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Malattie rare, un problema soprattutto al femminile. In un...

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Malattie rare, un problema soprattutto al femminile. In un libro bianco i dati e le storie

Le donne sono la maggioranza delle persone con una malattia rara, e la quasi totalità di coloro che si prendono cura di un malato. Una predominanza al femminile che però più che fonte di orgoglio è causa di problemi economici, personali e psicologici. L’occasione per parlarne è stato, oggi a Roma al Senato, l’evento conclusivo della campagna ‘Women in Rare – la centralità delle donne nelle malattie’, durante il quale è stato presentato ‘Donne e malattie rare: impatto sulla vita e aspettative per il futuro’, il primo libro bianco italiano, con informazioni, indagini qualitative e testimonianze di pazienti e caregiver.

Un’iniziativa ideata e promossa da Alexion, AstraZeneca Rare Disease insieme a Uniamo (Federazione italiana malattie rare) con la partecipazione di Fondazione Onda Ets, EngageMinds Hun e Altems dell’Università Cattolica.

L’obiettivo del progetto, spiega la presidente di Uniamo Annalisa Scopinaro, “è sollecitare azioni che possano tutelare le donne caregiver nella loro attività di cura quotidiana, che spesso le conduce a lasciare il lavoro, e le pazienti con malattia rara riguardo alla medicina di precisione e alla prevenzione delle altre patologie. È necessario aiutare le prime con una legge specifica che si occupi del caregiving, e le seconde offrendo assistenza e consulenza”.

In Italia – spiega una nota – sono più di 2 milioni le donne che hanno a che fare quotidianamente con una malattia rara, più di 1 milione come pazienti e altrettante come caregiver di un familiare, molto spesso un figlio o una figlia.

Cosa sono le malattie rare

In Europa le malattie sono considerate rare quando colpiscono 1 persona su 2mila. Il che significa che messe tutte insieme non si tratta di uno sparuto gruppo di malati, tutt’altro: secondo i dati della Commissione Europea, nell’UE sono 36 milioni le persone affette da una di queste patologie. Mentre in Italia, spiega l’Istituto superiore di sanità, si stima che ci siano oltre 1 milione di pazienti.

Il 72% delle patologie rare ha un’origine genetica, mentre le altre sono causate da infezioni, allergie e cause ambientali, oppure si tratta di tumori rari. Il 70% esordisce nella prima infanzia. Ad oggi se ne conoscono tra le 7 e le 8mila.

L’impatto delle malattie rare sulle donne

Per valutare l’impatto delle malattie rare, occorre considerare alcune peculiarità, come spiega Guendalina Graffigna, professoressa ordinaria di Psicologia dei consumi e della salute all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona e direttrice del centro di Ricerca EngageMinds Hub che ha curato l’indagine: “Esiste una prevalenza di genere femminile del 52,4%” che “sono 1 milione e 48mila. Inoltre il carico assistenziale dei pazienti è nel 90% dei casi assorbito da loro. Basti pensare che 1 milione e 400mila pazienti sono in età pediatrica, e 2 su 5 oggi hanno meno di 18 anni: a prendersi cura di loro sono molto spesso le madri, che in numerosi casi vivono la riduzione delle proprie attività lavorative, ludiche e relazionali, in un’identificazione totale con la malattia e con l’incarico assistenziale che ne consegue. Purtroppo, molto spesso, le figure femminili sono ritenute le più adatte a occuparsi di un familiare malato e risentono di pressioni legate al ruolo di cura, che le porta a rinunciare a moltissime delle attività sociali”.

Le donne pagano dunque costi personali e familiari molto elevati, come evidenzia l’indagine e come sottolinea Giuseppe Arbia, direttore di Altems: ”Il 42% delle donne affette da malattia rara dichiara che la propria situazione economica è cambiata a seguito della diagnosi, con un peggioramento in 8 casi su 10”. E con un aggravio anche dal punto di vista psicologico. Le spese addizionali sono dovute a:

• trattamenti medici (77%), incluse le spese legate a viaggi per poter accedere a terapie e controlli (23%)
• gestione della casa e della famiglia (19%)
• Inoltre le donne con malattia rara perdono in media 45,46 giorni di lavoro all’anno, ovvero 3,78 giorni al mese.

