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Salute e Benessere

Disturbi urologici per un 1 italiano su 6, acuiti in pandemia

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Oltre 10 milioni di italiane e italiani soffrono di un problema urologico, circa uno su sei. Non solo: tre dei primi sei tumori maschili più diffusi nel nostro Paese riguardano l’apparato urinario. Due destano particolare preoccupazione tra gli esperti: il tumore del testicolo e quello della vescica. All’attenzione degli specialisti anche la cistite interstiziale e, più in generale, il tema della sessualità. Nella donna, ma soprattutto nell’uomo che tende a nascondersi e ‘sfuggire’ a questi problemi. Tutti problemi che si sono acuiti in questi 2 anni di pandemia. Lo ricordano gli esperti della Società italiana di urologia (Siu) e della sua Fondazione, affiancate da 11 associazioni di pazienti, oggi a Roma nella conferenza stampa organizzata per la seconda Giornata nazionale dell’urologia, prevista per domani 10 giugno, e che punterà sull’informazione e la prevenzione.

Anche l’urologia ha pagato il suo tributo alla pandemia e per questo, dicono gli esperti, “serve recuperare il tempo perduto, ma anche acquisire una maggiore consapevolezza dell’importanza della figura dell’urologo per prevenire e curare patologie molto serie, sia maschili che femminili”. In questa occasione tutti i cittadini avranno a disposizione un numero verde per consulti gratuiti, consigli e indicazioni sui centri più vicini, sempre attivo (800.189441), anche se una prima fase il servizio sarà dedicato esclusivamente ai profughi dell’Ucraina ospiti in Italia. E’ stata inoltre attivata una intera nuova sezione del sito Siu (www.siu.it/salute).

“Il ministero della Salute – ha spiegato il ministro Roberto Speranza, intervenuto all’incontro – sostiene questa seconda Giornata nazionale e la campagna di sensibilizzazione e di promozione della prevenzione delle malattie urologiche. Queste iniziative sono sempre importantissime per la popolazione e fondamentali per evitare lo sviluppo di problematiche che, se individuate in ritardo, possono costringere i pazienti ad affrontare percorsi di cura più complessi e dolorosi. L’investimento sulla prevenzione è quello che aiuta di più le persone, ma anche il Servizio sanitario nazionale. Prevenire è importantissimo sul piano individuale, ma è anche la cosa più conveniente”, perché “ci consente di avere meno problemi dopo. E’ sempre più importante – ha concluso – che tutte le figure istituzionali e associative dei pazienti si uniscano e lavorino all’unisono, con l’obiettivo comune di far crescere la qualità del nostro servizio sanitario”.

“Il 10 giugno vuole essere un momento di sensibilizzazione, approfondimento, informazione e conoscenza delle principali tematiche collegate alla salute e al benessere del proprio apparato urinario e sessuale”, ha spiegato Antonio Rizzotto, presidente Siu e direttore Unità di Urologia Asl Viterbo Ospedale Belcolle. “Gli urologi – ha aggiunto – hanno riscontrato sul campo, giorno dopo giorno, che le patologie urologiche sono in aumento. Per questo come Siu siamo impegnati a far conoscere e a informare i cittadini sull’importanza di controlli periodici fin da bambini, per evitare problemi da grandi”.

L’obiettivo degli urologi “è far capire alla popolazione che l’urologo non è solo il medico del benessere maschile, cioè il custode della salute dell’uomo, ma anche un medico che si occupa di urologia al femminile”, ha aggiunto Giuseppe Carrieri, segretario generale Siu e professore ordinario di Urologia all’università di Foggia.

“Non a caso – ha rimarcato – quest’anno ci siamo fatti affiancare da 11 associazioni di pazienti che affrontano il tema urologia a 360 gradi. Siamo certi che questa ‘alleanza’, questa collaborazione tra la Siu e le associazioni, al momento un unicum in Italia, sarà importantissima per scambiarci informazioni e comunicare sempre di più e sempre meglio a tutta la popolazione l’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce. L’urologo deve accompagnare l’uomo e la donna in tutte le fasi della vita. Certamente al momento la sua figura è essenziale soprattutto per l’uomo, nella prevenzione dell’infertilità, tramite una precoce individuazione del varicocele, così come nella prevenzione dei tumori: insegnare ai giovani l’autopalpazione, per esempio, è fondamentale perché questo metodo resta tuttora il più efficace e affidabile”.

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Covid, varianti Eris e Pirola non provocano malattia più grave

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Anziani e fragili restano a rischio

Una dose di vaccino covid


Le nuove varianti del covid, in particolare Pirola e Eris, non sembrano provocare sintomi diversi da quelli già conosciuti: mal di gola e febbre, raffreddore e spossatezza, mal di testa e eventuale assenza di olfatto e gusto. L’aumento dei contagi legato alle mutazioni più recenti, quindi, non dovrebbe produrre una malattia più grave.

“Per ora non vi è assolutamente alcuna indicazione che l’infezione” con le nuove varianti di Sars-CoV-2 “possa causare malattie più gravi, o rendere i vaccini meno efficaci contro la malattia grave rispetto alle varianti precedentemente circolate”, dice Andrea Ammon, direttrice dell’Ecdc, Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, in una conferenza stampa tenuta insieme al direttore esecutivo dell’Agenzia europea del farmaco Ema, Emer Cooke. “Tuttavia – puntualizza – le persone più anziane e quelle con patologie preesistenti corrono comunque un rischio più elevato di andare incontro a esiti gravi se vengono infettate” e colpite da Covid-19.

