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Esteri

Turchia, oggi il ballottaggio: l’appello di Erdogan, la promessa di Kilicdaroglu

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Resa dei conti per il presidente in carica, chi è lo sfidante e chi il 'terzo uomo' i cui voti sono l'ago della bilancia

Afp

Il presidente in carica, Recep Tayyip Erdogan, ha lanciato ieri un ultimo appello ai suoi elettori a recarsi in massa alle urne oggi, giorno del ballottaggio presidenziale in Turchia, chiedendo “una grande vittoria”. In un tweet, Erdogan, che sfida il candidato dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu, ha esortato a “iniziare il secolo della Turchia con i nostri voti”.

Secondo quanto riferito dall’agenzia Anadolu, i seggi resteranno aperti dalle 8 alle 17. Sono oltre 60 milioni i potenziali elettori, mentre il Consiglio elettorale supremo ha riferito che quasi 1,9 milioni di turchi hanno già votato all’estero.

Un funambolo che cammina sul filo del rasoio senza percezione del rischio. L’azione politica di Recep Tayyip Erdogan è sempre stata un continuo azzardo. E anche nel suo ultimo mandato è rimasto fedele alla linea, tra mediazioni ‘impossibili’ sull’Ucraina, lo scontro con la Nato sull’ingresso di Finlandia e Svezia e i preparativi per nuove operazioni militari contro i curdi in Siria.

E di temi ce ne sarebbero ancora decine per un leader da 20 anni al potere e che non smette mai di stupire. Un rilancio continuo il suo, in cui nuovi fronti (e scontri) si aprono, mentre altri si chiudono con una stretta di mano. Oggi, nonostante i problemi di salute manifestati in campagna elettorale, si prepara per il suo numero provato e riprovato di cui è campione assoluto: la vittoria delle elezioni. Sulla sua strada stavolta ha trovato un’opposizione agguerrita come non mai, che si è unita in blocco per sbarrargli la strada. Ma sono in molti a pensare che il suo nome uscirà a maggioranza dalle urne del ballottaggio.

Sul fronte internazionale Erdogan, una volta pompiere un’altra piromane, in questi ultimi anni ha giocato su più tavoli nello stesso tempo, con un sogno nel cassetto: ospitare sul suolo turco un incontro che sarebbe storico tra Putin e Zelensky. Far fare la pace ai due leader è cruccio e obiettivo dichiarato del Sultano che a marzo 2022 sfiorò il bersaglio grosso, ospitando ad Antalya i ministri degli Esteri dei due Paesi in guerra.

Il mediatore Erdogan ha raccolto però un grande risultato con la firma a Istanbul dell’accordo che sbloccò le esportazioni di grano dall’Ucraina, scongiurando una crisi alimentare mondiale. Un successo diplomatico che il presidente turco, al momento tra i pochi leader mondiali in grado di dialogare nello stesso tempo con Zelensky e Putin, ha replicato una settimana fa strappando l’ok alla proroga dell’intesa per due mesi. E nei suoi spericolati passaggi da un fronte all’altro, ha anche facilitato uno scambio di prigionieri tra le parti.

Ma la mano di Erdogan non può essere solo piuma. Sempre nel contesto ucraino, il leader turco ha ingaggiato una battaglia politica furiosa contro l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. I due Paesi scandinavi, intimoriti dal bellicismo russo, hanno chiesto ospitalità all’Alleanza ricevendo messaggi di giubilo da tutti i membri. Tutti tranne due: l’Ungheria di Orban e, appunto, la Turchia.

Ankara, dopo aver concesso l’adesione di Helsinki, sta forzando la mano per farsi consegnare dalla Svezia alcuni personaggi legati al Pkk o alla rete Gulen, movimenti considerati alla stregua di gruppi terroristici. Un braccio di ferro, quello con Stoccolma, che per il momento non vede vincitori, ma l’unica certezza nella vita è che alla fine Erdogan otterrà qualcosa in cambio, come insegna anche il suo approccio alla crisi dei migranti condito dal ‘ricatto’ all’Ue.

Il presidente turco, intanto, tesse la sua tela regionale, creando nuove alleanze. Ha infatti fatto la pace con Emirati ed Israele e ha iniziato una “nuova era” nelle relazioni con l’Arabia Saudita dopo il gelo successivo alla morte atroce riservata dai sicari del Golfo al giornalista Jamal Khashoggi nel consolato del suo Paese a Istanbul. Un riavvicinamento sancito dalla visita di Erdogan nel regno di re Salman ricambiata da quella ad Ankara dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman.