La situazione economica peggiora anche quando la diagnosi è relativa ai propri figli, come dichiara il 65% delle caregiver. E anche in questo caso, le spese addizionali sono dovute a:

• trattamenti medici (69%), incluse le spese legate a viaggi per poter accedere a terapie e controlli (22%)
• gestione della casa e della famiglia (28%)
• in media, i giorni di lavoro persi dalle caregiver sono 43,67 all’anno, 3,64 al mese

Un riflettore sulla condizione di pazienti e caregiver

Riferendosi ai risultati dell’indagine, Nicoletta Orthmann, direttrice medico-scientifica di Fondazione Onda Et, afferma: “La maggior parte delle donne intervistate ci ha raccontato che la patologia ha un’influenza negativa anche sulla percezione di sé e della propria femminilità e di sentirsi spesso in imbarazzo a causa delle limitazioni fisiche che comporta. Lo stesso avviene per la fertilità, un tema delicato per molte di loro. Con questa campagna vogliamo accendere i riflettori sulla condizione di queste donne, per chiedere interventi alle Istituzioni che vertano principalmente sull’offerta di supporto psicologico, sulla creazione di linee guida specifiche e percorsi diagnostici e su un’implementazione dei servizi sanitari territoriali con attenzione alla questione di genere”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Guardare in rete, comprare in negozio: le abitudini di...

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Nel panorama del consumo contemporaneo, caratterizzato da una crescente digitalizzazione e dall’inarrestabile ascesa del commercio online, emerge una tendenza peculiare che sfida le previsioni più ortodosse: l’affermazione del negozio fisico come punto di riferimento per gli acquisti. Nonostante la sempre maggiore presenza di piattaforme digitali e la comodità degli acquisti online, i consumatori europei sembrano mantenere un forte legame con l’esperienza offerta dai negozi tradizionali.

In questo contesto mutevole, il rapporto “The State of Shopping 2024”, condotto da ShopFully e Offerista Group, emerge come una radiografia accurata delle abitudini di acquisto dei consumatori in Europa, offrendo preziosi spunti di riflessione su come il settore retail stia affrontando le sfide dell’era digitale.

La situazione economica e i cambiamenti nei consumi

Il 2023 è stato un anno caratterizzato da turbolenze economiche in Europa, con l’aumento dell’inflazione che ha inciso pesantemente sui consumi. Questo scenario ha spinto i consumatori a cercare strategie di risparmio e a rivedere le proprie abitudini di spesa, concentrando gli acquisti sulle necessità primarie e limitando le spese superflue.

In Italia, il potere d’acquisto è diminuito significativamente, con il 25% della popolazione che si trova in difficoltà economica. Questo dato rappresenta un aumento del 15% rispetto all’inizio del 2022, evidenziando una situazione di crescente precarietà economica per molte famiglie italiane.

E le prospettive per il 2024 non sembrano essere particolarmente rosee agli occhi dei consumatori europei. Secondo il sondaggio, il 58% ritiene che il proprio potere d’acquisto non migliorerà nel corso dell’anno, mentre solo il 33% si dichiara ottimista e afferma di continuare comunque a risparmiare.

In questo contesto di incertezza economica, emerge chiaramente la necessità per i consumatori di adottare strategie di risparmio e di cercare convenienza nei propri acquisti.

Il ruolo della sostenibilità

Un altro aspetto chiave emerso dal sondaggio riguarda l’importanza crescente attribuita alla sostenibilità da parte dei consumatori europei. Sebbene il 53% degli italiani intervistati ritenga molto importante che i prodotti che acquista siano sostenibili, solo il 40% è disposto a pagare un prezzo più elevato per questo tipo di prodotti.

Questa discrepanza tra l’importanza attribuita alla sostenibilità e la disponibilità a investire in prodotti sostenibili riflette una delle sfide principali per il settore retail nel prossimo futuro: trovare un equilibrio tra offrire prodotti sostenibili e mantenere prezzi competitivi per soddisfare le esigenze dei consumatori.