“A inizio settembre -riporta la direttrice dell’Ecdc – è stata segnalata una trasmissione di Sars-CoV-2 in crescita in più della metà dei Paesi dell’Ue/Spazio economico europeo. Fortunatamente il livello di malattie gravi e di morte era ancora relativamente basso. E’ importante riservare un’attenzione particolare al Covid-19 nelle fasce d’età più avanzate. E vediamo che 9 su 16 Paesi che riportano i conteggi dei casi divisi per età hanno visto aumentare i numeri negli over 80, e 12 su 16 hanno osservato una crescita nelle persone dai 65 anni in su” per più settimane. “I decessi Covid in termini assoluti rimangono bassi rispetto ai livelli riportati in precedenza durante la pandemia, tuttavia – ha aggiunto Ammon – 4 su 12 Paesi con dati specifici hanno segnalato di recente dei piccoli aumenti nei morti fra gli over 65”.

La crescita del contagio da Sars-CoV-2,continua la numero uno dell’Ecdc, “coincide anche con l’avvento e il predominio di un gruppo di sottovarianti Omicron denominate ‘XBB.1.5-like'”, varianti simili a Kraken, “portatrici della mutazione F456L. Inoltre ad agosto è stato rilevato sporadicamente un nuovo sottolignaggio Omicron, BA.2.86”, battezzato sui social Pirola, “all’interno dell’Ue/See e fuori. E sebbene siano stati confermati solo pochi casi a livello globale, possiamo sospettare, dal momento che questi casi sono abbastanza dispersi, che vi sia una trasmissione comunitaria a basso livello di questa variante in più Paesi. Si tratta di una variante abbastanza divergente da quelle attualmente in circolazione, il che potrebbe portare a un aumento delle reinfezioni”.

“I nostri modelli hanno mostrato che una campagna vaccinale anti-Covid con un’elevata adesione, rivolta a persone di età dai 60 anni in su, potrebbe prevenire circa il 21-32% di tutti i ricoveri correlati a Covid nell’Ue/Spazio economico europeo fino al 24 febbraio”, è la stima diffusa da Ammon.

“Covid-19, influenza e virus respiratorio sinciziale” Rsv “rimangono sfide significative per la salute pubblica. Insieme chiediamo a tutti i cittadini dell’Unione europea che appartengono alle categorie a rischio e sono candidabili alla vaccinazione: per favore, fate i vaccini che le autorità sanitarie pubbliche Ue rendono disponibili per voi”, l’appello lanciato da Cooke.

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Coronavirus

Medici esausti, per oltre 8 su 10 sempre più difficile lavorare nel Ssn

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Indagine Univadis Medscape: "Si guarda all’estero per nuove opportunità professionali"

Medico con viso tra le mani -

Stanchi, stressati e insoddisfatti. Oltre 8 medici su 10 considerano sempre più difficile lavorare nel Servizio sanitario nazionale: colpa di turni di lavoro lunghissimi, carenza di personale, scarsa sicurezza negli ospedali, compensi considerati troppo bassi. E per quanto i camici bianchi apprezzino ancora il loro lavoro solo il 60% sceglierebbe nuovamente questa professione ed è sempre più diffusa la tendenza a cercare opportunità lavorative all’estero, soprattutto tra i giovani medici. E’ il quadro che emerge dalla nuova indagine Univadis Medscape Italia, il portale di informazione per i professionisti della salute, svolta su un campione di 1.169 operatori sanitari impiegati a tempo pieno, ovvero che lavorano in media 44 ore settimanali e una media di 56 pazienti a settimana.

Il 57% del campione afferma che carico di lavoro è aumentato negli ospedali ma solo nel 27% dei casi è stato assunto nuovo personale all’interno della struttura. Inoltre, se la precedente indagine 2020, la burocrazia era considerata come l’ostacolo principale per i medici (ora viene citata solo dal 17% del campione), nel 2022 è la mancanza di personale ad affliggere chi lavora nel 35% dei casi. Il malessere è comunque peggiorato dal fatto che l’89% dei medici ritiene di non essere pagato abbastanza. “I medici italiani guadagnano in media 60.000 euro l’anno, ma esiste una grande differenza tra gli ospedalieri e chi opera soprattutto in ambulatorio, inclusi i medici di medicina generale: se per i primi si arriva in media a 56.000 euro l’anno, chi riceve pazienti in ambulatorio ne guadagna fino a 79.000 euro ben 23.000 euro in più”, spiega Daniela Ovadia, direttrice di Univadis Medscape Italia e autrice del report.

“Le donne – continua – poi sono una categoria che viene ulteriormente penalizzata: in media guadagnano circa 20.000 euro all’anno in meno dei colleghi uomini, con l’aggravante di pagare spesso anche il conto più salato in termini di equilibrio tra vita privata e professionale”. Lo scenario è quindi quello di un’insoddisfazione per la propria situazione economica, destinata a crescere anche in considerazione di ulteriori fattori. Da una parte, infatti, risultano scarse le opportunità di guadagno integrativo, inclusi bonus e incentivi ai quali solo un medico su due riesce ad aver accesso. Dall’altra, si è registrato un aumento dell’inflazione – per il 77% del campione il potere d’acquisto è diminuito rispetto al 2021, e per il 75% la situazione non migliorerà nei prossimi due anni – così come un aumento delle spese generali, incluse quelle relative alla sottoscrizione di contratti di assicurazione integrativa che il 73% dei medici dipendenti paga di tasca propria.

