Sostenibilità
“Il riciclo della plastica è una truffa”, la denuncia del...
“Il riciclo della plastica è una truffa”, la denuncia del Center for Climate Integrity
Per l’associazione è solo un modo per tranquillizzare e ingannare i consumatori
E se il riciclo della plastica fosse uno specchietto per le allodole? Questa è la tesi dell’associazione statunitense Center for Climate Integrity, secondo cui questa pratica, fondamentale nell’ambito della transizione, sarebbe una “frode”.
L’indagine si riferisce agli Usa e molti osservatori sono critici sulle conclusioni del Center for Climate Integrity.
“Alla base della crisi dei rifiuti di plastica – afferma Cci – c’è una campagna decennale di frodi e inganni sulla riciclabilità della plastica. Nonostante sappiano da tempo che il riciclo della plastica non è né tecnicamente né economicamente sostenibile, le aziende petrolchimiche – da sole e attraverso le loro associazioni di categoria e gruppi di facciata – si sono impegnate in campagne di marketing e di educazione pubblica fraudolente, volte a ingannare il pubblico sulla fattibilità del riciclo della plastica come soluzione ai rifiuti plastici”.
In effetti, negli Stati Uniti il tasso di riciclaggio della plastica era appena il 5%-6% nel 2021.
La confusione dei consumatori
Secondo Icc, il problema è stato nascosto inducendo in errore i consumatori.
La confusione deriverebbe da diversi fattori, in primis i simboli di riciclo utilizzati sui prodotti in plastica. La Society of the Plastics Industry (Spi) ha introdotto i Codici di Identificazione delle Resine nel 1988, i famosi numeri all’interno di un triangolo e con le frecce, un simbolo ampiamente riconosciuto come indicativo della riciclabilità. Tuttavia, questi simboli hanno fuorviato i consumatori, facendo credere che i contenitori in plastica siano composti di materiale riciclato o che siano riciclabili, il che non è sempre vero.
Il sistema Ric era stato concepito per semplificare la separazione delle fonti etichettando i contenitori con la loro composizione materiale. Tuttavia, la tendenza a realizzare contenitori con diversi materiali ha reso poco pratiche queste indicazioni. Cci denuncia che la National Recycling Coalition, la no profit statunitense che si occupa di riciclo, ha cercato di affrontare la mancanza di chiarezza nei codici ma ha scoperto che la Society of the Plastics Industry non era interessata a intervenire.
Ma per gli autori del report l’inganno dei consumatori va ben oltre le etichette. Vi sarebbe, infatti, una incomprensione di fondo: a differenza di quanto comunicato, la maggior parte delle plastiche è difficile da riciclare a causa della loro struttura molecolare, che si degrada durante la fabbricazione iniziale, l’invecchiamento e qualsiasi processo di recupero. Una degradazione che porta la plastica riciclata a costare di più nonostante la minore qualità rispetto alla resini vergini. Tutto ciò si traduce in una mancanza d’interesse da parte dei produttori nell’acquisto di resine riciclate, il che giustificherebbe il bassissimo tasso di riciclo in Usa.
Nel 1991 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha concluso che “sembra che attualmente solo due tipi possano essere considerati per la trasformazione in oggetti di alta qualità, il Pet e l’Hdpe”, in particolare quelli provenienti dalle bottiglie. “Questo rimane vero più di 30 anni dopo”, afferma il report.
Per gli autori, “le pubblicità del settore, sponsorizzate da singole aziende petrolchimiche o da gruppi di facciata, hanno normalizzato l’idea che la plastica possa essere riciclata tra i consumatori e i politici. Molti di questi annunci confondono in modo fuorviante il successo iniziale e limitato del riciclaggio di Pet e Hdpe con il riciclaggio della plastica in generale”.
La confusione dei consumatori sul riciclo della plastica sarebbe stata alimentata dalla promozione dell’incenerimento e della discarica come soluzioni iniziali dall’industria, seguite dal tentativo di spostare l’attenzione sul riciclo come risposta alle preoccupazioni del pubblico e alla pressione regolamentare.
Perché si ricicla poca plastica
Volendo ordinare le cause che, secondo l’associazione, rendono inefficace il sistema di riciclaggio della plastica:
- Inganno dei consumatori;
- difficoltà nel riciclare le plastiche per: la loro struttura molecolare, l’utilizzo di più materiali insieme, della mancanza di un mercato per le plastiche riciclate;
- il costo più alto della materia prima seconda rispetto a quella vergine;
- la degradazione dei polimeri durante il riciclo della plastica e l’aggiunta di additivi che ne limitano la riciclabilità.