Il ritorno al negozio fisico

Nonostante la crescente digitalizzazione del processo di acquisto, il negozio fisico rimane il preferito dai consumatori europei, con il 92% che lo predilige per l’esperienza sensoriale e la possibilità di toccare i prodotti prima dell’acquisto. In Italia è il 95% degli acquirenti che preferisce i negozi fisici, con una netta preferenza per categorie specifiche di prodotti come alimentari e bevande, cura del corpo e della casa e arredamento.

Tuttavia, nonostante la predilezione per il negozio fisico, il digitale gioca un ruolo sempre più importante nella fase di ricerca di informazioni pre-acquisto. L’83% dei consumatori europei utilizza canali digitali come i volantini online e i siti dei brand per informarsi sui prodotti e sulle promozioni prima di recarsi in negozio.

Le promozioni continuano a giocare un ruolo cruciale nel processo di acquisto dei consumatori europei, con il 94% che le considera un fattore determinante nella scelta di acquistare un prodotto. In Italia, la percentuale sale addirittura al 98%, evidenziando la grande importanza attribuita alle promozioni nella cultura degli acquisti italiani.

In un contesto economico in cui la convenienza è diventata una priorità per molti consumatori, le promozioni rappresentano un’opportunità per i retailer di attirare clienti e di incentivare gli acquisti, anche di prodotti nuovi o meno conosciuti.

Con il 2024 che si preannuncia come un anno di sfide economiche, il settore retail si trova a navigare tra tradizione e innovazione, con l’obiettivo di soddisfare le esigenze di un consumatore sempre più esigente e informato.

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Il forno di Vincenzo, l’iniziativa che sforna pane e...

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Vincenzo sforna il pane per la sua comunità di Eboli, in provincia di Salerno, ben due volte alla settimana. Lo fa ufficialmente e in modo permanente dal 3 dicembre 2023 quando, grazie all’aiuto di una rete di cittadini e associazioni, è riuscito ad ottenere il suo primo forno. Chiavi in mano e olio di gomito, Vincenzo Bardascino, 31enne è il primo ragazzo in Italia con la sindrome X Fragile che avvia un attività da protagonista, non si è fermato davanti a quella che poteva essere una problematica legata a una condizione di disabilità, ma ha deciso di interagire con le altre persone nel modo migliore che conosceva: impastando e condividendo il suo pane.

Esempio di dignità e autodeterminazione, con la sua famiglia e la comunità del centro antico di Eboli, Vincenzo è orgoglioso del lavoro che svolge perché è la sua passione e può condividerla con altre persone. Il progetto nasce nella primavera del 2017: “La farina e il forno di Vincenzo”, promosso dall’Associazione omonima, intende dare continuità all’impegno di tanti sostenitori locali dell’iniziativa, quali il CSPDM (Centro Studi Pedagogia della Mediazione), la Cooperativa Sociale Stalker e il Ristorante VicoRua, insieme all’Agriturismo Residenza Rurale Incartata di Calvanico, la Cooperativa Sociale Terra di Resilienza di Morigerati e tanti altri ancora.

Scopriamo di più della sua storia.

Foto di Pio Peruzzini a Vincenzo Bardascino

Il forno di Vincenzo

Il ‘forno di Vincenzo’ è una sperimentazione sociale che rimodula i criteri dell’attuale welfare assistenziale applicando di fatto un modello di welfare rivoluzionario che riconosce alle persone, attraverso il lavoro, piena cittadinanza. Modello di protagonismo attivo delle persone con disabilità, il progetto di Vincenzo nasce a Eboli, nel centro storico della città, e ha come unico obiettivo quello di “sfornare un pane buono, sano, etico e ricco di significato”. Il lavoro di Vincenzo e le relazioni sociali con la sua comunità passano attraverso il prodotto che produce rispettando valori etici e solidali.

La sindrome X Fragile, tra le più frequenti cause di disabilità intellettiva ereditaria, non ha fermato Vincenzo e, con lui, neanche il padre, Vito, ideatore e primo sostenitore del progetto. A ottobre 2019 l’allora Sindaco di Eboli, Massimo Cariello, ha consegnato le chiavi dei locali comunali messi a disposizione dall’Amministrazione per l’attività di panificazione, durante una cerimonia presso la Biblioteca Comunale Simone Augelluzzi, nel cuore del centro storico della città salernitana. Le spese di ristrutturazione dei locali sono state totalmente a carico dell’associazione il forno di Vincenzo.

