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Terremoto Turchia, epicentro Gaziantep: la città trasformata da guerra in Siria

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Il conflitto in Siria ha cambiato il volto di Gaziantep, la città della Turchia meridionale dove è stato registrato l’epicentro del terremoto devastante che ha provocato migliaia di vittime. Un tempo chiamata Antep, la città è situata a 90 chilometri circa dal confine con la Siria. E proprio dalla Siria, a causa della guerra, in questi anni si stima siano arrivati 500mila rifugiati. Rinomata per la sua cucina – molti ritengono che il ‘baklava’ migliore del Paese si prepari qui – Gaziantep è stata storicamente un crocevia di storie ed etnie. Qui da secoli coesistono turchi, curdi e arabi.  

La sua città ‘sorella’ siriana, da cui dista 120 chilometri, è Aleppo. Entrambe facevano parte della stessa regione sotto l’Impero Ottomano, ma la guerra in qualche modo le ha riunite, anche grazie alla politica della municipalità di Gaziantep incentrata sull’integrazione dei rifugiati nelle aree urbane piuttosto che nei campi profughi. 

Già prima dello scoppio della guerra siriana nel 2011 e della fuga verso la Turchia di quasi 4 milioni di persone, Gaziantep era una delle aree urbane con la più rapida crescita al mondo, essendo passata da una popolazione di 120mila abitanti negli anni ’70 a oltre un milione. Da allora, è diventata un importante centro per la distribuzione degli aiuti umanitari e una calamita per i profughi da Aleppo che sono riusciti a trovare un lavoro e a costruirsi una nuova vita. 

Non tutti gli abitanti, tuttavia, hanno accolto con favore l’ondata di rifugiati arrivata dalla Siria, e questo sentimento si è accentuato ultimamente con la crisi economica che ha colpito la Turchia, dove l’inflazione è alle stelle e c’è un’emergenza abitativa. Il presidente Recep Tayyip Erdogan è stato qui in visita lo scorso il 5 novembre, in vista delle elezioni, e nel suo comizio ha promesso maggiori investimenti. Ma alcuni residenti non hanno risparmiato critiche al governo per aver, dal loro punto di vista, lasciato troppa libertà di manovra ai siriani, che qui hanno messo radici. 

Il centro storico di Gaziantep, con le sue stradine piene di laboratori per la lavorazione del rame e fabbri, che sorge intorno al castello patrimonio dell’Umanità secondo l’Unesco – purtroppo gravemente danneggiato dal sisma – a molti ricorda l’Aleppo pre-guerra. I siriani hanno poi costruito scuole, negozi e ristoranti. Il risultato sono strade in cui si incontrano insegne dei negozi in arabo accanto a quelle in turco e dove i fast food siriani che preparano lo shawerma condividono lo stesso spazio con chi vende kebab. In alcuni quartieri, i residenti sono per il 90% arabi. 

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Della Pergola: ”Compromesso possibile solo su Netanyahu e non su giudici”

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(Adnkronos) – Compromesso difficile, se non impossibile quello sulla riforma della giustizia proposta e ora sospesa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Perché ”i giudici della Corte suprema o sono controllati dal governo o non lo sono” e ”se la Corte suprema diventa una filiale del governo, finisce la separazione dei poteri, la democrazia. Questa è una linea invalicabile”. L’unico vero ”grande compromesso” al quale si potrebbe arrivare riguarda la figura stessa di Netantyahu, ”diventato fonte di polarizzazione del sistema politico israeliano, la sua presenza crea più danno che beneficio al Paese” dove si muove ”con carattere autoritario, come se Israele fosse una Repubblica presidenziale”. Questo grande compromesso di cui parla il demografo italiano naturalizzato israeliano Sergio Della Pergola in un’intervista all’Adnkronos è ”la sospensione del processo a Netanyahu in cambio del suo ritiro dalla scena politica”.  

Perché ”ci vorrebbe un taglio radicale”, ma senza un tornaconto ”è impossibile che si dimetta” per via del suo ”processo per corruzione, truffa e abuso di potere”. Se il dialogo promosso dal presidente Isaac Herzog ci sarà, dunque, ”meglio una lottizzazione” della Corte suprema che il suo controllo esclusivo da parte della maggioranza, afferma il professore Emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme. 