Sullo sfondo, ma neanche tanto, restano la nuova campagna nel nord della Siria contro i curdi che il presidente turco minaccia da tempo, ma che ora sembra essere stata accantonata in nome di una possibile riconciliazione con Assad, e lo scontro con la Grecia.

Ma la partita decisiva per le sue sorti politiche Erdogan la giocherà oggi. Primo ministro dal 2003 al 2014 e da allora capo di Stato, ha traghettato il Paese – attraverso un contestato referendum costituzionale nel 2017 – da un sistema parlamentare a uno presidenziale. Le urne stabiliranno se il Sultano avrà avuto ragione anche stavolta.

Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, socialdemocratico, è l’uomo scelto dall’opposizione – non senza polemiche a dire la verità – per rivoluzionare la scena politica turca e mettere fine al ventennio al potere di Erdogan. Il leader del Partito Repubblicano del Popolo (Chp), la principale forza di opposizione in Turchia, è pronto per la sfida finale con il Sultano. Un’impresa difficile, visti i risultati del primo turno, ma non impossibile secondo il suo entourage, che ha battuto molto in questi ultimi giorni il tasto del rimpatrio dei siriani per conquistare consensi tra i nazionalisti.

Per diventare presidente, Kilicdaroglu ha messo su un cartello elettorale non proprio omogeneo dal punto di vista politico (si spazia da forze dichiaratamente di sinistra alla destra estrema) ed i cui leader all’inizio non erano tutti convinti di convergere sul suo nome. Anzi, l’annuncio della sua possibile candidatura aveva spaccato l’opposizione con l’uscita dal blocco del Buon Partito (Iyi), la seconda forza dopo il Chp, la cui leader Meral Aksener preferiva quella del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, o in alternativa di quello di Ankara, Mansur Yavas. Il compromesso che ha salvato l’apparente unità dell’opposizione è che, in caso di vittoria, i due sindaci saranno i vice di Kilicdaroglu.

Da tanti anni ai ferri corti con Erdogan, come testimoniano anche le cause in tribunale da cui è sempre uscito sconfitto, il leader del Chp dal 2010 non ha grandi successi elettorali da opporre al Sultano nella sua carriera politica. Eletto deputato per la prima volta nel 2002, Kilicadorglu venne sconfitto alle elezioni amministrative di Istanbul nel 2009. Ciò nonostante, l’anno successivo fu eletto con un plebiscito alla guida del Chp.

Le elezioni del 2011 furono relativamente positive, in quanto il partito – seppur quasi doppiato dall’Akp di Erdogan – segnò un aumento dei consensi arrivando al 26%. Un risultato pressoché analogo lo raggiunse nel 2015, mentre alle elezioni del 2018 il candidato del Chp, Muharrem Ince (che quest’anno ha annunciato il ritiro a pochi giorni dal primo turno), superò di poco il 30%.

Nel 2016 uscì illeso dopo che l’auto su cui viaggiava nella provincia di Artvin, sul Mar Nero, era finita nel mezzo di uno scontro tra uomini armati e militari. Nello scontro, secondo il quotidiano Sabah, persero la vita due soldati. Un suo consigliere spiegò che non si era trattato di un attacco contro di lui.

Nel 2017 fece di nuovo parlare di sé i media internazionali mettendosi alla guida di una marcia pacifica da Ankara a Istanbul per chiedere una riforma del sistema giudiziario. A scatenare la protesta di Kilicdaroglu fu la condanna a 25 anni di carcere del giornalista e parlamentare del Chp, Enis Berberoglu, accusato di spionaggio e di avere fornito al quotidiano Cumhuriyet informazioni per uno scoop che mise in cattiva luce il governo. La marcia si concluse ad Istanbul con un grande comizio davanti a una folla oceanica.

In caso di vittoria, ha promesso ripetendolo come un mantra nei vari appuntamenti che hanno scandito la sua campagna elettorale, governerà la Turchia in modo più democratico rispetto a Erdogan. Uno dei momenti clou della sua campagna è stato sicuramente quando, rompendo un tabù, ha rivelato di essere di fede alevita. Questa minoranza, che osserva riti e regole diverse rispetto a quelli dell’Islam tradizionale, in Turchia è stata vittima di discriminazioni e massacri. Alcuni sunniti estremisti considerano ancora oggi gli aleviti come degli eretici e si rifiutano addirittura di mangiare un piatto cucinato da loro ritenendolo “impuro”. Se dovesse essere eletto, Kilicdaroglu ha promesso di mettere fine alle discriminazioni e a “contenziosi confessionali che hanno causato sofferenze”.