“Sono Vincenzo Bardascino e la prima volta che ho fatto il pane ero un bambino – spiega il giovane di Eboli -, impastavo a mano con i nonni in campagna. Ho frequentato l’Istituto Alberghiero di Castelnuovo Cilento (Sa), dove ho imparato a cucinare ricette rustiche e dolci. Ho imparato dai convegni di Giampiero Griffo e Salvatore Nocera che è importantissimo l’empowerment per le persone con disabilità ed ho deciso di realizzare il “Forno Sociale”. Mi sono emozionato tantissimo quando nel 2019 il Sindaco di Eboli mi ha consegnato le chiavi del locale che il Comune di Eboli mi ha assegnato. Per 7 anni dal 2016 al 2023 ho fatto il pane ad Eboli presso Vico Rua e a Calvanico all’Incartata finalmente il 3 dicembre 2023 con il Sindaco Mario Conte abbiamo inaugurato l’apertura del forno sociale di comunità”.

Foto di Pio Peruzzini a Vincenzo Bardascino

L’associazione il Forno di Vincenzo

Grazie a questa esperienza è nata l’Associazione Il Forno di Vincenzo e a raccontarci la storia del 31enne ebolitano è la presidentessa Scolastica Aresu: “Vincenzo nasce in una famiglia in cui erano vive tradizioni come la panificazione e l’agricoltura. Poi ha frequentato un istituto alberghiero alle superiori e ad un certo punto ha espresso il desiderio di voler fare pane. Così inizia il percorso, coltivando grano Senatore Cappelli che poi trasforma in farina e infine, diviene pane. Le due esperienze lavorative importanti con Michele Sica e Carmelo Vignes hanno fatto sì che imparasse al meglio questo lavoro. Quando ha capito che il pane poteva essere un facilitatore sano e giusto di relazioni sociali ha espresso la sua volontà di produrlo per la comunità”.

E l’Associazione? “Nel 2018 – continua la presidentessa – abbiamo deciso di far convergere queste relazioni e creare un progetto con quest’associazione. Grazie all’associazione abbiamo instaurato relazioni tra enti pubblici e privati che oggi ci permettono di tenere aperto il forno. Il comune di Eboli ha dato in concessione un locale che noi abbiamo ristrutturato a nostre spese, grazie al contribuito ed al sostegno di tantissime persone, dove settimanalmente Vincenzo oggi sforna il pane. Il valore che vogliamo trasmettere è quello dell’autodeterminazione. Vincenzo aveva il desiderio individuale di realizzarsi nella sua comunità, come cittadino, protagonista delle sue scelte. Questo progetto diventa esperienza di welfare generativo che ha un impatto sulla comunità. Vincenzo ne è diventato il facilitatore di interessi che rende il centro storico di Eboli attivo: con la Caritas della città abbiamo realizzato il “pane sospeso” per le persone che si trovano in condizione di fragilità, ad esempio. E oggi Vincenzo dice che vuole insegnare a fare il pane ad altre persone; dona il lievito a chi è interessato”.

I progetti futuri

“Come associazione stiamo cercando di mettere a disposizione sia l’esperienza di Vincenzo sia lo spazio del forno per altri ragazzi con o senza fragilità – conclude Scolastica Aresu in merito ai progetti futuri -. Prossimamente realizzeremo dei protocolli d’intesa con alcuni enti del territorio per aprire il forno anche ad altre realtà e, intanto, già un altro ragazzo con autismo sta imparando da Vincenzo a fare il pane”.

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Violenza ostetrica e dove trovarla: il fenomeno in Italia e...

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Una piaga “sistemica”, una “violenza di genere istituzionalizzata”. Così Magali Gay-Berthomieu davanti alla commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere del Parlamento europeo giovedì 18 aprile, ha definito la violenza ostetrica e ginecologica nell’Unione europea. La causa principale: “abitudini radicate nei sistemi e nelle società”. Insieme alla collega Silvia Brunello, specialista in questioni di genere della società di consulenza ICF, hanno presentato ai deputati uno studio condotto nei 27 Stati membri, grazie al quale è stato possibile identificare la dimensione del problema e le sfide da affrontare per il futuro.