Un’ipotesi quest’ultima che la popolazione israeliana non ha accettato, dimostrando ”una forte consapevolezza sociale e politica per salvare la democrazia”. Una ”protesta popolare che non è stato più possibile ignorare, altro che piccole minoranze di estremisti brizzolati come li ha chiamati Netanyhau”, uno ”sciopero generale mai successo prima con l’aeroporto chiuso, le università chiuse, le aziende anche”. Proprio ”di fronte a questo ci si è resi conto che il Paese andava allo sfascio e all’ultimissimo momento Netanyahu ha frenato” perché ”significava anteporre i vantaggi personali a quelli di Israele”. 

Citando il ”vuoto intorno a sé creato da Netanyahu”, con tutti i suoi ”delfini che si sono allontanati” e il fatto che sia ”accerchiato da persone mediocrissime perché da lui dipende loro sopravvivenza politica”, Della Pergola afferma che pur ”carismatico e divinizzato” anche ”all’interno del suo partito (di Netanyahu, ndr) una parte ha cominciato a capire che la situazione andava male”. Della Pergola cita in particolare ”un sondaggio politico di ieri sera che è un interessante barometro” dal quale emergeva ”un vero collasso del partito di Netanyahu e un’enorme avanzata dei partiti di centro che fanno parte dell’opposizione. I politici agiscono cinicamente e non certo con l’intenzione di andare verso il collasso elettorale” che ”in caso di eventuali elezioni anticipate avrebbero fatto perdere il potere ottenuto con tanta fatica”. 

La ”causa scatenante”, il ”colossale errore strategico” commesso da Netanyahu è stato il ”licenziamento del ministro difesa” mentre era ”accecato dalla sua stessa propaganda”. Yoav Gallant è del Likud, molto vicino a Netanyahy, ex generale candidato a diventare capo di Stato maggiore che però ha espresso ”forte preoccupazione per la stabilità dell’apparato militare” dopo che i riservisti han detto di non volersi più presentare alle esercitazioni in protesta riguardo alla riforma della giustizia. 

Il suo licenziamento ha dimostrato ”che non siamo sull’orlo di una dittatura, siamo già dentro la dittatura” prosegue Della Pergola, aggiungendo che le ”centinaia di migliaia di persone che si sono riversate nelle piazza e mezzanotte” dopo l’annuncio della rimozione di Gallant hanno fatto sì che ”Netanyahu si è reso conto in ritardo dell’enorme errore che aveva fatto”. E ora, ”ora ci sono le feste, la Pasqua, la Giornata del ricordo della Shoah, la Giornata dell’indipendenza di Israele. Sono momenti di grande unione e fratellanza. Sarebbe stato folle arrivarci con il Paese spaccato in due” afferma Della Pergola. ”Credo che Netanyahu si illude che alla fine del periodo di vacanza parlamentare possa riproporre allo stato attuale il processo” di riforma della giustizia. Ma ”bisogna vedere se si riesce a intavolare una vera trattativa”, ma ”è possibile ricucire solo un parte, c’è un punto che non può essere oggetto di compromesso”, ovvero il controllo dei giudici da parte della maggioranza di governo. 

Il rischio è ”una nuova situazione di stallo e poi tensioni”, afferma Della Pergola sottolineando come sia ”molto grave la situazione della sicurezza”, con la ”minaccia dell’Iran a un passo dalla bomba atomica” o quelle provenienti da ”Hezbollah e Hamas”. Rassicurando sul fatto che ”oggi il cielo è azzurro, siamo preoccupati del caro vita e degli ingorghi stradali”, Della Pergola allo stesso tempo parla di ”polveriera, si può arrivare a un conflitto in qualsiasi momento. Israele ha militari molto forti e ben organizzati, ma è impossibile uscire senza danni” e allo stesso tempo ”nessuno può controllare gli estremismi e la follia, il mondo arabo è imprevedibile, senza logica”. Sta di fatto che, proprio Netanyahu e la sua contestata riforma della giustizia, abbiano ”deteriorato in modo catastrofico i rapporti internazionali”. In particolare, Della Pergola cita la ”rinviata visita negli Emirati”, ma anche ”i rapporti con gli Stati Uniti al limite della massima tensione, così come anche con l’Europea” e in generale un ”forte indebolimento rapporti internazionali di Israele”. Che si traduce in una economia indebolita, minori investimenti, minore turismo, calo della capacità israeliana di restituire debito. Se si abbassassero ancora si avrebbe un aumento della catena dei licenziamenti e della disoccupazione. Tutti fattori scatenanti instabilità”. Ancora. 