“La pandemia da Covid-19 – aggiunge Ovadia – ha portato a vari cambiamenti negli orari e nei salari, ma non è più la principale fonte di problemi all’interno degli ospedali. Le cause sono più strutturali e organizzative: c’è carenza di personale, bassa sicurezza per i medici, aumento delle aggressioni, diminuzione dei benefici, mentre gli stipendi restano sempre uguali. La conseguenza è che sempre più medici, soprattutto i più giovani, sono spinti ad andare a lavorare all’estero, verso Paesi come Svizzera e Inghilterra. Oppure, per ovviare alle difficoltà, si guarda alla sanità privata, un settore che attira sempre maggiore attenzione (per il 32% del campione), cosi come per la prima volta, abbiamo registrato una consistente percentuale di medici che pensa di mettersi in proprio (17%)”.

A compensare almeno in parte il sentiment negativo, rimane la centralità e l’importanza della relazione con i pazienti, che per il 31% del campione resta uno degli aspetti più gratificanti del proprio lavoro (nell’indagine 2020 il dato era del 33%). Altri motivi di soddisfazione personale sono la consapevolezza della propria bravura (26%), l’aver contribuito a rendere il mondo un posto migliore (12%) e l’orgoglio di essere medico (9%).

Inoltre, rispetto all’indagine del 2020, un aspetto degno di nota è quello relativo alla telemedicina: nel precedente report si era registrato scetticismo rispetto all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali nell’ambito della salute, mentre adesso risulta in netta crescita chi utilizza strumenti di telemedicina (36%) e ne è soddisfatto (il 71% degli intervistati), tanto che il 20% prevede di estendere la telemedicina alla teleconsultazione (e il 38% ci sta pensando).

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Salute e Benessere

De Gregorio (Gsk): “Entro un anno anti-meningococco 5 in 1”

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'In fase II quello di seconda generazione con sierotipi ABCWY, che copre quasi al 100%'

De Gregorio (Gsk):

“Stiamo aspettando il via libera dell’Agenzia italiana del farmaco Aifa, che dovrebbe arrivare nel giro di un anno al massimo. Il candidato vaccino combinato MenABCWY”, noto come l’anti-meningococco ‘5 in 1’, “ha raggiunto tutti gli 11 endpoint primari dello studio clinico ed è stato ben tollerato, con un profilo di sicurezza coerente con il vaccino MenB e il MenACWY. I dati dimostrano che il nuovo vaccino non è inferiore al vaccino ACWY né a quello singolo del meningococco B, quindi ci aspettiamo che quanto prima arrivi il via libera all’immissione in commercio”. Lo ha detto Ennio De Gregorio, amministratore delegato Gsk Vaccini Italia, all’Adnkronos Salute, commentando i risultati positivi dello studio clinico pivotale di fase III per il candidato vaccino meningococcico 5 in 1 ABCWY, che continente i 5 sierogruppi di Neisseria meningitides (A, B, C, W e Y) responsabili di quasi tutti i casi di meningite nella maggior parte del mondo: a oggi, nessun vaccino combinato autorizzato offre protezione contro questi 5 sierogruppi in un unico prodotto.

“Inoltre – continua De Gregorio – stiamo già lavorando a un vaccino ABCWY di seconda generazione che dovrebbe avere una copertura ancora più ampia rispetto al precedente e vicina quasi al 100%, ma siamo ancora in fase II”.

Il centro Gsk dove è stato sviluppato il vaccino è quello di Siena: dedicato alla Ricerca e Sviluppo, è vicino al sito produttivo di Rosia. Insieme rappresentano da oltre 100 anni un’eccellenza nel panorama della vaccinologia internazionale. “E’ uno dei pochi siti al mondo – sottolinea l’Ad Gsk – che si occupa di tutta la vita dei vaccini, dalla ricerca e sviluppo, a tutta la parte regolatoria, di produzione e confezionamento dei vaccini. Principalmente – precisa – ci occupiamo di vaccini per prevenire infezioni batteriche. Siamo diventati un centro di attrazione importante per talenti nel mondo: vogliono venire a lavorare da noi perché sanno che questo è un centro di eccellenza”.

I due siti toscani – con oltre 2.500 collaboratori da tutto il mondo e investimenti medi superiori ai 60 milioni all’anno in impianti, macchinari e nuove tecnologie – costituiscono un’unica entità che copre tutte le fasi della messa a punto di un vaccino. “Il centro di Siena – rimarca De Gregorio – ha una grande competenza scientifica soprattutto per i vaccini per la prevenzione di infezioni batteriche. Abbiamo una lunga tradizione con molti vaccini che sono stati sviluppati qui soprattutto per la prevenzione delle meningiti, ma lavoriamo alla prevenzione di molte infezioni batteriche, in particolare che sono resistenti agli antibiotici. Questa è una sfida molto importante per il futuro, perché i batteri causano nel mondo più di 7 milioni di morti e questo numero aumenterà poiché i batteri acquisiscono molto velocemente resistenza agli antibiotici, in modo molto più rapido della capacità dell’industria di produrre antibiotici. Pensiamo che la prevenzione delle malattie attraverso questi vaccini può avere un ruolo importantissimo, quindi stiamo lavorando molto proprio su questo aspetto”.

Tra i tanti vaccini sviluppati nel centro di Siena, ha un’importanza particolare il vaccino contro il meningococco B: è formulato con 4 antigeni altamente immunogenici che, considerati nel loro insieme, hanno il potenziale di proteggere da un’ampia gamma di ceppi patogeni. Gsk Vaccines ha identificato queste componenti grazie a un approccio pionieristico, la ‘vaccinologia inversa’ (reverse vaccinology). Diversamente dai metodi convenzionali di sviluppo dei vaccini, la vaccinologia inversa ha permesso a Gsk di decodificare la mappa genetica (cioè la sequenza genomica) del meningococco B e di selezionare le proteine con la maggiore probabilità di generare un’ampia copertura contro il meningococco B.

