Sostenibilità
Diseguaglianza di genere in ambito sanitario, Oms: “Cresce...
Diseguaglianza di genere in ambito sanitario, Oms: “Cresce crisi globale”
L’allarme Oms sul gender gap nel sistema sanitario preoccupa per la mancanza di retribuzioni adeguate e per leggi che non tutelano donne lavoratrici nell’assistenza
La disparità di genere nel mondo sanitario e assistenziale pesa su sistemi di tutti i Paesi. A fotografare lo scenario è l’ultimo report pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal titolo “Fair Share For Health and Care: Gender and the Undervalutation of Healt and Care Work”.
Le disuguaglianze di genere, sottolinea il rapporto, derivano da investimenti insufficienti nei sistemi sanitari. L’assenza di un supporto economico incisivo si traduce in mancanza di retribuzione adeguata, assenza o ridotta partecipazione delle donne ai mercati lavorativi retribuiti di settore, difficoltà e rallentamento dell’emancipazione economica e ostacoli all’uguaglianza di genere.
A livello globale, nel 2022 la partecipazione delle donne alla forza lavoro è stata del 47%, rispetto al 72% degli uomini; il divario di 25 punti percentuali significa che per ogni uomo economicamente inattivo ci sono due donne nella stessa condizione.
Donne e sanità
Le donne costituiscono il 67% della forza lavoro retribuita nel settore sanitario e assistenziale globale. Oltre a questo lavoro retribuito, è stato stimato che le donne svolgono circa il 76% di tutte le attività assistenziali, incluse quelle non retribuite. Il lavoro svolto principalmente dalle donne tende ad essere pagato meno e ad avere condizioni di lavoro sfavorevoli.
Il rapporto, poi, evidenzia anche che nel settore sanitario e assistenziale si riscontrano comunemente retribuzioni basse e condizioni di lavoro impegnative. La svalutazione dell’assistenza, che è il lavoro svolto principalmente dalle donne, ha un impatto negativo sui salari e sui redditi familiari, sulle condizioni di lavoro, sulla produttività e sull’impronta economica del settore.
Il rapporto, proprio in merito alle condizioni delle donne nell’ambito sanitario, evidenzia che decenni di investimenti cronicamente insufficienti nel lavoro sanitario e assistenziale stanno contribuendo a una crescente crisi globale dell’assistenza. Con la stagnazione in corso verso la copertura sanitaria universale (UHC), che fa sì che 4,5 miliardi di persone non abbiano una copertura completa dei servizi sanitari essenziali, le donne potrebbero svolgere un numero maggiore di lavori assistenziali non retribuiti.
Uguaglianza di genere come potenzialità
L’impatto deleterio dei sistemi sanitari deboli, combinato con l’aumento del lavoro sanitario e assistenziale non retribuito, sta mettendo ulteriormente a dura prova la salute degli operatori sanitari e la qualità dei servizi. Le conseguenze principali sono, fuga e perdita di talenti nel settore che corrisponde ad un mancato guadagno in termini di offerta e produttività. Così come, la mancanza di una regolamentazione potrebbe incidere sul generale divario di genere di un Paese e limitare le possibilità di autonomia e indipendenza economica delle lavoratrici e contribuire quindi al calo demografico laddove sia già in corso.
Il report ha sottolineato quanto una mancata incidenza sulla messa in regola di contratti di lavoro possa peggiorare anche condizioni di violenza subite da lavoratrici definite “informali”. Si stima che il 42% delle donne in età lavorativa a livello globale siano escluse dalla forza lavoro a causa di responsabilità assistenziali non retribuite, come la cura della famiglia e dei figli e l’attività domestica.
La violenza di genere, inoltre, “mette a rischio la salute e la sicurezza delle donne che operano nel settore sanitario assistenziale, oltre a minare la qualità dell’assistenza dei pazienti. Ciò ha un impatto negativo sia sull’attrattività del settore, sia su eventuali avanzamenti di carriera. Aumentano possibilità di rischi di infortuni sul lavoro, stress e malattie mentali. La precarietà – conclude il report – si traduce in standard di vita negativi”.
"Il rapporto 'Fair share' ha evidenziato come investimenti equi di genere nel lavoro sanitario e assistenziale ripristinerebbero il valore della salute e dell'assistenza e porterebbero economie più giuste e inclusive - ha affermato Jim Campbell, direttore dell'OMS per il personale sanitario -. Chiediamo ai leader, ai politici e ai datori di lavoro di agire in termini di investimenti: è tempo di una giusta condivisione per la salute e l’assistenza”.
