stesso giorno potrebbe essere emessa la sentenza d'appello.
Cronaca
Morta Galassia, cane dei Vigili del Fuoco in azione a...
La femmina di border collie nel suo curriculum vanta il ritrovamento di quattro persone
Morta Galassia, cane eroe dei Vigili del Fuoco in azione anche a Rigopiano e nella tragedia del Ponte Morandi. L'animale, una femmina di border collie di 14 anni, apparteneva alle unità cinofile della Direzione Regionale dei vigili del fuoco delle Marche e ha prestato servizio da maggio 2013 fino a ottobre 2020. Ha onorato il suo speciale percorso con quasi 150 ricerche all'attivo nell'ambito di diverse calamità fra cui il terremoto di Modena, la valanga di Rigopiano, il crollo del ponte Morandi, l'incidente dei due arei Tornado ad Ascoli Piceno. Nel suo curriculum vanta il ritrovamento di quattro persone.
La caserma dei vigili del fuoco di Fermo rivolge un sentito ringraziamento a Galassia ed al suo conduttore, Franco Alessandrini, che "grazie al lavoro svolto insieme con passione e senso del dovere, hanno costituito un valido riferimento operativo per tutti i colleghi".
Cronaca
Appello specialisti obesità a medici famiglia:...
Appello ai medici di famiglia dal 31esimo Congresso europeo sull’obesità - Eco 2024, in corso a Venezia
I numeri dell’obesità nel nostro Paese sono “una vera e propria emergenza: gli adulti con questa patologia sono il 10-12% della popolazione, 6 milioni circa di persone. A questi si aggiunge il 40% in sovrappeso”. Mentre “un terzo dei bambini d’Europa ha problemi di obesità e sovrappeso, e l’Italia è ai livelli più alti”. Un’emergenza, per la quale gli specialisti lanciano un appello ai medici di famiglia dal 31esimo Congresso europeo sull’obesità - Eco 2024, in corso a Venezia. "Consideriamo l’obesità come una malattia e trattiamola. Lavoriamo insieme per questo", dice all’Adnkronos Salute Luca Busetto, vicepresidente Sud Europa dell’European Association for the study of Obesity (Easo), che ha organizzato l’appuntamento scientifico.
"L'obesità - continua Busetto - ha dei numeri così elevati, dal punto di vista epidemiologico, che non può essere affrontato solo a livello specialistico. È necessaria la collaborazione dei medici di cure primarie, sia a livello dell'adulto sia a livello del bambino, per il trattamento, lo screening, la diagnosi e le cure di prima linea. Credo che i nostri colleghi medici di medicina generale e pediatri abbiano un ruolo importante e debbano, quindi, essere ancora più sensibili al problema, soprattutto oggi in cui, almeno nell’adulto, cominciamo ad avere trattamenti che sono più efficaci che in passato”, ha concluso Busetto annunciando che domani, al congresso, sarà presentato un documento per richiamare l’attenzione sull’emergenza obesità e indicare le azioni e le politiche necessarie per contrastarla. "Come società italiana dell’obesità abbiamo continui contatti con le società scientifiche di medicina generale, siamo molto vicini, organizziamo molto spesso anche eventi formativi insieme. Ma dobbiamo implementare questo lavoro”.