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Cronaca

G8 Genova, blitz alla scuola Diaz: per Corte europea ‘inammissibili’ ricorsi poliziotti

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A 20 anni esatti dal G8 di Genova del luglio 2001, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato ‘inammissibili’ i ricorsi presentati da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz. La Cedu, infatti, ha stabilito che non è ammissibile il ricorso di Massimo Nucera, Agente scelto del Nucleo speciale del Settimo Reparto Mobile di Roma (che dichiarò di aver ricevuto una coltellata durante l’irruzione nella scuola Diaz), e Maurizio Panzieri, all’epoca dei fatti Ispettore capo aggregato allo stesso Nucleo speciale (che siglò il verbale su quello che i giudici ritennero fosse un finto accoltellamento). Entrambi sono stati condannati a tre anni e cinque mesi (di cui tre condonati).

Allo stesso modo, la Corte europea ha dichiarato ‘inammissibile’ il ricorso di Angelo Cenni e altri due colleghi, capisquadra del VII Nucleo 1° Reparto Mobile di Roma. La Cedu, si legge nel provvedimento relativo a Nucera e Panzieri, “riunitasi il 24 giugno 2021 in veste di giudice unico ai sensi degli articoli 24.2 e 27 della Convenzione, ha esaminato il ricorso summenzionato così come è stato presentato. La Corte ritiene che, nella misura in cui il ricorrente denuncia la valutazione delle prove e l’interpretazione del diritto da parte delle giurisdizioni interne e contesta l’esito della procedura, il ricorso fa fronte ad una ‘quarta istanza’. Il ricorrente ha potuto presentare le sue ragioni in tribunale alle quali è stata data risposta con decisioni che non sembrano essere arbitrarie o manifestamente irragionevoli, e non ci sono prove che suggeriscano il fatto che il procedimento è stato ingiusto. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate ai sensi dell’articolo 35.3 a) della Convenzione. La Corte dichiara il ricorso irricevibile”.

Stessa sorte per il ricorso, dichiarato ‘inammissibile’ dalla Corte europea, presentato da Angelo Cenni e dai colleghi. La Cedu, si legge nella decisione, “riunitasi il 24 giugno 2021 in veste di giudice unico ai sensi degli articoli 24.2 e 27 della Convenzione, ha esaminato il ricorso summenzionato come è stato presentato. Il ricorso si basa sull’articolo 6.1 della Convenzione. Alla luce di tutte le prove di cui dispone, la Corte ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate ai sensi dell’articolo 35.3 a) della Convenzione. La Corte dichiara il ricorso irricevibile”.

IL RICORSO DEI POLIZIOTTI – Nel ricorso presentato da Nucera a Panzieri attraverso l’avvocato Silvio Romanelli, fra i molti aspetti è sottolineato che “l’esame condotto dalla Corte di Cassazione non è stato effettivo ed equo, poiché la stessa non ha realmente preso in considerazione, confutandole, le ragioni di doglianza esposte dai ricorrenti (…). In particolare la violazione delle disposizioni normative sopra richiamate deve essere individuata, sia in relazione alla sentenza della Corte di Appello che ha ribaltato il giudizio di assoluzione del Tribunale, che in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso degli odierni esponenti, nei seguenti profili che di seguito di sintetizzano: nell’aver affermato la Corte di Appello di avere integralmente riportato la relazione di servizio dell’agente Nucera, quando invece la stessa è stata riportata solo in parte, restando esclusa proprio quella parte in cui è scritto che vi erano due incisioni sul corpetto protettivo (prova inconfutabile del fatto che non esistono due versioni del fatto ma una sola) e che si era accorto di essere stato accoltellato solo in un secondo momento”.

Inoltre, “nell’aver la Corte di Cassazione del tutto omesso di valutare tale aspetto arrivando poi addirittura ad affermare che nella relazione di servizio è scritto che vi era un taglio sul giubbotto e un’incisione sul corpetto sottostante, affermazione documentalmente riconoscibile come falsa”, e “nell’aver fatto riferimento la Corte di Appello ad un atto (…) non acquisito e non acquisibile a dibattimento quale ragione del supposto (in realtà inesistente) cambio di versione dell’Agente Nucera”.

Fra le doglianza, anche quella di aver “modificato la Corte di Appello, fino a stravolgerle completamente, le dichiarazioni rese in interrogatorio dall’Agente Nucera in merito alla dinamica del fatto (malgrado la presenza del video che ne agevola e consente una perfetta comprensione), per poi giungere alla conclusione che tale dinamica – così come falsamente ricostruita dalla Corte ed attribuita allo stesso imputato – non apparirebbe credibile”, e “nel non aver minimamente tenuto in conto le risultanze della perizia e dell’esame del Perito – dal quale emerge che non solo vi è compatibilità tra la descrizione della dinamica dell’aggressione effettuata da Nucera ed i segni rinvenuti sul giubbotto e sul corpetto (circostanza della quale è dato atto), ma che da tali segni può evincersi con elevata probabilità prossima alla certezza la prova positiva del fatto che tale aggressione si sia effettivamente verificata nei termini esatti descritti dall’Agente Nucera – sostituendo il proprio giudizio a quello del perito senza neppure esporne le ragioni e senza confutare in alcun punto le risultanze della perizia e delle dichiarazioni rese dal Perito nel corso dell’esame”.

