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Cronaca

E’ il Pizza day, verità e falsi miti su uno dei cibi...

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E’ il Pizza day, verità e falsi miti su uno dei cibi preferiti dagli italiani

"Non è vero che il lievito fermenta nella pancia o può dare intolleranze, mangiarla senza ingrassare si può": parola di esperto

Una pizza  - (Fotogramma)

Oggi, mercoledì 17 gennaio 2024, è il Pizza day. Tra i cibi preferiti dagli italiani, ecco pro e contro, verità e falsi miti su uno dei simboli del 'food tricolore' dagli esperti di 'Dottore, ma è vero che...?', il sito anti-bufale della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo). E' vero che la pizza gonfia e appesantisce? Si può essere intolleranti al lievito usato per l'impasto? La si può mangiare senza ingrassare? Sono alcune delle domande che ricorrono sulla pizza, tanto amata ma anche demonizzata. Una bandiera del Made in Italy nel mondo, che ogni Paese ha declinato assecondando i gusti locali: dalla 'pepperoni pizza' degli americani, l'equivalente della nostra al salamino piccante, alla pizza all'ananas aborrita dai puristi, che pure ha preso piede a diverse latitudini.

Qualche numero

Quasi 2 italiani su tre (65%) mangiano la pizza almeno una volta alla settimana, ma c’è anche un 13% che la mette nel piatto da 2 a 4 volte a settimana in pausa pranzo o come cena, a casa ma anche fuori grazie a una rete di 121mila locali da Nord a Sud dell’Italia. E’ quanto emerge dall’indagine Coldiretti/Ipsos.

In Italia si sfornano 2,7 miliardi di pizze all’anno che in termini di ingredienti significano durante tutto l’anno 200 milioni di chili di farina, 225 milioni di chili di mozzarella, 30 milioni di chili di olio di oliva e 260 milioni di chili di salsa di pomodoro.

Il lievito fermenta nella pancia?

"Qualcuno pensa che il lievito possa fare all'addome quel che fa all'impasto di acqua e farina, gonfiandolo prima che sia disteso nella teglia, condito e infornato", spiegano i medici. "Durante la lievitazione, infatti, il fungo Saccharomyces cerevisiae - che da solo costituisce il lievito di birra, mentre si trova insieme ad altre specie nel lievito madre - comincia il processo di digestione dei carboidrati contenuti nella farina, da cui si libera anidride carbonica che fa 'crescere' l'impasto. Questo tuttavia non può accadere nel nostro stomaco - assicurano i dottori anti fake news - perché il lievito non può sopravvivere alla temperatura presente nel forno durante la cottura, ed è quindi del tutto inattivo quando arriva a tavola. Se anche ne restasse a causa di una lievitazione troppo breve o di una cottura insufficiente, non farebbe alcun male", anzi: "La fermentazione da parte di lieviti o batteri 'buoni' è una componente importante dei benefici apportati da un sano microbiota, e gli enzimi presenti nella saliva o prodotti dal pancreas per digerire l'amido (amilasi) agiscono comunque nello stesso modo".

Ma si può essere intolleranti al lievito?

"Per spiegare la pesantezza che si avverte dopo aver mangiato la pizza, qualcuno ritiene invece di avere una intolleranza individuale al lievito. Anche questa non esiste - rispondono i camici bianchi - come altre false intolleranze a centinaia di alimenti che sostengono un mercato di visite ed esami senza fondamento scientifico, come hanno recentemente ribadito le più importanti società scientifiche italiane che si occupano di questo tema, ma anche la Fnomceo e il ministero della Salute. Mentre l'intolleranza al glutine o al lattosio si basa sulla difficoltà di digerire queste sostanze, il lievito aiuta caso mai la digestione e il benessere dell'intestino. Saccharomyces cerevisiae è un'importante componente del nostro microbiota intestinale e viene dato come probiotico per rinforzarlo. E' vero che esiste una rara forma di allergia al lievito, che tuttavia - precisano i medici - si manifesta per inalazione della sostanza, come può accadere a chi lavora nella panificazione, non per averla introdotta per bocca".

Perché la pizza può sembrare 'pesante'?