“Lo sviluppo del vaccino contro l’infezione da meningococco B è stato un viaggio lungo e complesso – osserva l’Ad – perché mentre per altri vaccini per la prevenzione della meningite abbiamo potuto utilizzare la capsula, ossia la parte esterna del batterio come antigene, per il meningococco B questo non è stato possibile. Lo zucchero (polisaccaride) presente sulla capsula esterna del batterio – illustra – è infatti identico a un componente del corpo umano e quindi non è riconosciuto come estraneo dal sistema immunitario, di conseguenza l’eventuale risposta al vaccino risultava molto scarsa e pertanto il vaccino non funzionava. Quindi per il meningococco B è stato necessario utilizzare l’innovazione della genomica e l’informazione genetica del batterio per trovare i componenti giusti del vaccino che potessero proteggere non solo da alcuni ceppi di meningococco B, ma dalla maggior parte dei ceppi circolanti. Costruire un vaccino e dimostrare che è efficace per la protezione di tutti i ceppi circolanti – conclude De Gregorio – è stata la sfida più grande per i ricercatori. Una sfida che però abbiamo vinto. Il meningococco B ha un impatto sulla salute pubblica molto importante: laddove il vaccino viene utilizzato, i casi di meningite si sono ridotti in modo importante, più del 75%”.

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Picozza (Andea), ‘dermatite atopica in aumento fra adulti sotto stress’

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'Importantissimo avere un sostegno farmacologico e sociale'

“La dermatite atopica è una malattia che colpisce fin da piccoli. Tuttavia, ultimamente sono sempre di più gli adulti e i giovani adulti che ne sono affetti. In quest’ultimo caso, l’avvento della malattia può coincidere con un periodo di particolare stress, dettato magari dall’ingresso nella cosiddetta ‘vita adulta’, con gli impegni e le responsabilità del lavoro. Le persone che hanno sofferto di dermatite atopica quando erano bambine corrono infatti il rischio che questa si ripresenti in condizioni di stress durante l’età adulta. La possibilità di avere un sostegno e un aiuto farmacologico, oltre che sociale, è importantissimo per chi soffre di questa patologia”. Così Mario Picozza, presidente dell’Associazione nazionale dermatite atopica (Andrea), a margine della conferenza stampa ‘Dermatite atopica ed alopecia areata, due patologie, un solo farmaco. Via libera alla rimborsabilità’, organizzata oggi da Eli Lilly a Milano in occasione dell’approvazione al rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale di baricitinib, un inibitore orale delle Janus chinasi (Jak), indicato anche per l’alopecia areata.

“Le persone con dermatite atopica – spiega Picozza – sono persone che tendono a isolarsi, perché non solo è una malattia visibile che comporta problematiche che riguardano la socialità, la possibilità di lavorare, di essere utili agli altri, ma è anche una malattia dolorosa, che non consente, ad esempio, di fare sport. Le ripercussioni della dermatite atopica coinvolgono quindi tutte le sfere della vita del paziente, anche quella relazionale ed economica, poiché i pazienti devono sostenere spese ingenti per la continua cura della pelle”.

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Salute e Benessere

Intossicazioni da funghi, in Italia 10mila casi l’anno: quali i rischi e come evitarli

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Nausea, dolori addominali e allucinazioni tra sintomi, ma amanita falloide può portare a trapianto fegato o alla morte

Cesti di funghi - (Fotogramma)

Con l’inizio dell’autunno e l’arrivo delle prime piogge, parte la stagione della raccolta dei funghi. E con essa le segnalazioni di intossicazioni, da parte delle Asl, da Sud a Nord in tutta Italia: 9 casi a Catania lo scorso fine settimana, causate dal Chlorophyllum molybdites, la cosiddetta ‘falsa mazza di tamburo’, mentre numeri già importanti si registrano al Centro antiveleni Maugeri di Pavia, per citarne alcuni. Non a caso, nel trimestre settembre-ottobre-novembre si verifica il 90% dei casi di intossicazione da funghi, che portano in pronto soccorso circa 10mila italiani l’anno, tra casi lievi e più gravi, con sintomi che vanno da problemi gastrointestinali a complicanze neurologiche, fino alla morte. Quali precauzioni adottare per scongiurare rischi? E quali i sintomi ‘spia’ di un’intossicazione?

La prima regola da adottare in caso di dubbio sulle varietà raccolte è separare i funghi sospetti da quelli commestibili, in modo che le spore dei primi non contaminino anche gli altri funghi. Molte specie ‘buone’, purtroppo, hanno dei sosia ‘cattivi’ che possono confondere il raccoglitore non troppo esperto. E ancora: non raccogliere mai i funghi quando sono troppo piccoli o ancora chiusi. Oltre che vietato dalla legge, è il modo migliore per incappare in specie non commestibili. In ogni caso, i funghi devono essere sottoposti a una cottura di almeno 30-45 minuti che nella maggior parte dei casi neutralizza buona parte delle tossine. Ma per essere sempre certi di quel che si porta a casa, la regola d’oro è quella di far controllare i funghi dagli ispettori del Servizio di riconoscimento micrologico attivi nell Asl italiane: il servizio è gratuito e un elenco esaustivo degli ispettorati è disponibile nel sito del ministero della Salute.

Dunque, massima attenzione alle specie mortali: l’amanita falloide, ad esempio, contiene una potente sostanza in grado di danneggiare in modo irreversibile fegato e reni; nelle situazioni più gravi l’unica possibilità di sopravvivenza è legata al trapianto di fegato. Questo fungo è particolarmente insidioso perché può essere facilmente scambiato per altri funghi non tossici. Cuocerlo non riduce la pericolosità: le tossine epato-tossiche dell’amanita phalloides resistono infatti alle alte temperature, e quindi la cottura non protegge dall’intossicazione. Solo un micologo è in grado di distinguere le diverse specie, e spesso solo attraverso analisi sofisticate.