Infine, “nell’aver affermato apoditticamente la Corte di Appello che la simulazione dell’aggressione ben poteva essere avvenuta ponendo giubbotto e corpetto su un tavolo, senza necessità che fossero indossati, quando la perizia esclude categoricamente tale evenienza, dando atto che la stessa non è posta in discussione neppure dai consulenti del pm e delle parti civili; affermazione effettuata dalla Corte di Appello senza disporre una nuova perizia e senza neppure contestare gli esiti di quella agli atti, semplicemente sostituendo il proprio immotivato ed arbitrario giudizio a quello opposto, espresso in termini di certezza dal Perito”. Venendo al ricorso presentato da Cenni e dai due colleghi attraverso l’avvocato Eugenio Pini, poggia su quelle che vengono considerate evidenti lacune.

“L’intero processo – si legge nel ricorso – è basato su un materiale probatorio carente e lacunoso, e tuttavia, ciò non ha portato ad una sentenza assolutoria ma ad un accertamento della responsabilità penale a prescindere dalle risultanze processuali. Le fonti testimoniali raccolte dal giudice della cognizione erano già valse a decretare l’archiviazione del procedimento nei confronti dei presunti aggressori. Nonostante la scelta della pubblica accusa di chiedere l’archiviazione delle imputazioni nei confronti dei possibili esecutori materiali delle violenze, evidentemente determinata dalle difficoltà incontrate nella loro individuazione, gli imputati sono stati dichiarati responsabili per i reati loro ascritti, dal Tribunale di Genova” e “venivano condannati a tre anni di reclusione (interamente condonati) e alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena”.

“Si osserva fin d’ora – viene evidenziato – come tale processo, durato quasi otto anni, è stato caratterizzato da un interesse mediatico ed una pressione sociale senza precedenti, che esorbitava anche dai confini nazionali. Di tale aspetto è ben consapevole il giudice di prime cure, il quale sente la necessità di scrivere, nella sentenza, che ‘non appare innanzitutto superfluo, attesa la rilevanza mediatica del presente procedimento e le generali aspettative circa le sue conclusioni, ricordare che il compito di questo Collegio è esclusivamente quello di valutare, secondo le regole stabilite dalla normativa vigente, gli elementi probatori acquisiti in giudizio, ed in base a tali elementi accertare quindi le eventuali responsabilità personali dei singoli imputati in ordine ai reati loro specificamente ascritti. Esula dunque da tale giudizio qualsiasi diversa valutazione complessiva, di natura politica, sociale od anche di semplice opportunità, circa i fatti in oggetto’…”.

“Nonostante l’approssimazione e i ragionamenti apodittici che hanno connotato il giudizio di primo grado – prosegue il ricorso -, la sentenza del Tribunale di Genova è stata confermata dalla Corte d’Appello di Genova (…) con un inasprimento di pena. Avverso tale decisione, è stato esperito ricorso per Cassazione, conclusosi con la sentenza (…) di non luogo a procedere per prescrizione dei reati, con condanna alla refusione dei danni per le parti civili costituite”. Nel ricorso, dunque, viene evidenziato che il processo “è stato condotto in modo iniquo, con modalità tali da ledere i diritti di difesa e in violazione del principio di imparzialità del Giudice e della presunzione di innocenza e si è concluso con una condanna ingiusta e immotivata”.

Ne consegue, per i ricorrenti, “la denuncia della violazione dell’art.6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per i seguenti motivi: violazione del principio della responsabilità penale personale. Non pare possa revocarsi in dubbio il fatto che il processo a carico di Cenni” e dei colleghi, “sia stato accompagnato fin dalle sue prime battute da ‘esigenze mediatiche’, abbisognevoli di essere calmierate, dopo che la stampa di tutto il mondo aveva ingiustamente indicato le forze dell’ordine italiane, responsabili dei fatti accaduti all’esito del G8 di Genova”. “Chi scrive – annota il legale nel ricorso – non ignora che le lesioni patite dalle vittime abbiano potuto far insorgere il sospetto di una inaudita e premeditata crudeltà, tuttavia non è accettabile che alla grave carenza investigativa (che non ha consentito né di individuare gli autori dei fatti, né di verificare se tutte le lesioni fossero davvero frutto di un doloso eccesso dell’utilizzo delle armi, come ritenuto dall’accusa) possa fare da pendant la ‘ricerca di un colpevole a tutti i costi’, come invece è avvenuto nella vicenda giudiziaria in esame”.

Per i ricorrenti, “la carenza argomentativa delle sentenze di condanna su punti fondamentali della vicenda fa ritenere che esigenze diverse da quelle squisitamente processuali hanno soggiogato i giudici italiani, tanto da ingenerare in loro la credenza che fosse preciso dovere attribuire a qualcuno la penale responsabilità di quanto accaduto. Seppure il Tribunale di primo grado ha indicato in premessa la necessità di accertare soltanto le eventuali responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti, senza trascendere in una valutazione complessiva di natura politica, sociale od anche di semplice opportunità, non potrà sfuggire all’attenzione della Corte adita che le deduzioni contenute nelle sentenze, sia di primo grado che di secondo grado, sono giustificate solo ‘emozionalmente’, rappresentando cedimenti alla umana tentazione di rendere una decisione idonea a riaffermare la forza dell’autorità dello Stato, messa in discussione”.

“La prova più evidente di quanto si va in questa sede affermando – prosegue il ricorso -, è che nelle sentenze gli imputati perdono la loro individualità, il loro preciso ruolo e mansione, finanche la precisa posizione sul teatro degli accadimenti per divenire un unico organismo, il VII nucleo, responsabile di tutte le violenze commesse all’interno della scuola Diaz. Ciò che è certo è che i giudici hanno proposto in sentenza ipotesi antagoniste equiprobabili ed è certo che la presenza di ipotesi rivali ragionevoli ha fatto scendere l’ipotesi accusatoria al di sotto del limite del ‘ragionevole dubbio’. Insomma poiché il giudice ha accreditato più spiegazioni alternative del medesimo fatto storico, allora ognuna di esso non può dirsi provato oltre ogni ragionevole dubbio e, dunque, la sentenza di condanna è stata emessa in assenza degli standard probatori richiesti da ogni ordinamento processuale”.