In politica estera il suo obiettivo è spostare il focus di Ankara dando priorità alle relazioni con l’Occidente piuttosto che al Cremlino. “Vogliamo entrare a far parte del mondo civilizzato – ha spiegato – Vogliamo media liberi e una magistratura totalmente indipendente. Erdogan non la pensa così. Vuole essere autoritario. La differenza tra noi ed Erdogan è come tra il bianco ed il nero”.

Della sua campagna saranno ricordati gli spot girati intorno al tavolo della sua cucina, con sullo sfondo i canovacci appesi ordinatamente. In uno di questi video è apparso con una cipolla in mano, avvertendo che i prezzi continueranno a salire se Erdogan rimarrà al potere.

Un ultranazionalista anti-immigrati con simpatie kemaliste. Sinan Ogan, 54 anni, è stata la sorpresa del primo turno delle presidenziali turche, dominato dallo scontro tra il presidente in carica e il leader dell’opposizione.

Nessuno dei due è riuscito a oltrepassare la fatidica soglia del 50% e, secondo tutti gli osservatori, il 5,17% ottenuto da Ogan con la sua coalizione Ata che prende il nome dal fondatore della Repubblica Mustafa Kemal Ataturk, sarà determinante al ballottaggio.

Con una mossa definita “sorprendente” dal quotidiano governativo Sabah, ma che non ha sorpreso molto gli osservatori, a inizio settimana Ogan ha annunciato che di sostenere Erdogan. Ne è nata una sorta di ‘faida’ all’interno del Partito Zafer (Vittoria), per il quale è stato candidato al primo turno, con l’ultranazionalista e leader del partito, Unit Ozdag, che ha invece comunicato il suo endorsement per Kilicdaroglu.

Ex esponente dell’Mhp, il partito nazionalista che è coalizzato con l’Akp di Erdogan, Ogan è laureato in economia aziendale presso l’Università di Marmara e ha completato un dottorato presso l’Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali.

Nel 2011 è stato eletto deputato a Igdir, la sua città natale nell’Anatolia orientale che vede una considerevole popolazione azera. Egli stesso ha radici azere. La sua uscita dall’Mhp risale al 2017, in occasione del contestato referendum costituzionale con cui Erdogan trasformò l’architettura politica del Paese da un sistema parlamentare a uno presidenziale. Ogan si oppose alla decisione dell’Mhp di appoggiare la riforma.

Ogan, dal portamento altero e dall’aspetto sempre impeccabile, ha detto di essere “molto a suo agio” nel ruolo di kingmaker e ha usato i soliti toni crudi per chiarire le sue condizioni in vista del ballottaggio: “Quello che voglio è chiaro, è la partenza dei siriani. Tutti i profughi devono tornare a casa”.

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Uccide marito e simula furto in casa, scrittrice libri infanzia accusata di omicidio

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La 37enne, secondo 'Le Parisien', avrebbe confessato. Ignoti i motivi del gesto. Ora è in custodia cautelare

La scrittrice di libri per l’infanzia Justine Jotham, secondo quanto scrive ‘Le Parisien’, avrebbe confessato di aver ucciso il marito, il 51enne Patrice Charlemagne, a coltellate nella sua casa vicino a Dunkerque. La 37enne, che era anche docente universitaria come la vittima, scrive il quotidiano francese, avrebbe chiamato lei stessa la polizia in un primo momento, sostenendo di aver subito un furto con scasso e di essere riuscita a scappare, portando in salvo sua figlia. Soltanto dopo qualche ora, davanti agli investigatori, riporta ‘Le Parisien’, sarebbe arrivata la confessione dell’omicidio. Ignoti i motivi del gesto. Al momento la donna è stata messa in custodia cautelare.

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Ucraina, Ue versa ancora 1,5 miliardi: in totale 13,5 miliardi a Kiev

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Soldi per pagare stipendi e pensioni, per tenere aperti ospedali e scuole

Urusula von der Leyen e Volodymyr Zelensky

La Commissione Europea ha versato oggi all’Ucraina 1,5 miliardi di euro nell’ambito del pacchetto di assistenza macrofinanziaria, per un valore massimo di 18 miliardi di euro, con cui l’Ue cerca di aiutare Kiev a coprire il fabbisogno di finanziamento nel 2023. Con il pagamento di oggi, nel 2023 l’Ucraina ha finora ricevuto 13,5 miliardi di euro nel quadro dell’assistenza macrofinanziaria.