Proposte risolutive
Ecco le leve politiche proposte dall'Oms sulle quali lavorare per valorizzare al meglio il sistema sanitario e assistenziale con le sue lavoratrici:
- Migliorare le condizioni di lavoro per tutte le forme di lavoro sanitario e assistenziale, in particolare per le occupazioni altamente a copertura femminile;
- Includere le donne in modo più equo nella forza lavoro retribuita;
- Migliorare le condizioni di lavoro e le retribuzioni del personale sanitario e assistenziale e garantire la parità di retribuzione per un lavoro di pari valore;
- Affrontare il divario di genere nell’assistenza, sostenere un lavoro di assistenza di qualità e difendere i diritti e il benessere degli operatori sanitari;
- Garantire che le statistiche nazionali tengano conto, misurino e valorizzino tutto il lavoro sanitario e assistenziale;
- Investire più risorse in sistemi sanitari pubblici.
Gli investimenti nei sistemi sanitari e assistenziali non solo accelerano i progressi nell’UHC, ma ridistribuiscono il lavoro sanitario e assistenziale non retribuito. Quando le donne partecipano a lavori retribuiti nel settore sanitario e assistenziale, hanno maggiore potere economico e i risultati sanitari sono migliori. I sistemi sanitari devono riconoscere, valorizzare e investire in tutte le forme di lavoro sanitario e assistenziale.Investire più risorse in sistemi sanitari pubblici.
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Eventi estremi, la ‘mappa’ delle aree più a...
Uno studio Enea pubblicato sulla rivista Safety in Extreme Environment ha permesso di identificare le aree del nostro Paese più a rischio di mortalità per eventi climatici estremi
Trentino-Alto Adige in testa, seguita da Lombardia, Sicilia, Piemonte, Veneto e Abruzzo. Uno studio Enea pubblicato sulla rivista Safety in Extreme Environment ha permesso di identificare le aree del nostro Paese più a rischio di mortalità per eventi climatici estremi, che dal 2003 al 2020 hanno causato complessivamente 378 decessi, di cui 321 per frane e valanghe, 28 per tempeste e 29 per inondazioni.
Le regioni più a rischio
Le regioni con il maggior numero di decessi e di comuni coinvolti sono risultate: Trentino-Alto Adige (73 decessi e 44 comuni), Lombardia (55 decessi e 44 comuni), Sicilia (35 decessi e 10 comuni), Piemonte (34 decessi e 28 comuni), Veneto (29 decessi e 23 comuni) e Abruzzo (24 decessi e 12 comuni), con un alto numero di comuni a rischio riscontrato anche in Emilia-Romagna (12), Calabria (10) e Liguria (10). Tra le regioni ad alto rischio c’è anche la Val d’Aosta con 8 decessi, un numero elevato se si tiene conto degli abitanti complessivi.
“La mortalità è l’unico indicatore sanitario immediatamente disponibile per tutti i comuni italiani e la Banca Dati Epidemiologica dell’Enea consente di effettuare studi sull’intero territorio nazionale utilizzando la mortalità per causa come indicatore di impatto”, spiega Raffaella Uccelli, ricercatrice del Laboratorio Enea Salute e Ambiente e coautrice dello studio insieme alla collega Claudia Dalmastri.
Dallo studio emerge inoltre che circa il 50% dei 247 comuni italiani con almeno un decesso è costituito da centri montani o poco abitati, dove il rischio di mortalità associata a eventi meteo-idrogeologici estremi potrebbe essere connesso alla loro fragilità intrinseca e alle difficoltà degli interventi di soccorso.
“A livello demografico le vittime sono state 297 uomini e 81 donne. La ragione di questa disparità fra i sessi potrebbe essere collegata, almeno in parte, a diversi stili di vita, alle attività svolte, agli spostamenti casa-lavoro e ai tempi diversi trascorsi all’aperto”, sottolinea Claudia Dalmastri.
Eventi estremi in aumento
Nel nostro paese, oltre il 90% dei comuni e oltre 8 milioni di abitanti sono a rischio a causa di eventi climatici estremi, in particolare frane (1,3 milioni di abitanti) e inondazioni (6,9 milioni di abitanti). Da gennaio a maggio 2023, si sono verificati 122 eventi meteorologici estremi rispetto ai 52 registrati nello stesso periodo del 2022 (+135%)(dati Legambiente 2023) e le regioni più colpite sono state Emilia-Romagna, Sicilia, Piemonte, Lazio, Lombardia, Toscana. Tutte queste aree, eccetto il Lazio, sono state identificate come a rischio anche nello studio Enea.