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Russia, Masha disegna contro la guerra: il padre condannato a due anni

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(Adnkronos) – Il padre di Masha, la ragazzina di 12 anni internata ai primi del mese in un centro per la riabilitazione dei minori per un disegno contro la guerra in Ucraina, un mese dopo l’inizio dell’intervento militare russo, è stato condannato a due anni di carcere per vilipendio reiterato delle forze militari russe in post sui suoi social, ha reso noto l’avvocato Vladimir Bilienko, citato dall’organizzazione Ovd-Info impegnata in Russia per sostenere le vittime di persecuzioni politiche. La sentenza è stata letta nel tribunale distrettuale di Efremov, nella regione di Tula, in assenza dell’imputato, Aleksei Moskalev, che ha fra l’altro sempre negato di aver scritto i post incriminati. Il processo è durato un giorno solo. Masha Moskaleva sarà affidata alle cure dei servizi sociali, ha stabilito il tribunale.  

Il disegno era stato fatto da Masha durante una lezione d’arte a scuola, in cui era stato chiesto agli alunni di esprimersi in sostegno delle forze militare. La preside aveva immediatamente segnalato l’opera della ragazzina alle autorità. Masha è una delle otto minorenni coinvolte in procedimenti giudiziari in Russia dall’inizio della guerra. Masha viveva da sola con il padre a Efremov.  

Il padre era stato messo agli arresti domiciliari dopo il caso che ha visto coinvolta la figlia, Lo scorso gennaio era stato aperto un fascicolo per limitare i diritti genitoriali del padre, così come anche quelli della madre che ha lasciato la famiglia quando Masha aveva tre anni e vive in un’altra città. La famiglia era stata inserita lo scorso anno nell’elenco dei nuclei in “situazioni socialmente difficili”.  

 

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Migranti, Campisi (Univ. La Manouba): “No allarmismo su democrazia malmenata’

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(Adnkronos) – “E’ vero che la Tunisia sta passando un momento economicamente difficile, ma a livello politico non vedo tutto questo allarmismo che invece viene fatto notare in Italia o in Europa sui diritti, su questa democrazia che viene malmenata. Non vedo questo, vedo un percorso molto difficile”. Parla così con l’Adnkronos Alfonso Campisi, italo-tunisino, ordinario di filologia romanza all’università tunisina di La Manouba, che vive in Tunisia da “più di 25 anni” e che parla di “due pesi e due misure” se gli si chiede dello sblocco del finanziamento da 1,9 miliardi da parte dell’Fmi, con il pensiero rivolto al sostegno assicurato “subito” all’Ucraina dalla comunità internazionale. 

“Sono soldi che servirebbero alla Tunisia perché sta mettendo in atto moltissime riforme”, sostiene Campisi, convinto che “però queste riforme abbiano bisogno di essere aiutate” e che “bisogna agire molto velocemente, che bisogna per il momento finanziare e farlo subito”. Perché, prosegue dicendosi “d’accordissimo” con le ultime dichiarazioni del ministro degli Esteri Antonio Tajani, “se l’Italia o l’Europa non aiutano la Tunisia ci ritroveremo nuovamente con il ‘decennio nero'”, gli anni seguiti alla rivoluzione che pose fine all’era Ben Ali nel 2011. 

“Credo che l’Europa abbia tutto l’interesse ad aiutare la Tunisia”, rimarca. “E’ tardi ma – insiste – non è mai troppo tardi per aiuti che aiuteranno la Tunisia e l’Europa e soprattutto l’Italia rispetto al problema migrazioni”. 

Proprio l’Italia, afferma, “può e deve avere un ruolo fondamentale” sia perché è “legata da millenni” alla Tunisia, “sia a livello economico che culturale”, sia perché “è la prima terra subito dopo attraversando il Mediterraneo” e “dovrebbe recuperare quello che ha perso in questi ultimi anni, ovvero un ruolo fondamentale nel Mediterraneo e nei rapporti con la Tunisia e l’Africa”. 