I soldi aiuteranno Kiev a continuare a pagare salari e pensioni e a mantenere in funzione i servizi pubblici essenziali, come ospedali, scuole e alloggi per gli sfollati. Il prestito permetterà inoltre all’Ucraina di garantire la stabilità macroeconomica e di ripristinare le infrastrutture distrutte dalla Russia nella sua guerra di aggressione, come reti energetiche, sistemi idrici, reti di trasporto, strade e ponti.

Il pagamento di oggi avviene dopo che la Commissione ha constatato, il 25 luglio, che l’Ucraina ha continuato a compiere progressi “soddisfacenti” nell’attuazione delle condizioni politiche concordate e ha rispettato gli obblighi di rendicontazione, che mirano a garantire l’uso trasparente ed efficiente dei fondi. L’Ucraina ha in particolare compiuto “importanti progressi nel rafforzare la stabilità finanziaria, rafforzare lo Stato di diritto, migliorare il sistema del gas, incoraggiare l’efficienza energetica e promuovere un clima imprenditoriale migliore”.

La presidente Ursula von der Leyen sottolinea che “quest’anno abbiamo pagato 13,5 miliardi di euro per aiutare l’Ucraina a mantenere in funzione ospedali, scuole e altri servizi. Mese dopo mese, il nostro sostegno continuo aiuta anche l’Ucraina a pagare stipendi e pensioni. Questa assistenza rapida e flessibile è adattata alle esigenze del paese e promuove anche riforme trasformative in Ucraina. Il nostro impegno a fianco dell’Ucraina è costante e continueremo a fare la nostra parte per ricostruire un Paese moderno e prospero”. Nel complesso, dall’inizio della guerra, il sostegno all’Ucraina ammonta a circa 81 miliardi di euro, somma che include il sostegno finanziario, umanitario, di emergenza e militare all’Ucraina da parte dell’Ue, degli Stati membri e delle istituzioni finanziarie europee, nonché le risorse messe a disposizione per aiutare gli Stati membri ad accogliere gli ucraini in fuga dalla guerra.

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Migranti, Germania a Italia: “Rispetti Dublino o non accoglieremo più”

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Il ministro dell'Interno tedesco, Faeser: Roma deve "venirci incontro" e adempiere ai suoi obblighi

Migranti a Lampedusa - (Afp)

“L’Italia non si attiene” al meccanismo “di riammissione” previsto da Dublino per i migranti. “E fino a quando l’Italia non lo farà, non accoglieremo più rifugiati”. A dichiararlo, intervenendo alla trasmissione ‘maybrit illner’, dell’emittente tedesca Zdf, è stata Nancy Faeser, ministro dell’Interno del governo di Berlino, sottolineando come nell’Unione europea sia stato concertato un meccanismo di solidarietà: Roma deve ora “venirci incontro” e adempiere ai suoi obblighi.

Il regolamento ‘Dublino III’, entrato in vigore l’1 gennaio 2014, definisce criteri e meccanismi di uno Stato membro Ue per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Ovvero, definisce quale Stato deve farsi carico della richiesta di asilo di una persona giunta in territorio europeo.

Attraverso l’Eurodac (sistema usato per confrontare le impronte digitali per l’applicazione della convenzione di Dublino) – vengono registrati i dati e le impronte di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di un Paese membro o presenti richiesta di protezione internazionale.

La banca dati consente quindi di stabilire, confrontando le impronte, se un richiedente asilo o un cittadino straniero, che si trova illegalmente sul territorio di uno Stato, “ha già presentato una domanda in un altro Paese dell’Ue o se un richiedente asilo è entrato irregolarmente nel territorio dell’Unione”, si legge sul sito dedicato alla normativa europea ‘eur-lex.europa.eu’.

Con la presentazione della domanda di protezione internazionale in un Paese europeo, se in base al racconto del richiedente o ad altri elementi, come le impronte, emergono dubbi sulla competenza si apre una fase di accertamento, ‘Fase Dublino’, che sospende l’esame della domanda di asilo.

Di fronte al fenomeno migratorio “occorre studiare, definire e porre in campo soluzioni nuove e coraggiose e non superficiali e approssimative. Occorrono soluzioni naturalmente europee, perché non è un problema che un Paese da solo può affrontare, neppure il più grande. Soluzioni nuove da studiare approfonditamente, con serietà”, ha affermato ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’incontro stampa congiunto con l’omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier.