"La pizza di per sé è un piatto sano ed equilibrato nelle sue componenti di carboidrati (la farina), proteine (la mozzarella) e grassi (l'olio di oliva)", premettono i dottori anti-bufale. "Per completare il pasto mancherebbe solo un piatto di verdura e un frutto, dal momento che la salsa non contiene una quantità di fibre significative. Il pomodoro cotto, però, contiene licopene, una sostanza a cui sono attribuite proprietà benefiche, addirittura nei confronti di alcuni tumori. Tutto questo si applica alla classica pizza margherita, ma sappiamo quanto spesso alla ricetta base si aggiungano le più ricche e svariate farciture di formaggi, carni lavorate, addirittura patatine fritte. A questo punto la digestione non è appesantita tanto dal disco di pasta di pane, ma dalla grande quantità di grassi e proteine che devono essere demolite e assorbite lungo il tratto digerente". Inoltre, "l'impressione di gonfiore può essere data anche dalla quantità di acqua che il sale richiama nell'intestino, insieme ai gas prodotti dalla fermentazione degli amidi".

La pizza fa ingrassare o no?

Chiarito che "a determinare il senso di pieno, pesantezza o gonfiore è soprattutto la quantità, più che la qualità, dei nutrienti contenuti nella pizza", i medici ricordano che il suo "apporto calorico dipende certamente dalla eventuale farcitura supplementare, ma anche dalle dimensioni, dal peso, dalla quantità di olio o di mozzarella che il singolo pizzaiolo aggiunge al disco di pasta. Anche una semplice pizza margherita, comunque, contiene in media circa 900 Kcal con almeno 30 grammi di grassi, quasi la metà del fabbisogno giornaliero di un adulto, e il massimo di sale (5 g) consentito dalle Linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità. E' per questo che, dopo aver mangiato la pizza, spesso ci si sveglia durante la notte per la sete".

Si può mangiare la pizza ogni tanto salvando la linea?

Per gli esperti il suo potere calorico "non significa che si debba rinunciare a questo piatto della nostra tradizione, che spesso rappresenta anche un appuntamento sociale importante con la famiglia o gli amici. Per inserire con maggiore facilità il piacere della pizza nella nostra alimentazione, anche con frequenza settimanale, non occorre cercare chi la fa con grani antichi o mozzarella light, ma semplicemente evitare le versioni più guarnite e ridurne le dimensioni. Si può scegliere la pizza per bambini, proposta in molti locali - suggeriscono i dottori - o dividerla con qualcuno, tenendo conto dell'apporto calorico che comporta negli altri pasti della giornata e anche di che cosa si beve per accompagnarla: birra o bibite gassate possono infatti aumentare la sensazione di gonfiore, oltre all'apporto calorico". E poi "un consiglio sempre valido: masticare, bene e lentamente, bocconi piccoli, permetterà di migliorare la digeribilità della pizza e insieme permetterci di gustarla anche in minori quantità".

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Cronaca

Denti più bianchi? Ecco come fare

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Ogni anno 120mila italiani chiedono al dentista trattamenti sbiancanti. Tra dentifrici al carbone e prodotti chimici i dottori anti-fake news fanno chiarezza: "No al fai da te"

Denti più bianchi? Ecco come fare

Denti più bianchi per un sorriso senza macchia. "Lo sbiancamento è una procedura di odontoiatria estetica che sta vivendo una fase di grande richiesta": la chiedono al dentista "ogni anno almeno 120mila italiani", ansiosi di "schiarire il colore dei denti che si macchiano e ingialliscono a causa del consumo dello smalto e dell'azione colorante del fumo e di alcuni alimenti, come il caffè, il tè, il vino rosso, i succhi di frutta al mirtillo". Il dato è emerso durante l'ultimo Congresso dell'Accademia italiana di odontoiatria conservativa e restaurativa (Aic), durante il quale è stato presentato uno studio secondo cui "oltre la metà dei pazienti intervistati è insoddisfatta del colore dei propri denti". Lo ricordano gli esperti di 'Dottore, ma è vero che?', il portale anti-fake news curato dalla Federazione nazionale Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.

Come fare a sbiancarsi i denti in sicurezza? Per rispondere alla domanda i dottori anti-bufala fanno innanzitutto chiarezza sui dentifrici sbiancanti che "sempre più spesso si trovano in farmacia o negli scaffali dei supermercati" e hanno "la pasta scurissima, data dalla presenza del carbone attivo vegetale. Può essere vero che la sua elevata capacità assorbente contribuisca a rimuovere la placca, il tartaro e le altre sostanze che rovinano il bianco naturale dei denti", però "non si può non considerare l'azione abrasiva del prodotto, che a lungo andare potrebbe rovinare in modo permanente lo smalto", avvertono gli esperti. "La polvere di carbone ha un certo effetto abrasivo e quindi può favorire lo sbiancamento dei denti per eliminazione di colorazioni superficiali acquisite", ammette Edoardo Baldoni, professore ordinario di Malattie odontostomatologiche all'università degli Studi di Sassari. "Non è in grado di eliminare le colorazioni profonde, ma potrebbe essere di aiuto per combattere l'alitosi. Tuttavia - precisa - non esistono ancora studi scientifici affidabili (randomizzati e controllati) che confermino entrambe queste caratteristiche, anche perché la disponibilità del prodotto sotto forma di pasta dentifricia è relativamente recente".