Per i ricorrenti, dunque, si è in presenza di un’”assoluta carenza probatoria”, in quanto “l’intero processo è basato su un materiale probatorio carente e lacunoso, e tuttavia, ciò non ha portato ad una sentenza assolutoria ma ad un accertamento della responsabilità penale a prescindere dalle risultanze processuali. Le fonti testimoniali raccolte dal giudice della cognizione erano già valse a decretare l’archiviazione del procedimento nei confronti dei presunti aggressori”. Conclusioni che la Cedu ha respinto, a 20 anni dai fatti del G8 di Genova, dichiarandole ‘inammissibili’.

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Cancro del polmone a piccole cellule, nuova terapia efficace negli over 65

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Dati studio fase III Lagoon su molecola lurbinectedina presentati al Congresso Asco di Chicago

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Una panoramica di studi sul tumore del polmone a piccole cellule (Sclc) in terapia con lurbinectedina è stata al centro delle presentazioni dell’azienda farmaceutica spagnola PharmaMar al Congresso di oncologia Asco (Società americana di oncologia medica), che si è appena concluso a Chicago. Di particolare interesse il trial internazionale Lagoon e un’indagine su pazienti over65. La lurbinectedina – riferisce una nota – è un inibitore della trascrizione oncogenica, attiva nei tumori dipendenti dalla trascrizione. Uno studio basket di fase II in pazienti con carcinoma polmonare a piccole cellule trattati con la molecola in seconda linea ha mostrato un tasso di risposta globale del 35,2% e una durata mediana della risposta di 5,3 mesi, con risposte durature (43,0% ≥ 6 mesi).

Sulla base di questi risultati – prosegue l’azienda – lurbinectedina ha già ottenuto l’approvazione accelerata da parte della Fda statunitense e in altri Paesi, tra cui la Svizzera. Per l’approvazione definitiva si attendono le risposte del trial Lagoon, studio di fase III che coinvolge 705 pazienti e circa 20 Centri italiani, con la valutazione di due bracci sperimentali (lurbinectedina da sola o con irinotecan) rispetto alla Investigator’s Choice (topotecan o irinotecan) come braccio di controllo in pazienti con recidive. Gli altri Centri di ricerca coinvolti vanno dall’Institut Gustave Roussy in Francia all’Hospital universitario 12 De Octubre di Madrid, dal Chuv University Hospital di Losanna all’Università di Manchester al Dana-Farber Cancer Institute di Boston.

I principali criteri di inclusione sono: età uguale o maggiore di 18 anni; diagnosi confermata di Sclc; una precedente linea di chemioterapia contenente platino con/senza anti-PD-(L)1 e con un periodo senza trattamento uguale o superiore al mese. I pazienti con metastasi al sistema nervoso centrale possono partecipare se pretrattati e radiologicamente stabili da almeno 4 settimane. Un Comitato indipendente per il monitoraggio dei dati supervisiona la conduzione dello studio. I risultati finali, se positivi – dettaglia la nota – porteranno all’approvazione definitiva negli Usa così da poter essere presentati anche all’Agenzia regolatoria del farmaco europea Ema.

Lo studio sugli ‘over 65’, invece, parte dal presupposto che il tumore del polmone a piccole cellule recidivo è una malattia difficile da trattare e un numero considerevole di pazienti è anziano con fragilità associata e numerose comorbilità. Questa analisi in particolare confronta lo studio che ha portato all’approvazione accelerata da parte della Fda di lurbinectedina ogni 3 settimane come terapia di seconda linea nel Sclc metastatico e lo studio Atlantis, che ha valutato la combinazione di lurbinectedina/doxorubicina come trattamento di seconda linea per Sclc rispetto a un braccio di controllo di topotecan/Cav.

Il risultato è che nei pazienti anziani – conclude la nota – la lurbinectedina sembra essere superiore allo standard di cura in termini di efficacia (maggiore tasso di risposta e maggiore durata della risposta e sopravvivenza globale) e di sicurezza (meno eventi avversi ematologici associati), il che ne rafforza il ruolo come opzione terapeutica in pazienti over65 con la recidiva Sclc.

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Telemarketing selvaggio, Garante privacy confisca banche dati call center

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Colpito il 'sottobosco' con sanzioni per le società coinvolte

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Nuova azione del Garante privacy contro il telemarketing selvaggio. Confiscate per la prima volta banche dati di call center e colpito il ‘sottobosco’ con sanzioni per le società coinvolte. Da questa mattina vasta operazione finalizzata a notificare alcuni provvedimenti adottati dal Garante e, soprattutto, a confiscare le banche dati in uso ad alcune società che svolgevano attività illecite nel campo del telemarketing illegale, condotta dai finanzieri del Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche di Roma, in collaborazione con i militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Verona.

Le società coinvolte nella vicenda sono state sanzionate (Mas Srls per 200.000 euro, Mas Srl 500.000 euro, Sesta Impresa Srl 300.000 euro, Arnia società cooperativa per 800.000 euro), e due di esse sono state colpite dal provvedimento di confisca che sottrae loro la base di dati utilizzata per effettuare le attività illecite. L’operazione si è svolta simultaneamente presso le sedi delle società interessate (nel veronese e in Toscana) e costituisce la prima occasione in cui il Garante dispone la confisca delle banche dati dei potenziali clienti.