Ma come si manifesta l’intossicazione da funghi? Nella quasi totalità dei casi i primi sintomi sono gastroenterici come nausea, vomito, dolori addominali, diarrea profusa, tachicardia, confusione e allucinazioni. L’intervallo di tempo tra ingestione e comparsa dei sintomi è variabile e dipende dalla specie; tempi superiori alle 6-8 ore sono particolarmente sospetti e allarmanti. Nei casi più gravi, possono verificarsi danni agli organi vitali come il fegato e il rene, mettendo a rischio la vita.

In caso di intossicazione è opportuno chiamare il Centro antiveleni, riferire nei dettagli cosa è accaduto e seguire accuratamente le indicazioni che vengono date. Anche bambini e donne in gravidanza possono consumare funghi, purché vengano adottate tutte le precauzioni igieniche comuni alla maggior parte degli alimenti. Considerata la scarsa digeribilità – consigliano gli esperti – è buona norma non eccedere sia in quantità che in frequenza.

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Alopecia areata, Pieraccini (UniBo) ‘finalmente disponibile prima terapia’

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Rimborso di baricitinib 'una vittoria per pazienti adulti con forme gravi'

Alopecia areata, Pieraccini (UniBo) 'finalmente disponibile prima terapia'

“Finalmente si capisce che l’alopecia areata è una malattia e finalmente abbiamo il primo farmaco al mondo approvato per questa malattia, che è efficace, ben tollerato e disponibile in tantissimi centri ospedalieri di tutta Italia per i pazienti maggiorenni con forme gravi di alopecia areata. Poter oggi dare una risposta a questi pazienti, con una terapia efficace e con una completa contribuzione da parte del sistema sanitario nazionale, è una vittoria enorme per noi e per i nostri pazienti”. Lo ha detto Bianca Maria Pieraccini, direttore dell’Unità operativa complessa di Dermatologia dell’università degli Studi di Bologna, intervenendo oggi alla conferenza stampa ‘Dermatite atopica ed alopecia areata, due patologie, un solo farmaco. Via libera alla rimborsabilità’, organizzata da Eli Lilly a Milano.

Durante l’incontro, esperti e pazienti si sono confrontati sull’importanza di avere a disposizione, rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, un inibitore orale delle Janus chinasi (Jak), baricitinib, che è indicato anche per la dermatite atopica, ma che è il primo trattamento per l’alopecia areata. Questa patologia della pelle “colpisce circa una persona su mille e non fa distinzioni di età, nazionalità e genere – spiega Pieraccini – E’ una malattia autoimmune che comporta un’aggressione infiammatoria contro i follicoli piliferi e, quindi, può interessare i peli, i capelli, le ciglia e le sopracciglia. Nella maggior parte dei casi interessa il cuoio capelluto, con la comparsa rapida di una o più chiazze, completamente senza capelli, nel giro di qualche giorno”.

L’impatto sulla qualità della vita è importante. “Il paziente non riconosce più – sottolinea la specialista – poiché subisce lo shock di vedere ciuffi di capelli che cadono e chiazze bianche senza capelli sul suo cuoio capelluto. Inoltre, un 20-30% dei pazienti presenta le forme gravi e croniche, che comportano la perdita totale dei capelli e, spesso, anche di tutti i peli del corpo. L’assenza di ciglia provoca l’entrata del sudore negli occhi”, con molto fastidio e disagio anche sul piano psicologico. “Cambia la mimica facciale – aggiunge l’esperta – e la perdita dei capelli influisce sulla sicurezza dei pazienti”. Nei bambini, poi, l’alopecia areata può causare “bullismo. I piccoli pazienti sono infatti spesso vittime dei coetanei che, non capendo che l’assenza di capelli è causata da una malattia, li escludono. I bambini affetti da alopecia areata spesso non vogliono più fare sport, non si levano il cappello e non vogliono andare a scuola”.

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Dermatite atopica, Costanzo (Humanitas) ‘Jak inibitore cambia la vita’

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Sul rimborso di baricitinib: "Dopo la prima assunzione riduce il prurito e migliora eczema"

Antonio Costanzo, direttore dell'Unità operativa di Dermatologia Humanitas

“L’impatto sulla qualità della vita nei pazienti dalla possibilità di avere un farmaco efficace innovativo e rimborsabile è alto. Abbiamo adesso a disposizione il baricitinib, un farmaco rimborsato per il trattamento della dermatite atopica moderata e severa che viene utilizzato in caso di fallimento di una terapia convenzionale”. Così Antonio Costanzo, direttore dell’Unità operativa di Dermatologia Humanitas (Milano), intervenendo alla conferenza stampa ‘Dermatite atopica ed alopecia areata, due patologie, un solo farmaco. Via libera alla rimborsabilità’, promossa da Eli Lilly oggi a Milano per spiegare l’importanza di avere finalmente a disposizione, per le due patologie della pelle, l’inbitore orale delle Janus chinasi (Jak), ovvero gli enzimi coinvolti nei processi immunitari e infiammatori.

“L’attività di questo farmaco è molto veloce – sottolinea Costanzo – ià dopo la prima assunzione c’è una riduzione del prurito, nelle prime 3-4 ore, che resta costante e si mantiene nel tempo, fino a quando si prende di nuovo il farmaco. Da assumersi per via orale, al dosaggio di 4 milligrammi al giorno, non solo riduce il prurito, ma permette un progressivo miglioramento dell’eczema, in particolare in quei pazienti che assieme al baricitinib continuano a utilizzare gli emollienti e le creme antinfiammatorie al bisogno”.