Secondo uno studio pubblicato su 'The Journal of the American Dental Association', spiegano i medici, "non ci sono prove scientifiche che dimostrino l'efficacia del carbone attivo per la pulizia e lo sbiancamento dentale. Gli autori hanno condotto una revisione della letteratura per esaminare l'efficacia e la sicurezza dei dentifrici a base di carbone, arrivando a identificare 118 articoli potenzialmente idonei. Nessuno degli è risultato abbastanza convincente e la ricerca ha dimostrato che non ci sono prove sufficienti a sostegno della sicurezza e dell'efficacia dei dentifrici a base di carbone attivo. Sono necessari studi più ampi per stabilire prove conclusive e nel frattempo si consiglia di non utilizzarlo".

Cosa fare allora? Per Baldoni, illustrano i dottori anti-bufale, "la prima cosa da fare è una seduta di igiene orale professionale per eliminare dai denti placca batterica, tartaro e macchie superficiali. A seguire, si possono valutare tre possibilità. La prima è l'impiego prolungato di dentifrici sbiancanti, facendo attenzione a evitare quelli troppo abrasivi che potrebbero alla lunga danneggiare lo smalto. La seconda è utilizzare prodotti chimici sbiancanti sotto forma di pennellini applicatori, striscioline o mascherine da applicare sui denti per alcuni minuti ogni giorno, fino a raggiungere la colorazione desiderata; il prodotto migliore e la modalità più idonea devono essere consigliati individualmente dall'odontoiatra o dall'igienista dentale. La terza possibilità è sottoporsi a sedute professionali di sbiancamento con l'impiego di sostanze a base di perossidi a maggior concentrazione, con l'aiuto o meno di luci a particolari frequenze, che consentono in tempi più rapidi l'eliminazione di decolorazioni anche profonde e persistenti". E' invece "assolutamente sconsigliato l'utilizzo di metodi 'fai da te' senza aver consultato prima il proprio dentista".

Ma avere denti bianchi equivale e ad avere denti sani? "La colorazione naturale dei denti - risponde Baldoni - è correlata geneticamente con quella della pelle, degli occhi e dei capelli. Avere denti di colorazione uniformemente più intensa non vuol dire che non siano sani, ma la presenza di singoli denti con riflessi grigiastri o macchie scure può segnalare la presenza di carie o infiltrazioni. Al contrario, la presenza di aree gessose o macchie bianche può significare che ci sono alterazioni dello smalto, che possono essere congenite o acquisite. Da ricordare, infine, che i denti naturali non hanno mai una colorazione uniforme in tutte le zone della corona e non tutti i denti sono dello stesso identico colore nelle varie zone della bocca. Ad esempio, i canini hanno sempre un tono più intenso di tutti gli altri. Attualmente sono di moda, o comunque graditi e socialmente apprezzati - osserva lo specialista - denti resi artificialmente molto uniformi e molto bianchi, ma che raramente si ritrovano in natura".

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Cronaca

Giulio Regeni, “sul suo corpo segni evidenti di...

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La testimonianza dell'ambasciatore Maurizio Massari sentito in aula nel processo contro i quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell'omicidio del ricercatore friulano davanti alla Corte di Assise di Roma

Un cartello davanti al tribunale di Roma - Fotogramma

"Mi recai personalmente nell'obitorio dove era tenuto il corpo di Giulio. Erano evidenti segni di torture, dei colpi ricevuti su tutto il corpo con ematomi e segni di fratture e tagli". Così l’ambasciatore Maurizio Massari sentito in aula come testimone nel processo davanti alla Prima Corte di Assise di Roma che vede imputati quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel 2016.

Massari, ora ambasciatore d’Italia presso le Nazioni Unite, era in servizio al Cairo nel 2016. L’ambasciatore ha ricostruito, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, quanto accaduto dalla prima telefonata ricevuta il 25 gennaio 2016 dal professor Gennaro Gervasio che riferiva della scomparsa del ricercatore fino al ritrovamento del corpo di Giulio Regeni.