“Occorre pensare in maniera adeguata, altrimenti è come usare strumenti rudimentali e superati di fronte a fenomeni totalmente nuovi – ha proseguito – Ad esempio le regole di Dublino sono preistoria: voler regolare il fenomeno migratorio facendo riferimento agli accordi di Dublino è come dire realizziamo la comunicazione in Europa con le carrozze a cavalli”. “Era un altro mondo quello – ha ribadito il capo dello Stato – pensare di fare riferimento, come alcuni Paesi dell’Unione fanno ancora basandosi su Dublino, è come fare un salto nel pleistocene, in un’altra era zoologica, è proprio una cosa fuori dalla realtà. Per questo occorre uno sforzo in cui nessuno ha la soluzione in tasca, nessuno deve dare soluzioni, ma insieme cercarla, velocemente, prima che sia impossibile governare il fenomeno”. Servono “nuove formule e nuove soluzioni”.

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Migranti, New York sfratta gli uomini single: la stretta del sindaco

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I maschi adulti potranno rimanere nei centri d'accoglienza solo 2 mesi

Eric Adams (Afp)


Nuova stretta a New York contro i migranti. Nel tentativo di scoraggiare il flusso verso la Grande Mela, il sindaco Eric Adams ha deciso di limitare a due mesi la permanenza nei centri di accoglienza di profughi adulti single. Gli ‘sfratti’, secondo le ultime news, inizieranno nella giornata del 23 settembre con migliaia di migranti che si troveranno così senza un posto dove dormire o un lavoro.

Il sindaco ex poliziotto, democratico ma su posizioni centriste, conferma quindi la sua posizione critica verso le politiche adottate per decenni dalla città di fornire riparo ed assistenza a chiunque ne avesse bisogno per tutto il tempo necessario. Con oltre 60mila migranti affidati alle cure della città, e i centri di accoglienza come il Roosevelt Hotel ormai stracolmi, Adams ha parlato più volte di una situazione insostenibile che rischia di ‘distruggere New York’: “Ogni mese arrivano 10mila migranti in città, questa crisi distruggerà New York”, ha detto il primo cittadino una decina di giorni fa.

“Quello che non si comprende a pieno è quanto accogliente New York sia stata finora verso i migranti, da molti punti di vista, e questo è il motivo principale per cui vengono qui”, argomentano con Politico consiglieri del sindaco, spiegando come la nuova misura è invece tesa a scoraggiare questi arrivi. “Se ora si capisce che non è garantito un posto dove stare, questo fa diminuire il flusso”, aggiunge.

Anche la governatrice, sempre dem, Kathy Hochul esprime le stesse preoccupazioni: “Non si è mai inteso che questo deve essere un obbligo per la città di ospitare letteralmente il mondo intero”, ha detto, aggiungendo comunque che si vuole continuare a garantire che “nessuna famiglia finisca per strada: non vogliamo che non succeda niente ai bambini, ma vogliamo anche che il mondo sappia che ci deve essere un limite a questo”.

La misura di Adams è stata subito contestata dai gruppi che proteggono i diritti dei migranti: in questo modo alle persone non rimarrà altra alternativa a dormire per strada. “Misure del genere non sono ben pensate e sono totalmente miopi e avranno delle ripercussioni molto pericolose, aumentando il numero degli homeless per strada”, ha dichiarato Shahana Hanif, presidente della commissione immigrazione del consiglio comunale newyorkese.

Intanto, la città di New York ha notificato oltre 10mila ‘sfratti’ e sta aspettando l’esito del ricorso, presentato lo scorso maggio, per sospendere il “diritto al rifugio”, che New York riconosce dal 1981.

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Cina, addio inglese all’università: nazionalismo allontana il gigante asiatico

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La Xi'an Jiaotong University abolisce il test, plauso sui social: "Con il nostro sviluppo dovrebbero essere gli stranieri a dover imparare il cinese"

Pechino - Afp


Niente più test di inglese. E’ la decisione di una grande e nota università del nordovest della Cina. Una scelta che è piaciuta molto a giudicare dai commenti sui social del gigante asiatico. Sotto ai riflettori, anche della Cnn, è finita la Xi’an Jiaotong University (Xjtu), che ha deciso che gli studenti non dovranno più superare il test di inglese (standardizzato a livello nazionale), né qualsiasi altro esame di inglese, per potersi laureare in questo ateneo di Xi’an.

Accade nella Cina di Xi Jinping, al potere dal 2012 (come segretario generale del Partito comunista cinese e dal 2013 come presidente), che ha spinto sul tasto del nazionalismo. La Cnn ricorda due divieti su tutti per docenti di scuole e università: niente testi occidentali, guai a parlare dei “valori occidentali”.