La dermatite atopica, ricorda lo specialista, “è una malattia infiammatoria cronica della pelle che ha due caratteristiche fondamentali: la presenza di eczema anche su aree visibili della pelle, come il viso e le mani, e il prurito. Colpisce circa l’8% degli adulti italiani, nei vari gradi di severità, e il 30% dei bambini. Questi ultimi possono sviluppare la malattia molto precocemente, per poi avere una remissione e, talvolta, avere ricadute in età adulta. Nelle sue forme moderate e severe la malattia ha un forte impatto sulla qualità della vita del paziente. Eczema e prurito sono i fattori che condizionano profondamente la qualità della vita dei pazienti. Il prurito – descrive Costanzo – è così forte, intenso e costante che può interferire anche con il sonno. La metà dei pazienti affetti da dermatite atopica moderata o severa riferisce di avere almeno 5 notti disturbate a settimana”, con pesanti ripercussioni sulle “normali attività quotidiane. Il paziente si sveglia già stanco e la maggior parte delle volte neanche si accorge di essersi grattato tutta la notte: lo capisce solo perchè trova tracce di sangue sul cuscino o sulle lenzuola”.

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Leucemia mieloide cronica e sospensione cure, studio fa chiarezza

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Gli scienziati di Milano-Bicocca e San Gerardo Monza fanno luce sul rischio di progressione della malattia

Un laboratorio

Nei malati di leucemia mieloide cronica (Lmc) con risposta ottimale alla terapia, la progressione del tumore rappresenta un evento molto raro, ma possibile (compreso tra un caso su 10mila e uno su mille), e tuttavia non legato alla sospensione del trattamento. A fare chiarezza su un punto ancora controverso è uno studio italiano pubblicato sull”American Journal of Hematology’. Il lavoro, coordinato da Carlo Gambacorti Passerini, professore di Ematologia all’università Milano-Bicocca e direttore Uoc Ematologia della Fondazione Irccs San Gerardo dei Tintori di Monza, è iniziato nel 2017 e ha coinvolto 906 pazienti Lmc seguiti in centri italiani, francesi, tedeschi, spagnoli e canadesi. I risultati vengono diffusi oggi da Bicocca e San Gerardo, alla vigilia della Giornata mondiale della leucemia mieloide cronica.

La Lmc – ricordano ateneo e Irccs – è una forma di leucemia che, grazie all’avvento di farmaci specifici (inibitori di tirosino-chinasi), è passata da una aspettativa di vita di 2-3 anni a una identica a quella della popolazione generale. Questo ha determinato un continuo aumento del numero dei pazienti che convivono con la malattia, stimato in circa 2 milioni nei Paesi sviluppati. In presenza di una risposta ottimale ai trattamenti, definita come almeno 4 anni di terapia e presenza di un residuo minimo di cellule leucemiche (meno di una su 10mila), è usuale proporre al paziente di sospendere la terapia. E’ noto che circa la metà deve poi riprenderla a causa di una recidiva di Lmc, ma la pratica della sospensione è comunque sicura perché la ripresa del trattamento porta a una nuova remissione praticamente in tutti i pazienti. In letteratura, tuttavia, sono stati descritti alcuni casi in cui la sospensione della terapia si è associata a una progressione della Lmc, alla sua evoluzione in una leucemia acuta e a volte anche alla morte. Queste descrizioni di singoli casi, però, non permettono di quantificare il rischio di questo evento.

Questo è il presupposto da cui sono partiti i ricercatori di Bicocca e San Gerardo. I pazienti arruolati nello studio dovevano essere candidabili alla sospensione della terapia e sono stati seguiti indipendentemente dalla loro decisione se sospenderla o no. Circa il 40% non ha sospeso la terapia, mentre il 60% lo ha fatto. Dopo un tempo di monitoraggio mediano superiore a 5 anni e oltre 5mila anni-persona di follow-up disponibili, è stato registrato un unico caso di progressione di malattia in un paziente tedesco di 45 anni: una frequenza di circa un caso su mille, che per di più si è verificato nel gruppo di pazienti che non aveva sospeso la terapia. Da qui le conclusioni degli autori. Questi risultati, concludono, indicano inoltre la grande importanza dell’assunzione regolare della terapia prima della sua sospensione, e di un monitoraggio ottimale da parte del medico dopo la sospensione.

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Tumori: dieta con fibre ‘potenzia’ risposta immunitaria, a Milano test su mieloma

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A Milano il test sul mieloma

I kiwi

Secondo alcune stime, oltre il 60% delle cellule immunitarie del corpo ‘abitano’ nell’intestino. Tanto che la comunità scientifica si è chiesta: i piatti che si portano in tavola possono influire sulla risposta dell’organismo ai trattamenti antitumorali, compresa l’immunoterapia? Le evidenze che sembrano suggerirlo sono diventate di recente sempre più numerose. Mele, pere, prugne e kiwi; ma anche noci, pistacchi e arachidi. E fagioli, ceci, lenticchie, carote, melanzane, carciofi, cereali e addirittura il cioccolato fondente: sono tutti alimenti ricchi di fibre in grado di ‘nutrire’ il microbioma – l’insieme dei microrganismi ospitati nell’intestino – e di conseguenza, ipotizzano gli esperti, possono aumentare l’efficacia dell’immunoterapia.

Sono in corso diversi studi in tutto il mondo che puntano a mostrare un legame tra una dieta ricca di fibre e una maggiore efficacia dell’immunoterapia. Ed entro il prossimo anno è in programma all’Irccs ospedale San Raffaele di Milano un nuovo trial clinico che prevede la somministrazione di una dieta controllata ricca di fibre nei pazienti con mieloma indolente. Sulle ultime novità dell’immunoterapia dei tumori e su come questa possa essere modulata dal microbioma intestinale si fa il punto a Milano in occasione di Cicon23, l’International Cancer Immunotherapy Conference che ha richiamato oltre mille scienziati da più di 38 Paesi. L’evento, che proseguirà fino a sabato 23 settembre, è organizzato da società scientifiche internazionali insieme al Network italiano per la bioterapia dei tumori (Nibit).