Il caso Lego
Che il riciclo di plastica sia più complesso di quanto sembri era stato già dimostrato da Lego. Nel giugno 2021 l’azienda danese, leader mondiale nella produzione di giocattoli, aveva annunciato di voler produrre i suoi mattoncini colorati usando la plastica delle bottiglie. Da quel momento, Lego ha investito 400 milioni di dollari nel progetto di ricerca puntando sul Pet (polietilentereftalato) riciclato anche noto come Rpet (Recycled Pet). Fino alla triste constatazione: non esiste “un materiale magico” che dia le prestazioni sperate, come ha dichiarato Christiansen al Financial Times.
Il Pet avrebbe dovuto sostituire l’attuale materiale utilizzato per la produzione dei mattoncini, ovvero l’Abs (acrilonitrile butadiene stirene), che è a base di petrolio. Dopo anni di studi, Lego ha rinunciato a usare la plastica riciclata perché Il Pet riciclato si è dimostrato meno efficace dell’Abs sia sotto il profilo della performance tecnica, sia (a sorpresa) sotto il profilo delle emissioni. “È come cercare di fare una bici di legno anziché di acciaio”, ha dichiarato il capo del dipartimento che si occupa di sostenibilità ambientale Tim Brooks.
Non solo: è anche emerso che il Pet riciclato avesse una resistenza peggiore di quello “originale” comportando seri rischi di economia circolare, in contrasto con l’Sdg 12 dell’Agenda delle Nazioni Unite che incentiva la lunga vita e il riutilizzo dei beni per ridurre i rifiuti.
Come è cambiato il riciclo della plastica
A fare chiarezza sulla diffusione del riciclo di plastica è intervenuta l’Ocse con un report del 2022. Da una parte si attesta che negli ultimi 30 anni il consumo di plastica è quadruplicato, dall’altra che la produzione di plastiche riciclate, dette anche secondarie, è più che quadruplicato. Nonostante il riciclo sia aumentato a un ritmo più veloce della nuova produzione, nel 2019 rappresentava appena il 6% della produzione totale di plastica.
Restringendo l’indagine, dal 2000 al 2019 la produzione di plastica è più che raddoppiata ma solo il 9% viene riciclato con successo, registra l’Ocse che denuncia: “Mentre l’aumento della popolazione e dei redditi determina una crescita inarrestabile della quantità di plastica utilizzata e gettata via, le politiche per frenare la sua dispersione nell’ambiente sono insufficienti”.
Il riciclo in Ue
Secondo un recente studio del Jrc (Joint Research Centre) della Commissione europea, in Ue viene riciclato meno di un quinto della plastica , il 16,6% di tutta la plastica utilizzata nel territorio comunitario. Un altro dato del rapporto indica con chiarezza dove intervenire per invertire un trend disallineato con il piano e l’impegno green dell’Unione: il 70% del totale dei rifiuti in plastica inviati al riciclo proviene dal settore degli imballaggi. Una concentrazione che ha portato l’Unione a intervenire in maniera specifica con il regolamento imballaggi, ampiamente criticato dalla politica italiana.
A incidere negativamente sul tasso di riciclo europeo è l’esportazione dei rifiuti all’estero, dove non si ha alcuna garanzia sul destino della plastica: “Una così piccola percentuale di riciclaggio di plastica in Europa implica grosse perdite sia per l’economia che per l’ambiente. – spiega lo stesso Parlamento Ue in un dossier - Si stima che il 95% del valore dei materiali per imballaggio di plastica si perda nell’economia dopo un ciclo di primo utilizzo molto breve”.
In Europa il modo più usato per smaltire i rifiuti di plastica è la termovalorizzazione, seguita solo al secondo posto dal riciclaggio. Il 25% circa dei rifiuti in plastica generati viene smaltito in discarica, mentre metà della plastica raccolta per il riciclaggio viene esportata al di fuori dei confini europei.
Perché l’Ue esporta plastica
È ancora il Parlamento europeo a spiegare perché l’Ue esporti plastica all’estero: mancanza di strutture, di tecnologia e di risorse finanziarie adeguate a trattare localmente i rifiuti. Una situazione che, nel 2020, ha portato le esportazioni di rifiuti europei verso Paesi terzi a quota 32,7 milioni di tonnellate. La maggior parte dei rifiuti è costituita da rottami di metalli ferrosi e non ferrosi, nonché da rifiuti di carta, plastica, tessili e vetro e va principalmente in Turchia, India ed Egitto.