A partire dal quadro giuridico attualmente applicabile a questa forma di violenza, insieme agli sviluppi politici attualmente in corso, sono state raccolte anche le iniziative portate avanti a livello nazionale per migliorare la comprensione e prevenzione di questa forma di violenza di genere da parte dei professionisti dell’assistenza sanitaria o della società civile. Abuso psicologico, fisico e sessuale durante le consultazioni ostetriche e ginecologiche e l’assenza di supporti in caso di denuncia, oltre alla mancanza di un quadro giuridico uniforme e alla necessità di rendere egualitario il lavoro delle donne nella sanità. Sono questi gli spunti emersi dalla presentazione dello studio. Vediamo insieme una panoramica del fenomeno.

Lo studio

“Le conseguenze della violenza ostetrica e ginecologica possono essere di grave impatto sulla salute fisica, mentale e sociale delle donne – si legge nello studio -. In quanto fenomeno sociale e sistemico, la violenza ostetrica e ginecologica si colloca al primo posto e rappresenta il punto di convergenza di due crisi strutturali: la discriminazione basata sul genere e l’approccio dei sistemi e delle istituzioni sanitarie. Comprendere il fenomeno in una visione sistemica è necessario non solo per intenderlo come una forma di violenza di genere, ma anche riconoscendo che questi atti non sono necessariamente intenzionali e che sono il prodotto di problemi strutturali riguardanti i sistemi sanitari”.

In assenza di definizioni comuni e processi di raccolta di dati standardizzati, è emersa una prima mancanza di dati comparativi sulla violenza ostetrica e ginecologica nell’Ue. A causa di una combinazione di fattori e caratteristiche identitarie (come quelli sociali status, orientamento sessuale, età o deviazione dalle norme di genere dominanti), i diversi Stati membri hanno delle strutture organizzative dei sistemi sanitari che possono incidere sulla prevalenza di alcune forme di violenza. A esacerbare il quadro è stata anche l’improvvisa riorganizzazione delle cure relative alle restrizioni dovute alla pandemia da Covid-19. La pandemia ha quindi avuto una notevole influenza nel rivelare la prevalenza e gravità della violenza ostetrica e ginecologica, e ha contribuito a mettere in luce la situazione.

Basandosi su prove quantitative e qualitative concrete provenienti da dati disponibili, studi e analisi provenienti da varie fonti pubbliche (relazioni politiche dell’UE e degli Stati membri, articoli accademici, documenti delle organizzazioni della società civile, organizzazioni professionali, ecc.), la ricerca condotta nei 27 Stati membri dell’UE ha innanzitutto cercato di valutare il livello di consapevolezza del problema e il modo in cui è stato inquadrato giuridicamente nei diversi Stati membri. Il gruppo di ricerca ha effettuato una serie di interviste con le parti interessate dell’UE e internazionali per raccogliere informazioni sull’ampio contesto politico e sulle questioni in gioco in relazione alla violenza ostetrica e ginecologica. Successivamente, sono stati raccolti ed esaminati dati e informazioni dell’UE, inclusi documenti legali e politici, pubblicazioni accademiche e pubblicazioni emesse da attori non istituzionali, come organizzazioni della società civile e associazioni e federazioni paneuropee.

La dimensione del fenomeno

Sulla base dei risultati di questa ricerca, sono stati individuati numerosi sviluppi interessanti. In sei Stati membri (Belgio, Spagna, Croazia, Polonia, Portogallo, Svezia) in cui sono state svolte ulteriori ricerche, sono presenti dettagli sulla legislazione, le politiche o le iniziative pertinenti sviluppate per migliorare la risposta a questa diffusa forma di violenza di genere. Vediamo alcuni esempi.

In Spagna, ad esempio, su un campione di 17.541 donne intervistate, il 45,9% ha risposto di non essere né informata circa le procedure a cui stava per sottoporsi né le era stato espressamente richiesto di fornire il proprio consenso. Di questi, il 74% ha indicato nei ginecologi, le figure professioniste responsabili della mancata informazione. In Polonia, invece, uno studio ha rilevato che il 71,8% delle attività svolte durante le visite ginecologiche non erano abbastanza delicati, e il 14,6% ricorda una visita ginecologica al pronto soccorso estremamente doloroso e spiacevole.