Fra le ricerche in corso, riferiscono gli esperti, ci sono studi sui trapianti fecali e lavori che hanno come obiettivo quello di confermare gli effetti che gli acidi grassi esercitano sulla risposta immunitaria contro i tumori. “L’immunoterapia ha rivoluzionato la cura di molti tumori – spiega Pier Francesco Ferrucci, direttore dell’Unità di bioterapia dei tumori all’Istituto europeo di oncologia (Ieo) e presidente del Nibit – Tuttavia, non tutti i pazienti rispondono allo stesso modo. Da qui l’ipotesi, che ormai è diventata una certezza, che la composizione del microbioma intestinale di un paziente influenzi il successo del trattamento immunoterapico. In sostanza, i pazienti che ospitano determinati batteri intestinali sembrano rispondere meglio all’immunoterapia rispetto ai pazienti che ne sono privi”. Del resto, fa notare Antonio Sica, segretario del Nibit, direttore di Patologia generale all’università del Piemonte Orientale e del Laboratorio di patologia e immunologia molecolare all’Irccs Humanitas di Rozzano (Milano), “se facciamo il calcolo numerico delle nostre cellule e dei batteri che convivono con noi loro sono 10 volte di più e questa simbiosi condiziona l’omeostasi dei tessuti e anche il metabolismo”.

“Oggi – illustra Sica – c’è una grossa attenzione per esempio sulla componente del microbiota che colonizza le mucose, interfaccia fra il nostro organismo e l’ambiente e prima barriera di difesa. E c’è attenzione sull’impatto delle disbiosi”, alterazioni della flora batterica “che vengono associate anche con la progressione di malattia. Al riguardo c’è molto interesse sugli approcci alimentari che possono permettere di restaurarla”.

Fra le ipotesi ritenute interessanti dagli esperti c’è appunto quella, basata su recenti evidenze scientifiche, secondo cui somministrare ai pazienti una dieta ricca di fibre potrebbe aumentare le probabilità che il trattamento contro il cancro sia più efficace. “Che il microbioma sia una parte cruciale del nostro sistema immunitario lo sappiamo ormai da tempo – precisa Vincenzo Bronte, direttore scientifico dell’Istituto oncologico veneto e next-president di Nibit – Ma solo di recente abbiamo accumulato sufficienti evidenze secondo le quali questi microbi possono essere ‘modificati’ per influenzare positivamente l’esito dei trattamenti contro il cancro, compresa l’immunoterapia”.

Alcuni gruppi di ricerca stanno cercando di superare la resistenza all’immunoterapia effettuando trapianti fecali: i microbi intestinali ‘buoni’ vengono prelevati da campioni di feci di pazienti che hanno risposto bene ai farmaci per poi essere trapiantati tramite colonscopia a un altro paziente. Un’altra strada è quella di disegnare diete ad hoc in grado di modificare il microbiota per renderlo ‘alleato’ dell’immunoterapia. “A questo proposito stiamo pianificando un trial clinico su pazienti affetti da mieloma indolente – afferma Matteo Bellone, responsabile dell’Unità di Immunologia cellulare del San Raffaele di Milano, tra gli organizzatori di Cicon23 – Ai pazienti proporremo una dieta controllata ricca di fibre con l’obiettivo di comprenderne gli effetti, non solo sulla composizione del microbioma intestinale, ma anche sulle modificazioni metaboliche dell’organismo, sul decorso e sulla prognosi della malattia”.

L’evento di Milano sarà anche l’occasione per parlare anche di immunometabolismo. “E’ noto che tutte le cellule necessitano di energia per svolgere le loro funzioni vitali e che tale capacità è sotto il controllo di vie metaboliche – ricorda Sica – In questo scenario, recenti evidenze hanno dimostrato che i tumori attuano una competizione metabolica con le cellule immunitarie, deprivandole di nutrienti essenziali per la produzione di energia e instaurando così una condizione di immunosoppressione che favorisce la crescita tumorale e l’insorgenza di meccanismi di resistenza alle terapie”. Nuovi studi mirano quindi a comprendere i meccanismi che governano l’immunometabolismo dei pazienti al fine di ripristinare risposte immunitarie efficaci. In questo contesto, in un lavoro pubblicato su ‘Cell Metabolism’, che sarà illustrato da Teresa Manzo dell’Ieo, si dimostrano i potenti effetti che gli acidi grassi esercitano sulla risposta immunitaria contro i tumori.

Ma c’è di mezzo anche il colesterolo. “Recenti studi dimostrano come l’alterato metabolismo del colesterolo e dei lipidi sia in grado di influenzare la funzionalità delle cellule immunitarie – riporta Vincenzo Russo, professore associato di Patologia generale alla Facoltà di Medicina dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, tra gli organizzatori di Cicon3 – Con Paolo Ascierto, primario oncologo dell’Istituto nazionale dei tumori di Napoli, presenteremo dei risultati clinici sulla maggior efficacia dell’immunoterapia in combinazione con trattamenti bloccanti la sintesi del colesterolo”.