Sul “percorso molto difficile”, Campisi parla di un cammino che “doveva essere fatto perché per dieci anni dopo questa pseudo Rivoluzione dei Gelsomini la Tunisia non ha di certo conosciuto questo grande sviluppo democratico”. “Sono stati dieci anni difficili, dove gli islamisti hanno governato e non possiamo dire che erano dieci anni di democrazia – afferma – Quel che vuole farci credere adesso l’Europa è che noi abbiamo perso questa grande democrazia e stiamo nuovamente ritornado verso la dittatura. Non è per niente vero, non mi sembra il caso”. 

E, secondo Campisi, “il grande problema tunisino è avere una Libia instabile”. Un Paese, conclude, che “non è diventato da solo instabile” e “molti sbarchi provengono dalla Tunisia, ma la maggior parte arrivano dalla Libia, soprattutto i cittadini subsahariani”. 

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Israele, organizzatore protesta a Roma: “stop Netanyahu a riforma è un bluff”

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(Adnkronos) – “Un bluff”. Così Itamar Danieli, del gruppo indipendente ‘Liberi cittadini israeliani’, che in occasione della recente visita a Roma di Benjamin Netanyahu organizzò una manifestazione di protesta a piazza Santi Apostoli, definisce la decisione del capo del governo israeliano di congelare per il momento la contestata riforma della giustizia. 

“Sembra che sia un bluff. Come ha detto il capo dell’opposizione Yair Lapid”, annunciando la disponibilità a dialogare con il governo sulla riforma, si tratta di una “prova” e di vedere “cosa succederà” dal momento che “sembra non esista nessuno in Israele che pensi che questo premier sia serio”, spiega all’Adnkronos Danieli, sottolineando che a suo parere Lapid ha accettato di parlare con Netanyahu “solo per motivi politici”.  

L’organizzatore della protesta anti-Netanyahu a Roma ritiene che, a seguito dello stop alla riforma, “ci sarà una pausa con le manifestazioni”, ma una volta scoperto il “bluff” del premier, “tra due-tre settimane al massimo riprenderanno”. 

 

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Migranti, l’attivista: “Tutti sognano fuga dalla Tunisia, no assegni in bianco a Saied”

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(Adnkronos) – “Adesso lasciare la Tunisia è il sogno di tutti i tunisini, non solo delle fasce più disagiate della popolazione. E quindi il rischio di un aumento esponenziale degli arrivi in Italia è alto anche per l’incapacità del presidente Kais Saied di trovare soluzioni” in un Paese che attraversa una “crisi molto grave e molto profonda”. Parla così con l’Adnkronos Imen ben Mohamed, tunisina, cresciuta in Italia, eletta all’Assemblea nazionale di Tunisi nel 2011 e 2014. Era stata eletta con Ennahda e racconta di aver poi lasciato il partito, che accusa Saied di un “golpe”, e di essere oggi impegnata come attivista per i diritti umani, di collaborare da Ginevra con organizzazioni attive in Tunisia. 

Imen ben Mohamed parla degli sbarchi in Italia e della “società tunisina, del crollo economico e finanziario del Paese” che nel 2010 fu la culla delle cosiddette Primavere Arabe con la sua Rivoluzione dei Gelsomini. Parla dell’ “incapacità del governo di gestire la situazione, dell’incapacità del presidente di riconoscere la crisi economica”. Per Saied, dice, “la crisi economica non esiste ed è solo un complotto contro lo Stato, una questione di complottismo dell’opposizione e di campagna mediatica dell’opposizione”.  

L’ex deputata denuncia la “crisi molto grave” della Tunisia. “I tunisini non trovano medicine, farina, latte, i prezzi sono alle stelle”, afferma, precisando di “capire la paura” dell’Italia che “forse non vuole essere lasciata da sola e fa un discorso allarmanente all’interno dell’Ue per manifestare la sua preoccupazione profonda”. 