Un’altra analisi qualitativa è stata effettuata sulla base delle storie di donne condivise nella campagna #breakthesilence del Movimento Birth nei Paesi Bassi. Il tema generale identificato è stato “Left Powerless”, termine usato per descrivere come le donne sentivano che il potere veniva loro tolto o avevano difficoltà a mantenere il controllo a causa della violenza subita. Inoltre, tratti comuni delle testimonianze di 60 donne che hanno contribuito al Me Too durante la campagna per il parto in Finlandia prevedeva la perdita di autodeterminazione, l’esperienza di un dolore atroce e incontrollato, il parto strumentale vissuto come violento, senza supporto e l’essere lasciate sole durante momenti di dolore insopportabile.

Anche un’organizzazione non governativa bulgara ha raccolto oltre 25 racconti di donne sulla loro esperienza di violenza psicologica, fisica e sessuale durante le consultazioni ostetriche e l’uso di procedure dannose non consensuali e non necessarie dal punto di vista medico. Queste narrazioni hanno rivelato casi in cui le donne sono state insultate, picchiate, infantilizzate, ignorate, a cui sono stati negati gli antidolorifici e nascoste informazioni sul loro bambino.

Una tesi di master ha valutato qualitativamente le esperienze di violenza ostetrica delle donne in Grecia. Attraverso un sondaggio online, 63 partecipanti hanno segnalato quanto segue: l’ingiustificabile uso non necessario di vari interventi tecnico-medici (come l’induzione artificiale del travaglio, rottura delle acque e somministrazione di ossitocina); esami vaginali continui; essere legato a letto; divieto di spostamenti; rifiuto di fornire anestesia e/o sollievo dal dolore; la manovra di Kristeller e abuso verbale (ironico, dispregiativo e commenti offensivi).

In Italia

A fotografare il fenomeno in Italia è stata l’indagine Doxa condotta nel nostro Paese, nel 2017. L’11% delle mamme intervistate ha ammesso di aver subito traumi dovuti alle cure ospedaliere e di conseguenza ha preferito rinviare di molti anni la scelta di avere un’altra gravidanza, con conseguenze non indifferenti sulla situazione nazionale. Per il 6% del totale il trauma è stato così grave da decidere di non subirlo con altre gravidanze, con una stima di 20.000 possibili bambini persi all’anno. In una risposta alla denuncia di violenza ostetrica da un forum comunitario online in Italia, i presidenti di tre associazioni di ostetriche e una di ostetriche si sono opposte alle prove, contestando l’uso del termine “deplorevole” poiché è “dannoso” e “allarmante” accostare “violenza” a “ostetrico”. Hanno affermato, come riportato dalla piattaforma Servizio Penale, che i risultati “non tengono conto del potere-dovere dei professionisti di co-decidere, guidare le scelte delle donne, agire con urgenza, anche senza consenso, per evitare gravi pericoli alla vita o all’integrità della persona”.

Le raccomandazioni per gli Stati membri

Le future direttive e raccomandazioni proposte dallo studio dovrebbero mirare a rispondere alle questioni e alle sfide sopra individuate, cioè:

Raccomandazioni per migliorare la comprensione e il riconoscimento delle competenze ostetriche in materia di violenza ginecologica;
Raccomandazioni per migliorare il quadro giuridico applicabile alle attività ostetriche e alla violenza ginecologica, così come garantire un accesso alla filiera della giustizia;
Raccomandazioni per migliorare la prevenzione e fornire cure più rispettose.

La questione, quindi, non beneficia dello stesso livello di interesse in tutti gli Stati membri dell’UE e pertanto, in diversi paesi, le informazioni su questo fenomeno sono limitate. In altri, sebbene la questione sia affrontata da alcuni portatori di interessi non istituzionali (ad esempio organizzazioni della società civile), vengono fornite informazioni limitate sulla questione a livello nazionale e sulle potenziali iniziative intraprese per affrontare il fenomeno.

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