Al Cicon23 prenderà parte anche Arlene Sharpe, scienziata dell’università di Harvard, impegnata nello studio dei meccanismi che consentono al microbiota intestinale di influire sulla risposta immunitaria ai checkpoint immunitari. “Un’intera sessione sarà dedicata a come l’alimentazione può influire sul sistema immunitario e la capacità del paziente di rispondere, non solo all’immunoterapia, ma anche ai trattamenti più tradizionali come la chemio”, conclude Bellone. Ma “è importante che l’alimentazione e l’utilizzo di probiotici siano suggeriti da esperti non solo di nutrizione ma anche della malattia in questione. Abbiamo purtroppo assistito a un peggioramento della malattia quando i pazienti non cercavano il parere dell’esperto. Dunque, sì all’alimentazione personalizzata, ma sotto controllo dell’oncologo di fiducia”.

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Salute e Benessere

Dermatite atopica e alopecia areata, rimborso per Jak inibitore orale

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Bariticinib in fascia H per 2 patologie della pelle con forte impatto su qualità di vita

Dermatite atopica e alopecia areata, rimborso per Jak inibitore orale

Un unico farmaco – bariticinib, un inibitore orale delle Janus chinasi (Jak), enzimi coinvolti nei processi immunitari ed infiammatori – è ora rimborsato, in fascia H, per i pazienti candidati a una terapia sistemica affetti da alopecia areata severa e da dermatite atopica severa, in associazione a corticosteroide topico. Il via libera in Italia alla rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale (Ssn) – spiega Eli Lilly in una nota diffusa oggi – arriva dopo l’approvazione del 2020 da parte dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema) per la dermatite atopica moderata e severa e nel 2022 per l’alopecia areata severa, patologia per la quale è in assoluto il primo farmaco autorizzato. Sulle nuove prospettive di cura di queste patologie della pelle si è parlato oggi a Milano nel corso di un evento.

La dermatite atopica e l’alopecia areata sono due malattie cutanee, rispettivamente di tipo infiammatorio e autoimmune, che hanno pesanti ricadute sulla qualità della vita di chi ne è affetto: disturbi del sonno, depressione, ansia, difficoltà a socializzare con conseguenze negative anche sulla vita lavorativa. Associate erroneamente a un disagio prettamente estetico – continua la nota – in Italia colpiscono circa 117.966 persone. La dermatite atopica interessa dal 5-8% della popolazione, soprattutto le donne di età compresa tra i 20 e i 40 anni, mentre alopecia areata si manifesta nello 0,2% degli italiani, può comparire a qualsiasi età, senza distinzione di genere e determina una perdita, a chiazze o totale, di capelli, ciglia, sopracciglia.

“Quando è nato il mio primo figlio – afferma Mario Picozza, presidente Associazione nazionale dermatite atopica (Andea) e FederAsmallergie – non potevo nutrirlo né tenerlo in braccio a causa delle lesioni sulle braccia e del prurito che non mi faceva dormire. Chi soffre di dermatite atopica non ha un problema estetico, ma una patologia cronica che spesso toglie il sonno, che compromette la vita intima e sociale, che apre a discriminazioni se in presenza di lesioni visibili. Avere nuove opzioni terapeutiche è cruciale proprio per consentire al paziente di recuperare quelle dimensioni di vita che la malattia gli ha tolto o fortemente compromesso”.

Le persone con dermatite atopica “affrontano quotidianamente disturbi legati al prurito che impatta per il 70% di loro sulla qualità di vita con gravi ripercussioni sulla vita sociale e relazionale – aggiunge Antonio Costanzo, direttore dell’Unità operativa di Dermatologia- Humanitas (Milano) – Bariticinib è un farmaco già molto utilizzato nel trattamento dell’artrite reumatoide, con un profilo di sicurezza ben caratterizzato, e che ha poche interazioni farmacologiche. Sul piano terapeutico, come dimostrato dagli studi Breeze, ha il vantaggio di agire rapidamente calmando il prurito e agendo anche sulle lesioni della pelle. La rimborsabilità è un’ottima notizia anche perché sono ancora poche le terapie sistemiche”.

La caduta dei capelli, nelle persone con alopecia areata, è una delle principali cause di disagio psicologico con conseguenti ansia, paura, preoccupazione, depressione, fino all’aumento del rischio suicidario. Ma c’è di più. “Ci sono bambini vittime di bullismo – racconta Claudia Cassia, presidente Associazione italiana pazienti alopecia and friends (Aipaf) OdV – come una bimba che ha assistito all’uscita di tutti gli altri coetanei dalla piscina in cui nuotava, persone che perdono il lavoro, che vengono allontanate dai luoghi pubblici, donne abbandonate all’altare. Questa nuova terapia – continua – rappresenta per noi un traguardo importantissimo anche nel cammino verso il riconoscimento dell’alopecia areata come malattia cronica e, quindi, verso una nuova presa in carico e gestione dei pazienti”. L’alopecia areata “è una patologia di cui si parla poco – osserva Bianca Maria Piraccini, direttore della Uoc Dermatologia Irccs Policlinico di Sant’Orsola Università degli Sudi di Bologna – quasi fosse una colpa o qualcosa di contagioso, ma ha gravi ripercussioni sulla stabilità emotiva, la vita privata e sociale di chi ne è colpito. La rimborsabilità per Bariticinib è un grande passo avanti perché è stato il primo farmaco approvato per il trattamento di questa patologia e gli studi Brave ne hanno ampiamente dimostrato sicurezza ed efficacia”.

“Siamo orgogliosi di poter annunciare la disponibilità di questa importante soluzione terapeutica per i pazienti italiani che soffrono di dermatite atopica e alopecia areata – sottolinea Veronica Rogai, Associate VP-Medical Italy Hub Lilly – Baricitinib rappresenta un’ulteriore conferma del nostro impegno nei confronti delle malattie dermatologiche e dell’impegno più ampio di Lilly a rispondere ai bisogni ancora insoddisfatti dei pazienti, migliorando la vita delle persone.”

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