“Gli eventi meteo estremi stanno aumentando di frequenza e intensità a causa dei cambiamenti climatici, con conseguenze drammatiche su territori e popolazioni, in particolare sugli over 65, la cui percentuale in Italia è aumentata del 24% in 20 anni. Conoscere le aree a più alto rischio anche per la mortalità associata diventa quindi fondamentale per definire le azioni prioritarie di intervento, allocare risorse economiche, stabilire misure di allerta e intraprendere azioni di prevenzione e di mitigazione a tutela del territorio e dei suoi abitanti”, conclude Raffella Uccelli.
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Piantare alberi nel modo giusto, la scienza in soccorso del...
Non c’è organizzazione, governo nazionale o locale che negli ultimi anni non abbia promesso di piantare degli alberi per combattere il riscaldamento globale. Gli esperti di The Nature Conservancy, ente non profit con sede ad Arlington, negli Stati Uniti, li mettono in guardia: non tutte queste iniziative contribuiscono al benessere del Pianeta. I progetti che non tengono conto dell’albedo, il potere riflettente di una superficie, rischiano di sovrastimare i loro effetti positivi del 20-80%. Lo riporta Agence France-Presse.
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Contrastare il cambiamento climatico è una priorità per gli...
I dati del sondaggio Euronews-Ipsos
Si avvicina la data delle elezioni europee, che in Italia si svolgeranno l’8 e il 9 giugno 2024, ma quali sono i temi più sentiti dagli elettori europei? Agire per contrastare il cambiamento climatico è una delle priorità per oltre la metà dei cittadini del Vecchio Continente. Per contro, meno di un terzo di essi ritiene che sinora l’UE abbia avuto un impatto positivo in difesa dell’ambiente. È quanto emerge dal primo sondaggio paneuropeo di questo genere svolto da Euronews e Ipsos su un campione di quasi 26 mila persone di 18 diversi Paesi. Dunque, se da un lato i cittadini sentono forte la necessità di dover fare qualcosa di concreto per limitare i danni degli eventi climatici sempre più disastrosi, dall’altro emergono non poche perplessità circa l’operato dell’UE in difesa dell’ambiente e delle persone.
I dati dei singoli Paesi
Contrastare il cambiamento climatico non è però sentito come una priorità allo stesso modo dai cittadini dei diversi Stati membri dell’UE. Sono soprattutto danesi (69% degli interpellati) portoghesi (67%) e svedesi (62%) a considerarlo come un tema centrale di cui dovrebbe occuparsi maggiormente il Governo centrale europeo. Al contrario, polacchi, cechi e finlandesi ritengono la questione non prioritaria: nel complesso solo il 34% del totale degli elettori di questi tre Paesi pensano sia un tema fondamentale. In particolare, in Polonia il 35% degli intervistati ritiene che la lotta al cambiamento climatico sia una questione secondaria. A livello di genere e fascia d’età, le donne europee sono più propense a pensare che le questioni inerenti al cambiamento climatico siano prioritarie, il 55% contro il 45% degli uomini. Il sondaggio sottolinea che, invece, l’età non rappresenta un elemento fondamentale nelle scelte dei cittadini europei, infatti, circa la metà di tutte le fasce ritiene la questione del clima prioritaria, circa un terzo la considera “solo” importante.
L’azione dell’UE in difesa dell’ambiente
Se da un lato le nuove direttive europee introdotte negli ultimi anni hanno portato notevoli cambiamenti anche mediante l’applicazione di misure drastiche per cercare di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, dall’altro la percezione dei cittadini sull’impatto di tali norme non è molto positiva. Solo il 32% degli elettori europei ritiene che l’UE abbia avuto effetti favorevoli sulla protezione dell’ambiente. Tra i cittadini che hanno un parere positivo circa l’operato del Governo europeo su tali temi vi sono al primo posto i rumeni (48%), seguiti dai portoghesi (47%) e dai finlandesi (45%). All’opposto, tra i più critici ci sono i francesi: il 39% di loro ritiene che Bruxelles abbia addirittura avuto un impatto negativo sul contrasto al cambiamento climatico. Molto critici anche gli olandesi, solo uno su quattro ha una visione positiva dell’azione ambientale dell’Unione. Proprio in Francia e Paesi Bassi, infatti, si sono di recente tenute grandi manifestazioni di protesta, specie degli agricoltori, contro il Green Deal che sarebbe la causa dell’aumento dei prezzi dei prodotti comunitari a discapito di quelli extra UE.