Nel gigante asiatico dal 2001 è obbligatorio studiare l’inglese nelle scuole primarie e secondarie, ma da due anni le autorità hanno vietato agli istituti della primaria di Shanghai l’organizzazione di esami finali di inglese. La motivazione dichiarata è la volontà di alleggerire il carico di studi per gli alunni.

In Cina il College English Test esiste dal 1987. Nella maggior parte delle università della Repubblica Popolare per anni è stato necessario superarlo per potersi laureare. Ma, evidenzia ancora la Cnn, negli ultimi anni gli atenei hanno iniziato ad attribuire sempre meno importanza all’inglese, spesso sostituendo il College English Test con altri esami. Fino ad arrivare alla scelta della Xjtu.

“L’inglese è importante, ma con lo sviluppo della Cina, l’inglese non è più importante”, ha commentato su Weibo un influencer nazionalista sei milioni di follower, convinto che ora “dovrebbero essere gli stranieri a imparare il cinese”. E ha ottenuto una valanga di ‘like’ un altro commento che plaude alla decisione dell’ateneo di Xi’an. “Spero che altre università facciano lo stesso”, si legge.

Un ‘addio’ all’inglese che contrasta con quanto accade a Taiwan, l’isola di fatto indipendente che Pechino considera una provincia “ribelle” e per la quale vuole la “riunificazione”. Qui l’obiettivo è il bilinguismo entro il 2030.

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Migranti, Ue: 127 milioni di euro a Tunisia per controllo flussi

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Dalla Commissione europea 60 milioni di euro come sostegno al bilancio del Paese e un pacchetto operativo di assistenza per le migrazioni di 67 milioni

Migranti - Afp

Alla Tunisia un pacchetto da 127 milioni di euro da parte dell’Ue, parte dei quali destinati al controllo dei flussi dei migranti. In supporto all’attuazione del memorandum d’intesa con il Paese, infatti, la Commissione Europea “annuncia 60 milioni di euro come sostegno al bilancio della Tunisia e un pacchetto operativo di assistenza per le migrazioni di 67 milioni, che verranno sborsati nei prossimi giorni, contrattati e consegnati rapidamente”. Ad annunciarlo la portavoce della Commissione per l’Allargamento e il Vicinato Ana Pisonero, durante il briefing con la stampa a Bruxelles.

I 60 milioni fanno parte di un sostegno di bilancio precedentemente concordato e non fanno parte dei 150 milioni ‘coperti’ dal memorandum, spiega Pisonero, mentre dei 67 milioni per il sostegno alla gestione delle migrazioni, “42 milioni” fanno parte degli accordi inclusi nel memorandum (non è un documento giuridicamente vincolante, essendo un memorandum d’intesa). L’annuncio di oggi fa seguito alla telefonata di ieri tra il commissario per il Vicinato e l’Allargamento Olivér Várhelyi e il ministro degli Esteri tunisino Nabil Ammar, per discutere dell’attuazione del memorandum d’intesa e in particolare delle azioni prioritarie. Una delegazione di funzionari della Commissione si recherà in Tunisia la prossima settimana per discutere l’attuazione del protocollo d’intesa, in particolare per quanto concerne le azioni “prioritarie”.

L’Ue e la Tunisia, spiega la Commissione, “si impegnano a portare avanti rapidamente l’attuazione del protocollo d’intesa, dando priorità alle azioni nel campo della migrazione, alla cooperazione per reprimere le reti di trafficanti e all’intensificazione dell’assistenza dell’Ue per lo sviluppo delle capacità delle autorità di contrasto tunisine, nonché per il sostegno al rimpatrio volontario e al reinserimento dei migranti nei Paesi di origine, nel pieno rispetto del diritto internazionale”.

La Commissione “sta accelerando la realizzazione dei programmi in corso e delle azioni nell’ambito del nuovo pacchetto di sostegno da 105 milioni di euro sulla migrazione collegato al protocollo d’intesa che aiuterà ad affrontare la situazione urgente a Lampedusa, in linea con il piano in 10 punti per Lampedusa”. Il nuovo pacchetto “prevede il refitting di navi di ricerca e salvataggio, veicoli e altre attrezzature per la Guardia costiera e la Marina tunisine, la protezione dei migranti in Tunisia in collaborazione con l’Unhcr e il rimpatrio e il reinserimento dalla Tunisia nei Paesi di origine, in collaborazione con l’Iom. È inoltre prevista la fornitura di nuove navi, telecamere termiche e altra assistenza operativa, oltre alla formazione”, conclude l’esecutivo Ue.