“Quello che l’Italia e l’Europa dovrebbero capire è che il presidente tunisino Kais Saied non è l’uomo che risolverà il problema dei migranti e che non è con la collaborazione con Saied che risolveranno la questione”, prosegue, convinta che saranno “soldi buttati” se arriveranno a Tunisi finanziamenti o aiuti – dall’Fmi o dall’Ue – senza essere condizionati a “riforme economiche ma anche democratiche, politiche, relative ai diritti umani” perché “il vero problema della Tunisia è una crisi molto profonda con un ritorno a un regime autoritario peggiore anche di quello di Ben Ali”.  

Imen ben Mohamed denuncia “un ritorno alla dittatura” nel suo Paese d’origine e teme, “con Saied, una crisi ancor più grave”, accusando il presidente di “incapacità”, di essere alla guida di un “regime populista, autoritario e razzista”. “Non bisogna dare un assegno in bianco a un dittatore – incalza – Servono condizioni, riforme e l’assenza di riforme significherebbe buttare i soldi”. 

“Saied, che è contrario alle riforme economiche, dovrebbe cambiare la sua politica e l’Europa – rimarca – non può sostenere un dittatore”. “Spero non siano solo parole quelle su democrazia e diritti umani”, insiste. Allo stesso tempo, dice, l’eventuale sblocco del finanziamento da 1,9 miliardi di dollari da parte dell’Fmi, “qualora la Tunisia faccia la sua parte”, non sarebbe comunque “la soluzione per la Tunisia e quei soldi servirebbero solo a ritardare l’esplosione della crisi”. 

Se le si chiede delle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani che domenica scorsa ha sottolineato come non si possa “abbandonare la Tunisia, perché se cade questo governo rischiamo di avere i Fratelli musulmani che sono fonte di grande instabilità” e perché “non ci possiamo permettere l’islamizzazione del Mediterraneo”, Imen ben Mohamed risponde parlando di “sviamento dell’opinione pubblica europea sul vero problema della Tunisia”. “E’ Saied l’ultraconservatore che ha introdotto la sharia (la legge islamica) nella Costituzione”, afferma. 

Fa riferimento al “decennio che ha passato la Tunisia”, quello successivo alla Rivoluzione dei Gelsomini, quello della transizione democratica. “Non so cosa intenda con Fratelli Musulmani o islamizzazione – dice – Non capisco questa sua dichiarazione. Il problema della Tunisia è quello di un regime autoritario, xenofobo, razzista”. Il pensiero dell’ex deputata va alle “dichiarazioni di Saied contro i migranti subsahariani, contro le opposizioni politiche”, all’opposizione “che è tutta democratica e in parte anche laica” e a chi “dell’opposizione di destra e sinistra finisce in carcare con l’accusa di complotto contro lo stato per contatti con diplomatici stranieri”. 

E quando si chiede a Imen ben Mohamed quale sia secondo lei la ‘ricetta’ per la Tunisia, insiste sulla necessità di un “programma di assistenza macrofinanziaria, parla di salvataggio”, ma “non sotto la dirigenza di una persona che non crede nelle riforme, non sotto Kais Saied”. Poi la conclusione: “Se dovesse crollare la Tunisia, seguirebbe il crollo di tutta la regione”. 

 

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Come sta cambiando la demografia in Israele?

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(Adnkronos) – Nel 2023, Israele è l’unica democrazia occidentale con un tasso di fertilità relativamente alto. Il numero di nascite ebraiche-israeliane nel 2022 (137.566) è stato superiore del 71% rispetto al 1995 (80.400), mentre il numero di nascite arabe-israeliane nel 2022 (43.417) è stato superiore del 19% rispetto al 1995 (36.500), come riportato dal Bollettino mensile dell’Ufficio centrale di statistica israeliano (ICBS) del febbraio 2023. 

Il tasso di fertilità (numero di nascite per donna) delle donne ebree laiche in Israele ha una tendenza al rialzo negli ultimi 25 anni. In generale, il tasso di fertilità di Israele è il più alto dell’OCSE : con un valore di 2.9 figli, è quasi il doppio del tasso del Canada di 1.5 figli. I tassi di fertilità di Israele sono più strettamente allineati con i suoi vicini mediorientali – Giordania, Siria ed Egitto – ma è un valore anomalo tra i paesi sviluppati con economie avanzate, popolazioni istruite e alta partecipazione femminile alla forza lavoro. Gli ultra-ortodossi in Israele hanno un tasso di fertilità estremamente alto, oltre 6.6 figli mentre il tasso di fertilità arabo è sceso a tre, da un valore di 9.3 figli, incredibilmente alto nel 1960. 