L’utilizzo dello strumento della confisca è il segno di un ulteriore innalzamento della strategia di contrasto da parte dell’Autorità, che, da un lato, sta collaborando attivamente con gli operatori virtuosi del settore per la definitiva approvazione di un codice di condotta, ma, dall’altro, non riduce la propria attività di controllo e repressione del telemarketing illegale.

L’attività, scaturita da una segnalazione della Compagnia della Guardia di Finanza di Soave (Vr), ha permesso di individuare le quattro società interessate, oggetto di successivi accertamenti svolti dal Garante con il Nucleo Speciale Tutela Privacy e Frodi Tecnologiche. Le medesime sono state ritenute responsabili di una serie di attività in aperta violazione della normativa in materia di protezione dei dati personali. In particolare, quelle veronesi (Mas srl; Mas srls), mediante acquisizione di apposite liste illegalmente prodotte, contattavano decine di migliaia di soggetti, senza che questi avessero mai rilasciato il necessario consenso per il trattamento dei propri dati a fini di marketing, proponendo offerte commerciali di diverse compagnie energetiche, giungendo anche a proporre, dopo poco tempo, passaggi inversi fra queste, al fine di accrescere le proprie provvigioni.

I contratti così realizzati venivano poi girati alle due società toscane per l’indebito inserimento nel database delle compagnie, il tutto senza alcun formale incarico e in base a un sistema di distribuzione delle responsabilità in ambito privacy fittizio, meramente formalistico e con gravissime carenze nell’adozione di efficaci misure di sicurezza per la protezione dei propri sistemi.

Attività che, in sintesi, costituiscono una delle varie forme del c.d. “sottobosco”, più volte indicato dal Garante quale causa dell’odierna espansione del telemarketing illegale: un fenomeno che si alimenta con affidamenti ed attività al di fuori delle norme, ma anche per un insufficiente controllo da parte delle grandi aziende committenti. L’odierna operazione, frutto di un partenariato regolato dal protocollo d’intesa tra il Garante per la protezione dei dati personali e la Guardia di Finanza, si inserisce nel quadro del potenziamento delle linee di presidio della legalità, a tutela di tutti i cittadini, in un segmento tanto importante quanto delicato.

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Patrizia Reggiani Gucci, dopo il raggiro in due patteggiano

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A entrambi sono state concesse attenuanti per il comportamento processuale. Cinque a processo

Il gip di Milano Guido Salvini ha ratificato due patteggiamenti per l’avvocato Daniele Pizzi (due anni, pena sospesa), ex amministratore di sostegno di Patrizia Reggiani, ex vedova Gucci, per le accuse di peculato, circonvenzione di incapace e corruzione, e a 10 mesi e 20 giorni, pena sospesa, per Maria Angela Stimoli per il reato di circonvenzione di incapace. A entrambi sono state concesse attenuanti per il comportamento processuale e, in particolare, si sottolinea come Pizzi abbia anche risarcito il danno.

Secondo le indagini della Guardia di finanza di Milano gli otto indagati della vicenda (i due patteggiamenti sono il primo verdetto di questa storia), a vario titolo e con diversi ruoli, avrebbero sfruttato la condizione di salute di Silvana Barbieri (mamma della Reggiani, morta nel 2019) e delle difficoltà psicologiche della figlia Patrizia Reggiani, per distrarre a loro favore l’ingente patrimonio derivante dall’eredità della Barbieri, poi finito alla Reggiani. Per gli altri cinque imputati, tra cui Maurizio Giani avvocato ed esecutore testamentario, i pm hanno chiesto il processo. L’udienza preliminare sarà celebrata davanti al gup Anna Magelli.

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Eredità Agnelli, tribunale Torino sospende decisione

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Stop alla causa promossa da Margherita Agnelli contro i figli John, Lapo e Ginevra Elkann in attesa della definizione sulle cause pendenti in Svizzera

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Il Tribunale di Torino ha accolto la richiesta avanzata dai legali dei fratelli John, Lapo e Ginevra Elkann e sospeso la causa successoria promossa contro di loro dalla madre, Margherita Agnelli, sull’eredità di famiglia. La sospensione è stata decisa in attesa che si formi il giudicato sulle cause svizzere pendenti a Ginevra e a Thun.

Dinanzi alle autorità svizzere sono, infatti, pendenti cause ove si discute circa la validità degli accordi del 2004 (in forza dei quali Margherita aveva transatto ogni questione relativa alla successione paterna e rinunciato, con atto notarile, a ogni pretesa successoria circa la successione paterna), nonché un’ulteriore causa ove si discute della validità dei testamenti di Marella Caracciolo Agnelli.

Secondo quanto si è appreso, la decisione del tribunale di Torino sarebbe stata assunta poiché i giudici subalpini riterrebbero che le sentenze svizzere potranno essere riconosciute ed avere ingresso in Italia anche nel caso in cui confermassero la validità del patto successorio stipulato con la madre da Margherita.

Per il tribunale torinese, infatti, l’ammissibilità di patti successori consentiti dalla legge estera, nel caso specifico la legge svizzera, non contrasterebbe con l’ordine pubblico italiano. Pertanto, il tribunale ha deciso lo stop all’azione legale promossa da Margherita accogliendo la proposta dei fratelli Elkann, difesi dagli avvocati Eugenio Barcellona e Carlo Re dello studio Pedersoli.