Le prime ore dopo la scomparsa

“Il 25 gennaio era una giornata particolare: c’era molta polizia, c’erano state perquisizioni. Dalle ambasciate mandavamo avvisi agli italiani di evitare zone pericolose, assembramenti. Giulio però non lo ha ricevuto, non era registrato, non c’era nessun obbligo. Dopo la chiamata del professore immediatamente avvisai il capo centro dell’Aise - ha spiegato - gli chiesi di mettersi in contatto con l’intelligence egiziana e mi riferì che non risultavano notizie del nostro connazionale. Chiesi un incontro al ministero degli Interni egiziano. Le preoccupazioni erano crescenti, dalle autorità egiziane non ci arrivavano informazioni. Quando siamo tornati a chiedere un incontro, ricordo intorno al 30-31 gennaio, il suo capo di gabinetto finalmente mi disse che il ministro mi avrebbe incontrato presto.

Il pressing sul Cairo

E Il 2 febbraio sono stato ricevuto a 4-5 giorni dalla mia richiesta di incontro: tempi dilatati rispetto al solito anche perché avevo fatto riferimento alla gravità della situazione”.

"In quei giorni stavamo preparando la visita del ministro Guidi con un’ampia delegazione di imprenditori italiani. Cercai di far capire che se non avevamo notizie sul nostro connazionale era difficile tenere in piedi la visita. Cercavo di fare leva su questo”, ha spiegato Massari rispondendo alle domande.

"Attività di ricerca che avevano dato fastidio"

Appresa la notizia della scomparsa di Giulio Regeni “abbiamo cercato di attivare tutti i canali possibili. Tra il 28-29 gennaio iniziammo a contattare anche un po’ di persone della società civile egiziana, legate in particolare alla difesa dei diritti umani. Ci parlarono della sua ricerca sui venditori ambulanti, che era ‘attenzionato’ da tempo, che era stato fotografato. Legavano la sparizione all’attività di ricerca di Giulio”, ha ricordato l’ambasciatore.

“Notizie che per noi non erano verificabili in quel momento perché provenivano da rappresentanti della società civile che a loro volta si riferivano a conoscenze con il coinquilino di Giulio. Tutto induceva a ritenere che fosse stato in qualche modo fermato dalle autorità egiziane, che ci fosse qualcosa legato alla sua attività di ricerca che poteva aver dato fastidio”, ha spiegato in aula ricordando che in passato c’erano stati altri episodi di sparizioni di nostri connazionali poi risolti dopo pochi giorni.

Il legale della famiglia: "Racconto doloroso"

“Abbiamo cominciato a ricostruire il contesto del regime egiziano nei giorni in cui Giulio è stato sequestrato, torturato e ucciso. Grazie alla testimonianza dell’ambasciatore Maurizio Massari abbiamo ricostruito quel periodo tragico dal 25 gennaio del 2016, giorno della sua scomparsa, fino al ritrovamento del corpo e ai depistaggi successivi”. Così l’avvocato Alessandra Ballerini, legale dei genitori di Giulio Regeni, al termine dell’udienza del processo davanti alla Prima Corte d’Assise che vede imputati quattro 007 egiziani.

L’avvocato ha sottolineato che è stato “molto faticoso e doloroso stare in questa aula e ascoltare quelle parole. Erri De Luca aveva parlato di brandelli di verità che stiamo raccogliendo e mettendo insieme faticosamente. I genitori di Giulio sono usciti dall’aula perché non volevo che sentissero la descrizione del corpo di Giulio”.

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Cronaca

Rogo Primavalle, il 16 aprile 1973 la morte dei fratelli...

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Stefano e Virgilio, 10 e 22 anni, bruciati vivi in pochi minuti. 51 anni dopo il rogo resta ancora impunito

Stefano e Virgilio Mattei - Fotogramma

Stefano e Virgilio Mattei hanno 10 e 22 anni quando uno scoppio violentissimo preannuncia l'incendio che avrebbe bruciato da lì a pochi istanti l'intero appartamento al 33 di via Bernardo di Bibbiena, nel quartiere Primavalle, portandosi via le loro giovanissime vite. E' il 16 aprile 1973. Alle 3.20 un gruppo di giovani di Potere Operaio sale fin su al terzo piano del lotto 15, scala D, per lasciare davanti alla porta di un appartamento una tanica di benzina con un innesco artigianale. Attivano la miccia e fuggono via. Qualche secondo ed è storia.