In Israele, le donne ebraiche israeliane, che sono seconde solo all’Islanda nella partecipazione al lavoro, vedono una correlazione diretta positiva tra l’aumento del tasso di fertilità, da un lato, e un aumento dell’urbanizzazione, dell’istruzione, del reddito, dell’integrazione nel mercato del lavoro e dell’età del matrimonio, dall’altro. 

La tendenza demografica ebraica positiva è ulteriormente rafforzata dall’immigrazione, che consiste nella aliyah (immigrazione ebraica dopo la diaspora) e dalla contrazione dell’emigrazione: da 14.200 emigrati nel 1990 a 10.800 nel 2020 (mentre la popolazione è raddoppiata), che è superiore alla media di 7.000 emigrazione netta annua negli ultimi anni. 

Il premier Bennett nel 2021 aveva sviluppato un piano per riportare 500.000 ebrei dagli Stati Uniti, dal Sud America e dalla Francia nel prossimo decennio per stabilirsi nel paese e sostenere così lo sviluppo demografico ed economico di Israele. 

Tutto ciò si riflette sul numero degli abitanti che nel 2022 ha raggiunto un nuovo record. 

Sono 9.7 milioni i residenti di Israele nel 2022, con una popolazione in crescita del 2.2% su base annua. La crescita è in parte dovuta all’invasione russa in Ucraina: sono arrivati circa 73.000 nuovi immigrati, il 58.1% dei quali dalla Russia e il 21.3% dall’Ucraina. Nel 2021, il numero di immigrati era di circa un terzo: 25.000. 

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Russia, l’ascesa di Prigozhin dalla senape fatta in casa alla cheesecake del milionario

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(Adnkronos) – Dagli hot dog con la senape fatta in casa, nel cucinino della casa della madre, al primo ristorante con le spogliarelliste per attirare clienti e uno speciale proiettore luminoso usato personalmente per controllare ogni mattina, dopo le pulizie del locale, che non fossero rimaste polvere o briciole sotto i tavoli, fino alle ostriche servite al Cremlino o la ‘cheesecake del milionario’ offerta in uno dei suoi ristoranti. Il salto di specie di Evgheny Prigozhin avviene nel 2014, grazie al serbatoio naturale del rancio per i militari. Quando l’ex detenuto imprenditore del cibo, estende i suoi interessi economici ai mercenari che mette a disposizione del Cremlino e delle sue avventure nel mondo, offrendo alla sempre più aggressiva postura di politica estera della Russia, un braccio armato flessibile e estraneo ai vincoli del diritto e delle regole.  

Mentre si discute sul ruolo della sua Wagner nell’assedio di Bakhmut o sul coordinamento, o meno, dei mercenari con i militari regolari, è forse utile ricordare l’origine dell’impero costruito dal ‘cuoco di Putin’ che, una volta uscito di prigione, all’inizio degli anni Novanta, terminata una condanna, la seconda, dopo una prima con la condizionale, a 13 anni di carcere per furto con aggressione, vende hot dog per le strade di Leningrado, preparando con le sue mani la salsa con cui insaporiva i panini, arrivando a incassare l’equivalente di mille dollari al mese, al netto dei cento euro per chiosco che versava alla criminalità organizzata per protezione. Una versione, quella illustrata da Prigozhin nel 2011 in una intervista a Gorod 812, alternativa, per la fondazione Open Democracy di Mikhail Khodorkovsky, a quella del denaro accumulato nel giro delle scommesse, laddove Vladimir Putin aveva la delega, come vice sindaco di San Pietroburgo, del gioco d’azzardo e, dal 1993, alla concessione delle licenze per le attività del settore.  

Il denaro viene comunque re investìto in una catena di alimentari, la “Contrast”. Il business nella neo capitalista Russia fruttò tanto da portare lo spregiudicato ma meticoloso Prigozhin ad aprire prima una enoteca e poi, sull’isola di Vasilievsky, un ristorante, ‘Staraya Stamozhnya’ (Casa delle tradizioni, forse non lo sapeva allora ma colse il seme dell’ideologia putiniano) che vanta nel suo menu la cheeskake del milionario, Coscia d’anatra in umido con crauti, Capesante con mousse di sedano e salsa cremosa. Scelse come socio Tony Gear, ex amministratore del Savoy di Londra e in quelli anni responsabile della gestione dei primi alberghi di lusso della città.  