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Farmaci, Ucb: nuovi dati bimekizumab in artrite psoriasica e spondiloartrite assiale

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Presentati all’Eular 2023 risultati di 3 studi a lungo termine su anticorpo monoclonale

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Nuovi dati su efficacia e sicurezza a lungo termine (52 settimane) di bimekizumab nell’artrite psoriasica e nella spondiloartrite assiale sono stati presentati all’Eular 2023, il Congresso europeo di Reumatologia che si è tenuto nei giorni scorsi a Milano. Si tratta – spiega in una nota Ucb, azienda biofarmaceutica multinazionale – dei risultati di tre studi di fase 3 – Be Complete, con il suo studio di estensione a lungo termine, Be Mobile 1 e BE Mobile 2 – che valutano l’efficacia e il profilo di sicurezza di bimekizumab, un inibitore dell’IL-17A e dell’IL-17F, in adulti affetti rispettivamente da artrite psoriasica attiva (PsA), spondiloartrite assiale attiva non radiografica (nr-axSpA) e spondilite anchilosante (SA) attiva, nota anche come axSpA radiografica.

Bimekizumab è un anticorpo monoclonale IgG1 umanizzato progettato per inibire selettivamente sia l’interleuchina 17A (Il-17A), che l’interleuchina 17F (Il-17F), due citochine chiave alla base dei processi infiammatori. Nell’agosto 2021 è stato approvato per la prima volta nell’Unione Europea (Ue/Eea) e in Gran Bretagna, per il trattamento della psoriasi a placche da moderata a grave negli adulti candidati alla terapia sistemica: non è ancora stato approvato da nessuna autorità regolatoria mondiale per le indicazioni sopracitate.

“L’artrite psoriasica e la spondiloartrite assiale – afferma Emmanuel Caeymaex, Executive Vice President, Immunology e U.S. Solutions di Ucb – sono malattie infiammatorie croniche e progressive che richiedono una gestione a lungo termine. I nuovi dati a lungo termine di bimekizumab presentati all’Eular 2023 hanno mostrato risposte cliniche sostenute fino ad un anno in diverse manifestazioni della malattia e popolazioni di pazienti. Questi risultati – aggiunge – rafforzano la nostra fiducia in bimekizumab come potenziale nuovo futuro trattamento per i pazienti affetti da artrite psoriasica e spondiloartrite assiale”.

In particolare, nei pazienti con artrite psoriasica attiva con precedente risposta inadeguata agli inibitori del fattore di necrosi tumorale (Tnfi-Ir) – spiega la nota – i risultati chiave a 52 settimane dello studio di estensione in aperto Be Complete (Be Vital) si sono basati sui dati a 16 settimane dello studio Be Complete e su quelli a 52 settimane dello studio Be Optimal. “I dati a lungo termine di Be Complete – spiega Iain McInnes, dell’Università di Glasgow, College of Medicinal Veterinary and Life Sciences – hanno dimostrato che oltre 6 pazienti su 10 trattati (65,9%) in modo continuativo con bimekizumab hanno ottenuto una completa clearance cutanea (Pasi 100) e che quasi 1 su 2 (47,2%) presentava un’attività minima di malattia (Mda) alla 52esima settimana. Questi risultati – continua – integrano quelli precedentemente riportati a 52 settimane dallo studio Be Optimal ed evidenziano la risposta costante e duratura osservata con bimekizumab sia nei pazienti con artrite psoriasica naïve ai biologici, che in quelli con esperienza con gli inibitori del Tnf”.

Nell’arco di 52 settimane – dettaglia la nota – il 62,6% dei pazienti trattati con bimekizumab ha avuto almeno un evento avverso causato dal trattamento (Teae – Treatment emergent adverse events) e il 5,9% ha riportato un Teae grave. Infezioni da Candida sono state riportate dal 6,4% dei pazienti trattati. Tutti i casi sono stati riferiti come lievi o moderati e nessuno riportato come sistemico.

Sulla spondiloartrite assiale attiva (axSpA) sono stati presentati i risultati a 52 settimane degli studi di Fase 3 – Be Mobile 1 e Be Mobile 2 – che hanno valutato l’effetto di bimekizumab sulle lesioni infiammatorie delle articolazioni sacroiliache e della colonna vertebrale, misurate oggettivamente con la risonanza magnetica (Mri) e sulle principali manifestazioni periferiche. I dati – informa Ucb – si basano sui risultati a 16 e 52 settimane di Be Mobile 1 e Be Mobile 2 annunciati in precedenza.

“Il trattamento con bimekizumab rispetto al placebo – ricorda Xenofon Baraliakos, professore di medicina interna e reumatologia alla Ruhr-University di Bochum – ha ridotto l’infiammazione della colonna vertebrale e delle articolazioni sacroiliache rilevata dalla risonanza magnetica. Nei due studi, circa un paziente su due con infiammazione alla risonanza magnetica al basale ha ottenuto una remissione alla 16esima settimana, mantenuta fino alla 52a settimana”.

Per quanto riguarda l’infiammazione della colonna vertebrale, in Be Mobile 1, il 40 %dei pazienti con infiammazione al basale che hanno ricevuto bimekizumab in modo continuativo e il 27,3% di coloro che sono passati dal placebo a bimekizumab alla settimana 16 hanno raggiunto la remissione (Berlin Spine≤2); in Be Mobile 2, il 76,7% dei trattati in modo continuo e il 62,5% di chi è passato dal placebo al farmaco alla settimana 16 hanno raggiunto la remissione. Inoltre, la risoluzione dell’entesite (Entesite della Spondilite Anchilosante di Maastricht=0) alla settimana 52 si è registrata, in Be Mobile 1, nel 54,3% dei pazienti trattati in modo continuativo e nel 44,6% di coloro che sono passati da placebo al farmaco alla settimana 16; in Be Mobiule 2, le percentuali sono diventate rispettivamente del 50,8% e 46,3%. Infine, la risoluzione dell’artrite periferica (Swollen Joint Count=0) si è avuta, alla settimana 52 , in Be Mobile 1, nel 62% dei trattati continuativamente e nel 65,1% di quelli trattati dalla settimana 16; in Be Mobile 2, i valori sono risultati 72,7% e 81,8% .