Cosa è successo

L'appartamento è quello di un ex netturbino, Mario Mattei, segretario della sezione 'Giarabub' del Msi, Movimento sociale italiano, in via Svampa. Ha sei figli: quando si accorge dell'incendio, si getta giù da un balcone. La moglie Anna e i due figli più piccoli, Antonella di 9 anni e Giampaolo di soli 3 anni, riescono a fuggire dalla porta principale quando il fuoco comincia a diffondersi. Lucia, di 15 anni, grazie al padre si cala nel balconcino del secondo piano e da lì si butta, presa al volo da Mattei già a terra nonostante le ustioni sul corpo. Silvia, 19 anni, si getta dalla veranda della cucina e finisce sul marciapiede del cortile riportando la frattura di due costole e tre vertebre. Gli altri due figli, Virgilio di 22 anni, militante missino dei Volontari Nazionali, e il fratellino Stefano di 10 anni, invece, non riescono a gettarsi dalla finestra per scampare alle fiamme. Intrappolati, riescono ad affacciarsi e provano a chiedere aiuto. Alcune foto dell'epoca ritraggono Virgilio proprio mentre, completamente annerito e con il volto già devastato dalle fiamme, cerca di gridare. Muoiono bruciati vivi nel giro di pochi minuti. I vigili del fuoco li trovano carbonizzati e abbracciati vicino alla finestra che non erano riusciti a scavalcare.

Le indagini

Le indagini, affidate nell'aprile del 1973 al sostituto procuratore Domenico Sica, si indirizzano subito verso piste collegate all'area della sinistra extraparlamentare e, in particolare, verso gli esponenti dell'ala considerata più movimentista di Potere Operaio. Il 18 aprile vengono spiccati tre mandati di arresto per i presunti responsabili: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Mentre Lollo viene catturato quello stesso giorno, Clavo e Grillo riescono a sfuggire all'arresto e si danno alla latitanza, riparando in Svizzera. Il 7 maggio, a sole tre settimane dall'attentato, l'inchiesta giudiziaria viene chiusa. Il giudice istruttore Amato formalizza le accuse nei confronti di Achille Lollo (in carcere), Marino Clavo e Manlio Grillo (ancora latitanti).

In favore dei tre esponenti di Potere Operaio parte una campagna innocentista alla quale contribuiscono anche alcuni autorevoli personaggi della sinistra, tra cui Dario Fo e Franca Rame, che organizza una raccolta fondi per Achille Lollo. Una controinchiesta del collettivo Potere operaio, poi rivelatasi un depistaggio a tutti gli effetti, tenta di attribuire la responsabilità della tragedia a una faida interna tra esponenti di destra.

I processi e la riapertura delle indagini

Il processo di primo grado inizia il 24 febbraio 1975, a quasi due anni dal rogo, con due degli imputati, Manlio Grillo e Marino Clavo, ancora latitanti, e il solo Achille Lollo in carcere. Si conclude in Corte d'Assise il 15 giugno 1975 con l'assoluzione per insufficienza di prove degli imputati dalle accuse di incendio doloso e omicidio colposo. Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo vengono condannati solo nel processo di appello bis. Ma, rilasciato in attesa di processo d'appello, Lollo fugge in Brasile e si sottrae alla cattura come già Manlio Grillo, rifugiatosi in Nicaragua, e Marino Clavo, tuttora non rintracciabile. La conferma della condanna in Cassazione arriva il 13 ottobre 1987. Tuttavia, la pena viene dichiarata estinta dalla Corte d'assise d'appello di Roma per intervenuta prescrizione, su istanza del difensore di Marino Clavo.

Nel 2005 alcune interviste clamorose portano a una riapertura dei fascicoli. In una di queste Achille Lollo ammette la colpevolezza propria e degli altri due condannati, aggiungendo che a partecipare all'attentato furono in sei, i tre condannati più Paolo Gaeta, Diana Perrone (figlia dell'editore Ferdinando) e Elisabetta Lecco, ammettendo inoltre di aver ricevuto aiuti dall'organizzazione per fuggire. Come lui, il 17 febbraio anche Manlio Grillo ammette per la prima volta la propria responsabilità e di aver ricevuto aiuti dall'organizzazione per fuggire.

La procura di Roma riapre quindi il caso: parte un procedimento contro Gaeta, Perrone, Lecco (Primavalle-bis), e un'inchiesta contro Lanfranco Pace, Valerio Morucci e Franco Piperno (Primavalle-ter) sulla base di una denuncia della famiglia Mattei che li indica quali mandanti dell'attentato. Il procedimento Primavalle-bis, già chiuso nel 2010 per impossibilità di procedere, viene definitivamente archiviato nel 2011 a causa dell'assenza di trattati per rogatorie internazionali con il Nicaragua e il Brasile (Lollo, morto nel 2021, rientra in Italia solo nel 2011, dopo la prescrizione e l'archiviazione). Il Primavalle-ter viene invece sospeso, a causa dell'anomalia giuridica delle precedenti condanne per omicidio colposo e incendio. Ad oggi, 51 anni dopo, il rogo di Primavalle resta ancora impunito.

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