All’inizio nel suo locale si esibivano spogliarelliste per attirare clienti, ma poi, data l’alta qualità del cibo che vi era servito, non fu più necessaria la loro presenza. Fra i clienti fissi l’ex sindaco Anatoly Sobchak e il suo vice, Putin o il violoncellista Mstislav Rostropovich che assoldò Prigozhin per il catering, quando ricevette la Regina di Spagna nella sua casa di San Pietroburgo nel 2001 (il musicista invitò il cuoco al concerto per il suo compleanno al concerto di gala del Barbican l’anno successivo).  

Il neo Presidente Putin portò alla Casa delle tradizioni l’allora Premier giapponese Yoshiro Mori, nell’aprile del 2000. Il Presidente russo, aveva spiegato in seguito il cuoco, apprezzava il fatto che il patron non avesse problemi a servire personalmente il tavolo. Per questo, organizza da lui il suo compleanno nel 2003. Nel frattempo, Prigozhin aveva aperto un secondo ristorante su una barca, la “Nuova isola”, dove Putin portò nel luglio del 2001 l’allora Presidente francese Jacque Chirac, a gustare Filetto con tartufi neri, Caviale su ghiaccio e Pan di zenzero servito con le prugne. Divenne questa una consuetudine: il Presidente ama portare a San Pietroburgo, quindi a cena da Prigozhin, i dignitari stranieri in visita, come fece con George W. Bush, o, con il suo catering, all’Ermitage (con l’allora principe Carlo) o al Cremlino, per Dima Rousseff o Narendra Modi. Prigozhin diventa il ‘cuoco di Putin’.  

Nel 2009, apre il primo e unico ristorante privato alla Duma di Stato. E fornisce il catering per il Forum economico di San Pietroburgo, oltre a organizzare le cene di gala per l’inaugurazione i Dmitry Medvedev Presidente. 

Grazie ai suoi contatti ad alto livello, e a una società fondata negli anni Novanta, la Concord, Prigozhin inizia a ottenere lucrosi contratti per fornire il catering a enti pubblici. Nel 2009, fornisce le mense di San Pietroburgo prive di locali per preparare il cibo e per questo apre un impianto di Yanino, alle porte della città, che sarà visitato da Putin, accompagnato da Prigozhin in camice bianco. Nel 2012 acquisisce il contratto per i pasti per le mense di Mosca per 10,5 miliardi di rubli (220 milioni di euro) e nel 2015 spunta anche un altro lucroso contratto con la Difesa, da 9 miliardi di rubli.  

Gli slogan della società ricordano il proiettore luminoso dei primi tempi: “ognuno dei nostri banchetti è come un’opera d’arte”, “Diamo grande attenzione a ogni dettaglio!”, “Fatto su misura, chic e solo per te”,”non seguiamo le mode, le creiamo”. Ma non convincono i genitori dei bambini che in una scuola di Mosca si sono ammalati dopo aver pranzato alla mensa servita dalla società, che quindi hanno fatto causa.  

Un’altra ciambella senza buco del tycoon della ristorazione è quella della catena di fast food, la Blindonalts, basata su bliny in tutte le salse, ripieni di marmellate, carne o patate. Ma l’ultimo dei locali chiuse nel 2011.  

Nell’estate del 2014, in piena operazione del Donbass, Prigozhin chiede al ministero della Difesa terreni per l’addestramento di “volontari” privi di legami con l’apparato ufficiale ma da poter usare nelle guerra di Mosca. “L’ordine viene da Papa”, aveva affermato allora, come ricordano i suoi interlocutori, usando uno dei soprannomi usati per parlare del Presidente, come ha reso noto il Guardian. Gli vengono concessi terreni a Molkino, nel sud del Paese, dove venne eretta una struttura che si presentava come una colonia per bambini.  