In questo pool di dati, con esposizione totale a bimekizumab di 2.034,4 anni-paziente, il 15,3% dei soggetti ha avuto una storia di uveite. Tutti i Teae da uveite riportati – conclude la nota – erano di grado lieve o moderato e un evento ha portato all’interruzione del trattamento.

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Caos procure, giudici Perugia: ”Palamara ha agito fuori da poteri sue funzioni”

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“Appare corretto ritenere che Luca Palamara, operando come mediatore presso terzi, abbia agito sì spendendo l’influenza derivante dalla sua posizione e dal suo ruolo (o meglio, dai vari importanti ruoli ricoperti nel periodo di riferimento), ma comunque al di fuori dell’esercizio dei poteri tipici inerenti alle specifiche funzioni di volta in volta esercitate”. E’ quanto scrivono i giudici del Tribunale di Perugia nelle motivazioni della sentenza con cui il 30 maggio scorso hanno accolto la richiesta di patteggiamento a un anno per l’ex magistrato Luca Palamara. L’accusa iniziale di corruzione è stata riqualificata poi dalla procura di Perugia, con il procuratore capo Raffaele Cantone e i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, in traffico di influenze illecite.

“Da quanto si evince dal compendio probatorio in atti, l’attività di mediazione svolta da Luca Palamara è stata certamente finalizzata ad inquinare la funzione dei terzi pubblici agenti – sottolineano i giudici – con cui egli aveva rapporti (o comunque era in grado di allacciarli senza difficoltà), compromettendone l’uso del potere discrezionale. L’attività di mediazione illecita ascrivibile all’odierno imputato è consistita, sempre alla luce delle emergenze processuali, nel promettere di acquisire, anche tramite soggetti terzi a lui legati da rapporti professionali o di amicizia, informazioni anche riservate sui procedimenti in corso ed in particolare, su quelli pendenti presso la Procura della Repubblica di Messina e di Roma che coinvolgevano Centofanti, Amara e Calafiore; nonché nel promettere di influenzare anche per il tramite di rapporti con altri consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, le nomine e gli incarichi da parte del Consiglio medesimo e le decisioni del predetto organo”.

Luca Palamara “in forza sia del suo ruolo di Sostituto Procuratore della Repubblica presso un ufficio rilevante come quello romano, sia per le cariche associative nel tempo ricoperte, sia infine per aver fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura – scrivono i giudici – era uomo dalle molteplici conoscenze, in grado di muoversi agevolmente sia all’interno degli ambienti giudiziari che di quelli politici. Il suo ruolo nell’ambito dell’Anm e del Csm lo aveva reso inoltre influente nei confronti dei colleghi (sia quelli appartenenti alla sua stessa corrente, sia esponenti di altri gruppi, con i quali intratteneva comunque rapporti cordiali e spesso amichevoli) e quindi in grado di procurarsi, essendo ritenuto persona affidabile, anche notizie riservate su procedimenti in corso”.

“Come si evince dalle intercettazioni, molti erano i magistrati, anche di altri uffici e/o sedi giudiziarie, che si rivolgevano a Luca Palamara per avere anticipazioni sulle future determinazioni consiliari o per chiedergli di ‘caldeggiare’ domande avanzate per uffici direttivi o semi-direttivi. Egli era una fonte sicura di consigli, tranquillizzava e rassicurava gli interlocutori, anche grazie ad un modo di porsi certamente empatico ed accattivante. Aveva, così facendo, costruito intorno a sé una ‘rete’ di relazioni interne alla magistratura, che andava a saldarsi con quella delle relazioni esterne, anch’esse coltivate assiduamente nel corso degli anni, coinvolgente politici, imprenditori, nonché personaggi del mondo dell’informazione e perfino dello spettacolo. Un siffatto personaggio – sottolineano i giudici – era ‘prezioso’ per l’amico Centofanti proprio per le caratteristiche sopra evidenziate. Era per lui ‘quello su cui contare’ per districarsi in situazioni che coinvolgevano (lui stesso o soggetti a lui vicini) gli ambienti giudiziari, romani e non”.

“Ovviamente, Luca Palamara non era, in ogni caso, in grado di assicurare il risultato sperato, così come la sua spendita di influenza non era sempre finalizzata a scopi illeciti. Tuttavia – si legge nella sentenza – resta indubbio che il carattere illecito delle condotte in punto di fatto contestate all’imputato Palamara (e comprovate, nella loro materialità, dal compendio delle acquisizioni processuali) risiede, a prescindere dal risultato sperato o ottenuto, dal fatto che un pubblico ufficiale abbia ‘venduto’ la propria influenza presso altri pubblici agenti. E’ dunque la stessa mediazione a costituire un atto contrario ai doveri di ufficio, integrando così appieno il disvalore penale tutelato dalla norma incriminatrice”.

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Caso Orlandi, memoria avv. Sgrò: “Commissione arenata al Senato, clima è cambiato”

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Il legale della famiglia di Emanuela: "Pietro non voleva offendere Wojtyła, parole strumentalizzate"

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“Il 23 marzo scorso la Camera ha votato all’unanimità la proposta di legge per l’istituzione di una Commissione bicamerale di inchiesta sulle scomparse di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. All’unanimità”. Lo afferma il legale della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, in una memoria consegnata alla I Commissione al Senato che oggi ha svolto, in Ufficio di presidenza, delle audizioni informali nell’ambito della discussione sull’istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sui casi Orlandi-Gregori sottolineando che “sono passati due mesi e mezzo da quel voto e la proposta di legge sembra essersi arenata al Senato. Prima gli emendamenti, che vorrebbero ridurre la durata della Commissione, adesso queste audizioni. Il clima evidentemente è cambiato”.