In passato una fetta significativa dei rifiuti di plastica esportati veniva spedita in Cina, ma è probabile che il blocco all’importazione dei rifiuti di plastica imposto dal governo di Xi Jinping contribuisca a un ulteriore diminuzione delle esportazioni. Il che non è detto che sia un bene: in assenza di strutture e investimenti ad hoc, il rischio è che aumentino l’incenerimento e la messa in discarica dei rifiuti di plastica in Europa, come spiega il Parlamento europeo.
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Piantare alberi nel modo giusto, la scienza in soccorso del...
Non c’è organizzazione, governo nazionale o locale che negli ultimi anni non abbia promesso di piantare degli alberi per combattere il riscaldamento globale. Gli esperti di The Nature Conservancy, ente non profit con sede ad Arlington, negli Stati Uniti, li mettono in guardia: non tutte queste iniziative contribuiscono al benessere del Pianeta. I progetti che non tengono conto dell’albedo, il potere riflettente di una superficie, rischiano di sovrastimare i loro effetti positivi del 20-80%. Lo riporta Agence France-Presse.
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Contrastare il cambiamento climatico è una priorità per gli...
I dati del sondaggio Euronews-Ipsos
Si avvicina la data delle elezioni europee, che in Italia si svolgeranno l’8 e il 9 giugno 2024, ma quali sono i temi più sentiti dagli elettori europei? Agire per contrastare il cambiamento climatico è una delle priorità per oltre la metà dei cittadini del Vecchio Continente. Per contro, meno di un terzo di essi ritiene che sinora l’UE abbia avuto un impatto positivo in difesa dell’ambiente. È quanto emerge dal primo sondaggio paneuropeo di questo genere svolto da Euronews e Ipsos su un campione di quasi 26 mila persone di 18 diversi Paesi. Dunque, se da un lato i cittadini sentono forte la necessità di dover fare qualcosa di concreto per limitare i danni degli eventi climatici sempre più disastrosi, dall’altro emergono non poche perplessità circa l’operato dell’UE in difesa dell’ambiente e delle persone.
I dati dei singoli Paesi
Contrastare il cambiamento climatico non è però sentito come una priorità allo stesso modo dai cittadini dei diversi Stati membri dell’UE. Sono soprattutto danesi (69% degli interpellati) portoghesi (67%) e svedesi (62%) a considerarlo come un tema centrale di cui dovrebbe occuparsi maggiormente il Governo centrale europeo. Al contrario, polacchi, cechi e finlandesi ritengono la questione non prioritaria: nel complesso solo il 34% del totale degli elettori di questi tre Paesi pensano sia un tema fondamentale. In particolare, in Polonia il 35% degli intervistati ritiene che la lotta al cambiamento climatico sia una questione secondaria. A livello di genere e fascia d’età, le donne europee sono più propense a pensare che le questioni inerenti al cambiamento climatico siano prioritarie, il 55% contro il 45% degli uomini. Il sondaggio sottolinea che, invece, l’età non rappresenta un elemento fondamentale nelle scelte dei cittadini europei, infatti, circa la metà di tutte le fasce ritiene la questione del clima prioritaria, circa un terzo la considera “solo” importante.
L’azione dell’UE in difesa dell’ambiente
Se da un lato le nuove direttive europee introdotte negli ultimi anni hanno portato notevoli cambiamenti anche mediante l’applicazione di misure drastiche per cercare di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, dall’altro la percezione dei cittadini sull’impatto di tali norme non è molto positiva. Solo il 32% degli elettori europei ritiene che l’UE abbia avuto effetti favorevoli sulla protezione dell’ambiente. Tra i cittadini che hanno un parere positivo circa l’operato del Governo europeo su tali temi vi sono al primo posto i rumeni (48%), seguiti dai portoghesi (47%) e dai finlandesi (45%). All’opposto, tra i più critici ci sono i francesi: il 39% di loro ritiene che Bruxelles abbia addirittura avuto un impatto negativo sul contrasto al cambiamento climatico. Molto critici anche gli olandesi, solo uno su quattro ha una visione positiva dell’azione ambientale dell’Unione. Proprio in Francia e Paesi Bassi, infatti, si sono di recente tenute grandi manifestazioni di protesta, specie degli agricoltori, contro il Green Deal che sarebbe la causa dell’aumento dei prezzi dei prodotti comunitari a discapito di quelli extra UE.