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Marte, un algoritmo cercherà tracce di vita

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(Adnkronos) – Un algoritmo a caccia di tracce di vita su Marte. In un articolo recentemente comparso sulle colonne della prestigiosa rivista di settore “Nature Astronomy”, un gruppo di ricercatori del Seti Institute di Mountain View, negli Stati Uniti, afferma di aver individuato un nuovo metodo per la ricerca di tracce di vita su Marte. Si tratta del combinato disposto di alcune delle scoperte tecnologiche più promettenti degli ultimi anni. Tra queste, l’intelligenza artificiale, i metodi di apprendimento automatico, i droni e le mappe topografiche tridimensionali. 

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Pena di morte negli Usa, D’Elia (Nessuno tocchi Caino): “Con plotone d’esecuzione Idaho torna indietro”

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(Adnkronos) – Uno sviluppo che “afferma l’anacronismo della pena di morte negli Stati Uniti”. Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, commenta così con l’Adnkronos la scelta del governatore repubblicano dell’Idaho, Brad Little, che ha firmato la nuova legge che consente il ricorso a plotoni d’esecuzione per le condanne a morte, qualora non sia praticabile l’iniezione letale. “Nella storia della pena di morte negli Stati Uniti la Corte Suprema si è sempre mossa sulla linea contraria ai metodi di esecuzione ‘crudeli e inusuali’ – evidenzia – L’Idaho torna indietro agli albori della pena di morte”. 

“Non sono esclusi ricorsi alla Corte Suprema”, rimarca. E bisogna vedere cosa accadrà nei fatti. L’auspicio è che “questo metodo non venga utilizzato al di là delle pronunce”. Forse una “mossa” in un Paese in cui “Donald Trump vuole addirittura reintrodurre la pena di morte per il traffico di droga”. E “nella storia degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni l’evoluzione che si è affermata è attraverso moratorie, commutazioni”, sottolinea, ricordando la decisione del governatore democratico della California, Gavin Newsom, che ha annunciato la trasformazione in un centro di “riabilitazione” della prigione di San Quintino, dove si trova il maggior numero di detenuti nel braccio della morte negli Usa. 

E, rimarca D’Elia, “non mancano ogni anno almeno una moratoria o chiusure di bracci della morte o sospensioni anche per motivi tecnici perché non si trovano farmaci” per l’iniezione letale. 

Quindi, conclude il segretario di Nessuno tocchi Caino, “il problema della pena di morte non sono gli Stati Uniti, anche se per noi è inaccettabile” da parte di una democrazia, perché “la strage di condannati” la fanno Paesi come “Iran, Cina, Arabia Saudita, i Paesi autoritari, illiberali che praticano la pena di morte”. E “se vogliamo risolvere il problema, lo dobbiamo risolvere cambiando i regimi politici”. 

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Pena di morte, Noury (Amnesty): “Usa, con il plotone di esecuzione metodi ancora più brutali’

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(Adnkronos) – “Un passo indietro. L’Idaho è il quinto stato americano che ripristina il plotone di esecuzione. Di fronte alla penuria dei medicinali per l’iniziezione letale, sarebbe stato meglio prendere questo spunto per abolire la pena di morte, non per passare a metodi se possibile ancora più brutali”. Così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commenta con l’Adnkronos la firma da parte del governatore dell’Idaho, Brad Little, della House Bill 186, il provvedimento che autorizza i funzionari delle carceri dello stato a ricorrere al plotone di esecuzione quando non è possibile praticare l’iniezione letale. Anche Mississippi, Oklahoma, Utah e South Carolina consentono il ricorso al metodo come alternativa all’iniezione letale.  

“Le iniziative che abbiamo in programma sono quelle che la nostra associazione porta avanti rispetto alla pena di morte”, spiega ancora il portavoce di Amnesty International Italia, sottolineando che “dopo la campagna per evitare l’introduzione dell’alternativa del plotone di esecuzione, ora che è in vigore ci batteremo rispetto ad ogni possibilità che venga attuato questo nuovo metodo”. Ma il metodo “di per sé non è l’aspetto più rilevante”, osserva. “Il problema è che nell’Idaho è prevista l’esecuzione di un malato terminale di cancro, Gerald Pizzuto. “E il rischio è che con l’esecuzione di un malato terminale di cancro si inauguri la stagione delle fucilazioni”.  

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