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Ucraina, Russia preoccupata da attacchi a basi aeree e Flotta russa: l’analisi

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Negli ultimi giorni il porto di Sebastopoli e la base aerea Chkalovsky sono stati nel mirino di Kiev

Soldati della Flotta russa sul Mar Nero - (Fotogramma)


Gli ultimi attacchi dell’Ucraina alla Flotta russa sul Mar Nero, in Crimea, preoccupano Mosca. Negli ultimi giorni il porto di Sebastopoli è stato nel mirino di Kiev, e anche oggi un rai missilistico ha colpito il quartier generale della Flotta. “Il frammento di un missile è caduto vicino al Teatro Lunacharsky”, ha affermato il governatore Mikhail Razvozhaev sul suo canale Telegram, precisando che sul posto sono arrivati ​​tutti i servizi di emergenza e si sta valutando la possibilità di eventuali vittime.

“È molto probabile che la flotta russa del Mar Nero sia stata nuovamente presa di mira pesantemente e che le esplosioni alla base aerea Chkalovsky, vicino a Mosca, costituiscano la preoccupazione più strategica per i leader russi”, ha scritto su X l’intelligence britannica, aggiungendo che “negli ultimi quattro giorni, sia la Russia che l’Ucraina hanno subito attacchi insolitamente intensi dietro le loro linee”. Ma, sottolinea il ministero della Difesa di Londra, è la base aerea a preoccupare maggiormente Mosca, essendo “un luogo sensibile perché ospita aerei militari specializzati e trasporti per i leader russi”.

Inoltre, prosegue il rapporto di intelligence, “sono state segnalate esplosioni nei siti logistici, nelle basi aeree e nei posti di comando russi in Crimea, nella regione di Krasnodar e vicino a Mosca”.

Pochi giorni fa, un attacco ucraino contro un cantiere navale di Sebastopoli effettuato con missili da crociera Storm Shadow ha colpito una nave e un sottomarino russo . Secondo il blogger militare russo Rybar i missili sono stati lanciati da aerei Su-24M sul Mar Nero. Rybar aggiunge che le difese aeree, compreso un Pantsir-S1, hanno abbattuto sette missili, ma ammette che “sfortunatamente, tre missili Storm Shadow hanno raggiunto il loro obiettivo: la nave da sbarco Minsk e il sottomarino Rostov sul Don, che erano nel bacino di carenaggio, hanno subito danni di vario grado”.

Il Rostov sul Don è un sottomarino relativamente moderno di classe Kilo in grado di trasportare missili da crociera Kalibr. Non c’è ancora una conferma ufficiale dell’entità del danno arrecato. “Dopo una lunga pausa, gli attacchi missilistici da crociera sulla Crimea sono ripresi”, dice Rybar. “Con un alto grado di probabilità, i raid continueranno nei prossimi giorni, e non solo a Sebastopoli”.

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Ucraina-Russia, rapporti Kiev-Ue: la previsione di Mosca

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Dopo le recenti tensioni con il governo polacco legato all'embargo imposto da Varsavia sull'import di grano ucraino

Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov - Afp

Mosca prevede che aumenteranno gli attriti tra Kiev e le altre capitali europee dopo le recenti tensioni con il governo polacco legato all’embargo imposto da Varsavia sull’import di grano ucraino. “Vediamo che ci sono alcuni attriti tra Varsavia e Kiev, prevediamo che queste tensioni aumenteranno”, ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, durante un punto stampa. “Notiamo con rammarico che entrambe le capitali sono ora il centro principale della russofobia”, ha osservato.

“Comprendiamo che anche l’attrito tra Kiev e le altre capitali europee aumenterà nel tempo. Ciò è inevitabile – ha aggiunto il portavoce – Nel frattempo continuiamo la nostra operazione militare speciale per adempiere agli obiettivi che noi stessi ci siamo prefissati”.

“La Polonia è consapevole che il vero pericolo è la Russia. Siamo e resteremo alleati contro di essa. Il territorio polacco è hub logistico per la fornitura di armi all’Ucraina, e così sarà anche in futuro. Va considerato che la Polonia è in periodo pre-elettorale, quindi per loro è importante proteggere gli interessi di contadini e produttori agricoli”. Così intervistato da Repubblica Mykhailo Podolyak, consigliere dell’Ufficio presidenziale ucraino, ridimensiona la preoccupazione per l’annuncio di Varsavia riguardo lo stop alla fornitura di armi, affermano che la “questione che va compresa nel suo insieme”.