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Il Mediterraneo è a rischio soffocamento: ecco cause e...
L’Osservatorio Climatico Enea “Madonie – Piano Battaglia” prosegue la sua attività di monitoraggio denunciando l’aumento di metano e Co2 nel mare
L’area del Mediterraneo è sempre più a rischio per l’aumento delle emissioni di Co2 e metano. Questo è quanto è emerso dal Report dell’Osservatorio Climatico Enea “Madonie – Piano Battaglia” che dal 2005 effettua costanti misure della concentrazione dei gas nel mare.
I dati hanno evidenziato la crescente minaccia per il Mediterraneo. Lo stesso è emerso anche dall’Osservatorio Enea di Lampedusa e da differenti istituzioni internazionali. In sintesi, il Mediterraneo sta soffocando. L’Osservatorio, con il supporto di Ente Parco delle Madonie e Comune di Petralia Sottana, prosegue la sua attività di analisi e ricerca, anche grazie alla sua posizione strategica.
L’alta quota e l’assenza di contaminazioni hanno permesso di misurare che a Madonie – Piano Battaglia, in Sicilia, la concentrazione di Co2 è aumentata con un tasso di crescita di 2.16 ppm/anno dal 2005 ad oggi. Un aumento altrettanto preoccupante è quello del metano che accelera ogni anno, da oltre un decennio, la sua concentrazione nelle acque della zona.
Quali conseguenze
A confermare questo preoccupante fenomeno è anche la World Meteorological Organization che ha pubblicato i dati globali raccolti in occasione del World Meteorological Day 2024. Il 2023 è così risultato l’anno più caldo mai registrato con una temperatura media globale di circa 1,45 gradi superiore alla media del periodo che andava tra la metà dell’800 e i primi del ‘900.
A contribuire particolarmente a questo fenomeno, oltre i danni derivanti dall’attività umana, vi è El Nino, il fenomeno di surriscaldamento che negli ultimi due anni ha avvolto l’area dell’Europa Occidentale e non solo. Questi cambiamenti, però, non sono stati lenti e graduali, ma hanno visto un’accelerata nell’ultimo decennio. Sono proprio le concentrazioni di gas serra che hanno alimentato l’aumento delle temperature su terra e oceani, con conseguente innalzamento delle acque e scioglimento dei ghiacciai.
In altre parole, quello a cui stiamo assistendo è l’aumento del 50% delle concentrazioni di Co2 che hanno raggiunto 417,9 ppm nel 2022 a causa dell’uso di combustibili fossili, della deforestazione e dei cambiamenti nell’uso del suolo. Questo genera l’aumento delle temperature con eventi estremi come ondate di caldo, siccità, incendi, cicloni tropicali
Cosa fare?
In un panorama climatico destinato a peggiorare, le attività di monitoraggio e prevenzione assumono più che in altre occasioni, ruoli di rilevanza indispensabile. Proprio questo tipo di attività, infatti, consente di gestire tempestivamente catastrofi ambientali e danni a persone e oggetti materiali, come si è verificato nel Centro e Nord Italia nell’ultimo anno. I finanziamenti pubblici e privati, secondo gli scienziati internazionali, dovrebbero aumentare di almeno sette volte entro la fine del decennio per raggiungere gli obiettivi climatici imposti dai tavoli tecnici transnazionali.
Un ruolo cruciale, in tal senso, è giocato dalle energie rinnovabili che potrebbero ridurre di molto la produzione di Co2 e far sì che si possa abbandonare l’uso dei combustibili fossili.
Anche le città e aree urbane offrono significative opportunità di riduzione delle emissioni.
L’importanza della ricerca e del confronto
Per le sue specificità l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) nel 2021 ha conferito all’Osservatorio Enea delle Madonie il riconoscimento ufficiale di stazione regionale, rappresentativa per tutta l’area del Mediterraneo centrale, nell’ambito del Global Atmosphere Watch (GAW), la rete mondiale per lo studio del clima globale.
A settembre 2024, grazie a questi dati e a quelli internazionali, l’Onu si riunirà per il Summit del Futuro per accelerare il rispetto degli impegni internazionali intensificando risorse e mezzi e adottare quindi misure volte a rispondere con tempestività alle sfide e alle opportunità emergenti. Il “Patto per il futuro” è atteso per la fine dell’anno.