“E tante cose, intanto, abbiamo letto sulla stampa. Prima fra tutte – probabilmente la questione principale, se non l’unica – le presunte accuse di Pietro Orlandi al Papa Santo. Accuse che non ci sono state – osserva l’avvocato Sgrò – Pietro Orlandi non ha mai inteso offendere la memoria di Giovanni Paolo II. Lo aveva anche scritto nella sua memoria consegnata al promotore di giustizia vaticano, glielo ha detto quando è stato ascoltato l’11 aprile scorso e lo ha sempre ripetuto a chiunque glielo chiedesse. Si è reso disponibile, mio tramite, immediatamente a chiarire al promotore di giustizia qualunque fraintendimento a seguito delle polemiche che hanno fatto il giro del mondo”.

“Abbiamo tutti udito le parole di Papa Francesco al Regina Coeli che difendeva la memoria di Giovanni Paolo II. E tutti gli abbiamo dato ragione – ha osservato l’avvocato – Anche Pietro Orlandi ha riferito che bene faceva il Santo Padre a difendere il Papa Santo. Non era stato lui, infatti, ad accusare Giovanni Paolo II, ma un audio di un sodale della banda della Magliana, audio che Pietro Orlandi aveva consegnato al promotore di giustizia nel corso del suo interrogatorio e che insieme avevano ascoltato”.

“L’audio, orribile, ingiurioso non solo nei confronti di Giovanni Paolo II, ma anche di una ragazzina di appena quindici anni, vilipesa, oltraggiata, descritta come la peggiore delle donne, non è interessato quasi a nessuno; una mezza frase di Pietro Orlandi, invece – sottolinea l’avvocato – è stata manipolata, strumentalizzata, cucita in mezzo a tanti discorsi in cui il suo nome non era mai stato fatto ed è diventata il capo di imputazione da cui ha dovuto difendere sé stesso e anche la sua battaglia alla ricerca della sorella. Nessuna spiegazione, nessuna precisazione è bastata. Pietro Orlandi è finito sul banco degli imputati”.

“Ci si è dimenticati di Emanuela e sono fiorite le polemiche, le strumentalizzazioni. Tante cose sono state dette, qualcuno, si mormora, abbia persino festeggiato per l’affossamento della commissione di inchiesta, e altrettante ne sono state scritte – prosegue l’avvocato – Troppe”.

“E’ possibile che il Parlamento di un Paese laico cambi vedute a causa di una singola affermazione, peraltro assai strumentalizzata, di un solo familiare di una scomparsa? Appena una dichiarazione fuori posto in quaranta penosi anni vissuti cercando un amato congiunto? Un congiunto, poi, la cui sparizione è da addebitarsi, suo malgrado, di volta in volta, al terrorismo, alla criminalità organizzata, alla pedofilia o addirittura a riti satanici? Una sola uscita basterebbe, quindi, a fermare la volontà dei partiti politici dopo che si erano espressi all’unanimità alla Camera a favore della istituzione della Commissione d’inchiesta? No. Non può bastare”, osserva ancora Sgro’.

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Cronaca

Caso Orlandi, promotore Vaticano: “Commissione ora sarebbe intromissione”

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Diddi al Senato: "Pernicioso per genuinità indagini aprirne una terza". Lo Voi: "Perplesso". Pietro Orlandi: "Parole Diddi non mi sono piaciute"

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“In questo momento delle indagini, aprire una terza indagine, che segue logiche, diverse sarebbe una intromissione e pernicioso per la genuinità di ciò che stiamo conducendo”. Lo ha detto Alessandro Diddi, promotore di Giustizia del Vaticano, sentito davanti all’Ufficio di presidenza della I Commissione del Senato nell’ambito della discussione per l’istituzione di una Commissione di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, riferendo la sua opinione sull’istituzione di tale organismo parlamentare.

“Noi abbiamo tutto l’interesse a contribuire, ove possibile, alla ricerca della verità. In questi anni sono stati scritti e sono state dette tante cose. Il mandato che ho ricevuto è quello di dare ampia e totale incondizionata assistenza all’autorità giudiziaria italiana”, ha ribadito Diddi.

Scettico anche il procuratore di Roma Francesco Lo Voi che davanti all’Ufficio di presidenza della I Commissione del Senato ribadendo che l’isituzione della Commissione “non può che essere una scelta del Parlamento” ha lanciato un “appello sincero affinché si possa ottenere il massimo della garanzia consentito per evitare di offrire palcoscenici”.

Rispetto all’istituzione della Commissione, Lo Voi ha espresso una possibile preoccupazione e “imbarazzo” che potrebbe nascere dalla “possibilità di offrire palcoscenici a qualcuno che probabilmente già in passato ne ha fatto uso”. Per questo ha detto di confidare “davvero sulla cautela”.

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Cronaca

Vendita di navi militari alla Colombia, per D’Alema ruolo di “mediatore informale”

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Otto le persone indagate dalla Procura di Napoli. Con l'ex premier, anche l’ex amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo

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Sono 8 le persone indagate dalla Procura di Napoli per la presunta intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo. Oltre all’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema e all’ex ad di Leonardo Alessandro Profumo, sono indagati i due broker pugliesi Francesco Amato, 39 anni, ed Emanuele Caruso, 44 anni, l’ex responsabile della Divisione Navi militari di Fincantieri Giuseppe Giordo, 58 anni, il commercialista Gherardo Gardo, 52 anni, Giancarlo Mazzotta, 53 anni, e Umberto Claudio Bonavita, 50 anni.