“Di questi tempi il mio approccio alle dichiarazioni politiche è molto calmo. Sono certo che dopo le elezioni il dialogo con i nostri amici polacchi tornerà sereno e risolveremo sia le questioni commerciali, sia quelle legate alla nostra alleanza e alle forniture”, ha poi aggiunto. Infine, la prospettiva che con un repubblicano alla Casa Bianca il sostegno all’Ucraina potrebbe venire meno: “Investire sull’Ucraina, ripeto, non è un concetto astratto. Loro ci danno le armi. E le armi sono prodotte da industrie americane che creano posti di lavoro. Le armi sono consegnate all’Ucraina, i soldi rimangono negli Usa. È quindi un beneficio per entrambe le parti. Investire sull’Ucraina significa inoltre puntare sulla distruzione dell’esercito russo, da cui fino a ieri il mondo era terrorizzato”.

E per quanto riguarda le eventuali pressioni di Joe Biden affinché Volodymyr Zelensky avvii negoziati di pace: “Non è questione di fare o non fare pressioni, il punto è che in Russia non c’è una élite capace di negoziare. Non possiamo accordarci su niente. La Russia non tornerà nemmeno allo stato in cui si trovava prima della guerra, quando almeno alcune regole le rispettava. Non ha proprio senso negoziare con loro. Farlo, darebbe a Putin l’impressione di aver vinto e una spinta per ricattare il mondo intero”.

Cosa dice la Polonia

”La disputa sulla fornitura di grano dall’Ucraina al mercato polacco” non rovinerà le relazioni diplomatiche tra Varsavia e Kiev, ”non avrà un impatto significativo sul rapporto polacco-ucraino”. Il presidente polacco Andrzej Duda dice che ”non ha dubbi su questo” e suggerisce che ”dobbiamo risolvere la questione tra di noi”.

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Camilla e Brigitte Macron, sfida a ping pong nel segno dell’amicizia

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La partita finita in parità in un centro sportivo vicino Parigi

“Non filmate!”, dice sorridendo al pubblico Brigitte Macron, mentre sta per giocare a ping pong con la regina Camilla. Nello scambio al tavolo azzurro, la consorte di Carlo e la premier dame francese non vanno oltre i tre palleggi, ma hanno comunque l’aria di divertirsi, così come la piccola tifoseria – smartphone in mano ad immortalare l’evento – che hanno attorno, nel centro sportivo vicino Parigi dove ieri si sono recate insieme, nella seconda giornata della visita ufficiale in Francia insieme a re Carlo.

Dopo aver giocato a ping pong con la campionessa della nazionale francese Prithika Pavade, Her Majesty ha dunque voluto ‘sfidare’ Brigitte Macron in una partita finita in parità, a dimostrazione di uno spirito tutt’altro che competitivo per entrambe, ma che piuttosto sembrerebbe aver cementato una solida amicizia.

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Nagorno Karabakh, migliaia di rifugiati dopo cessate il fuoco: il punto

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I numeri dopo la lo stop ai combattimenti nella regione contesa del Caucaso

Poster delle città del Nagorno-Karabakh a Baku - Afp

L’Armenia è pronta ad accogliere fino a 40mila famiglie di rifugiati dal Nagorno-Karabakh dopo la resa all’Azerbaigian che ha portato a un cessate il fuoco nella regione contesa del Caucaso dopo 24 ore di intensi combattimenti. Lo ha annunciato il primo ministro, Nikol Pashinyan, sottolineando che il suo Paese sta preparando una sistemazione per decine di migliaia di persone, anche se non vede “nessuna minaccia diretta” per gli armeni del Karabakh.

In un discorso in diretta tv, Pashinyan ha affermato che ai circa 120mila armeni della regione dovrebbe essere consentito di rimanere “nelle loro case in condizioni dignitose e sicure”, confermando tuttavia che dallo scoppio dei combattimenti ci si sta preparando per un possibile afflusso di rifugiati.

Il difensore civico per i diritti umani del Karabakh, Gegham Stepanyan, ha affermato sui social media che le strade del capoluogo Khankendi, conosciuta come Stepanakert dagli armeni, sono “piene di sfollati, affamati, spaventati e che vivono nell’incertezza”. Mercoledì più di 10mila persone si erano recate all’aeroporto di Khankendi – che è adiacente a una base del contingente di peacekeeping russo – con la speranza di essere evacuate, ha aggiunto.

Mentre le autorità della regione hanno denunciato il rischio di pulizia etnica, l’Azerbaigian ha assicurato che sta cercando una “reintegrazione pacifica” del Karabakh. Secondo i termini della tregua mediata dalla Russia, le forze locali del Karabakh, ritenute “illegali” dall’Azerbaigian, hanno garantito il loro scioglimento e disarmo.

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