Secondo la Procura partenopea, si legge nel decreto di perquisizione eseguito oggi dalla Digos, Francesco Amato ed Emanuele Caruso “operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del Ministero degli Esteri della Colombia” e, “tramite Giancarlo Mazzotta, riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema, il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo (ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri), si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane, ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della Divisione Navi Militari di Fincantieri”.

L’operazione, si legge ancora nel decreto di perquisizione, “era volta a favorire ed ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le forniture e il cui complessivo valore economico ammontava a oltre 4 miliardi di euro”. Per ottenere ciò, secondo i pm napoletani, Amato e Caruso “offrivano e comunque promettevano ad altre persone, che svolgevano funzioni e attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio presso le autorità politiche, amministrative e militari della Colombia, il corrispettivo illecito della somma di 40 milioni di euro, corrispondenti al 50% della complessiva provvigione di 80 milioni di euro prevista quale ‘success fee’, determinata nella misura del 2% del complessivo valore di 4 miliardi di euro delle due commesse in gioco e da corrispondersi in modo occulto”.

La somma complessiva di 80 milioni di euro “era in concreto da ripartirsi tra la ‘parte colombiana’ e la ‘parte italiana’ attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert Allen Law, con sede in Miami (segnalato ed introdotto dal D’Alema quale agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo) rappresentato in Italia e per la specifica trattativa da Umberto Bonavita e Gherardo Gardo”.

Lo studio legale si sarebbe adoperato “per la predisposizione e la sottoscrizione della contrattualistica simulatoria e formalmente giustificativa della transazione finanziaria e dei veicoli societari, bancari e finanziari in concreto predisposti per il transito, la ripartizione e la finale distribuzione della somma, a cui non faceva infine seguito la formalizzazione dei contratti per l’intervenuta interruzione delle trattative a causa della mancata intesa sulla ulteriore distribuzione della predetta somma tra le singole persone fisiche costituenti la ‘parte italiana’ e la ‘parte colombiana'”.

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Cronaca

Navi e aerei alla Colombia, D’Alema e Profumo indagati: eseguite perquisizioni

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Secondo l'ipotesi della Procura di Napoli, l'ex premier si sarebbe adoperato per mettere in contatto due broker pugliesi con Leonardo e Fincantieri. Otto in tutto gli indagati

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Massimo D’Alema e Alessandro Profumo sono tra le 8 persone indagate dalla Procura di Napoli per la presunta intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo. Oltre all’ex presidente del Consiglio e all’ex ad di Leonardo, sono indagati i due broker pugliesi Francesco Amato, 39 anni, ed Emanuele Caruso, 44 anni, l’ex responsabile della Divisione Navi militari di Fincantieri Giuseppe Giordo, 58 anni, il commercialista Gherardo Gardo, 52 anni, Giancarlo Mazzotta, 53 anni, e Umberto Claudio Bonavita, 50 anni. Secondo l’ipotesi della Procura partenopea, l’ex premier si sarebbe adoperato per mettere in contatto due broker pugliesi (già precedentemente iscritti nel registro degli indagati) con Leonardo e Fincantieri.

Nell’ambito delle indaginiè stato eseguito dalla Digos di Napoli un decreto di perquisizione nelle abitazioni e negli uffici di Massimo D’Alema e di Profumo. Perquisizioni sono state eseguite anche nei confronti di Gianluca Giordo. Nel decreto di perquisizione si legge che Francesco Amato ed Emanuele Caruso “operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del Ministero degli Esteri della Colombia” e, “tramite Giancarlo Mazzotta, riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema, il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo (ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri), si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane, ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della Divisione Navi Militari di Fincantieri”.

Ammonta a oltre 4 miliardi di euro il valore economico delle forniture sulle quali si sono concentrate le indagini della Procura di Napoli. Gli indagati, si legge nel decreto, si sarebbero “a vario titolo adoperati quali promotori dell’iniziativa economica commerciale di vendita al Governo della Colombia di prodotti delle aziende italiane a partecipazione pubblica Leonardo (in particolare aerei M 346) e Fincantieri (in particolare corvette, piccoli sommergibili e allestimento cantieri navali), al fine di favorire ed ottenere da parte delle Autorità colombiane, la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava a oltre quattro miliardi di euro”.

Per ottenere ciò, secondo i pm napoletani, Amato e Caruso “offrivano e comunque promettevano ad altre persone, che svolgevano funzioni e attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio presso le autorità politiche, amministrative e militari della Colombia, il corrispettivo illecito della somma di 40 milioni di euro, corrispondenti al 50% della complessiva provvigione di 80 milioni di euro prevista quale ‘success fee’, determinata nella misura del 2% del complessivo valore di 4 miliardi di euro delle due commesse in gioco e da corrispondersi in modo occulto”.

La somma complessiva di 80 milioni di euro “era in concreto da ripartirsi tra la ‘parte colombiana’ e la ‘parte italiana’ attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert Allen Law, con sede in Miami (segnalato ed introdotto dal D’Alema quale agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo) rappresentato in Italia e per la specifica trattativa da Umberto Bonavita e Gherardo Gardo”.

Lo studio legale si sarebbe adoperato “per la predisposizione e la sottoscrizione della contrattualistica simulatoria e formalmente giustificativa della transazione finanziaria e dei veicoli societari, bancari e finanziari in concreto predisposti per il transito, la ripartizione e la finale distribuzione della somma, a cui non faceva infine seguito la formalizzazione dei contratti per l’intervenuta interruzione delle trattative a causa della mancata intesa sulla ulteriore distribuzione della predetta somma tra le singole persone fisiche costituenti la ‘parte italiana’ e la ‘parte colombiana'”.

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