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Tra nuove sfide e innovazione: il Diabete di tipo 1...

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Tra nuove sfide e innovazione: il Diabete di tipo 1 nell’era post-Covid

Tra nuove sfide e innovazione: il Diabete di tipo 1 nell’era post-Covid

In collaborazione con Medtronic

Sebbene l’emergenza pandemica sia ormai alle spalle, quella legata al diabete persiste e riguarda da vicino soprattutto i più giovani. A quattro anni dal lockdown, la relazione che emerge tra le due pandemie, una infettiva e perlopiù sconosciuta, l’altra non trasmissibile e ampiamente nota, è caratterizzata da luci ed ombre, con da un lato un significativo miglioramento del controllo glicemico e in generale della patologia – anche grazie alla sperimentazione massiccia del monitoraggio a distanza – dall’altro l’aumento dell’incidenza sia del diabete di tipo 1 che di tipo 2.

Nel caso del diabete di tipo 1, che oggi riguarda circa 300.000 italiani e pesa per circa il 10% dei casi, il rischio più alto rimane per bambini e ragazzi. I dati, che prima del Covid-19 parlavano di un incremento nelle diagnosi del 2-4% ogni due anni, nel periodo compreso tra il 2019 e il 2021, hanno mostrato un tasso dieci volte più alto, con picchi del 27%.

Limitare gli impatti di questa seconda pandemia significa innanzitutto potenziare l’attività diagnostica. Ad oggi, infatti, circa il 40% delle diagnosi di diabete di tipo 1 avviene in ritardo. I benefici di una diagnosi tempestiva sono importanti, soprattutto per i casi precoci. Per un bambino al di sotto dei 10 anni, riconoscere il diabete in tempo, curarlo e mantenerlo controllato significa aumentarne l’aspettativa di vita fino a 16 anni.

Dal punto di vista della diagnosi, l’Italia si posiziona all’avanguardia. Con la legge 130/2023 dello scorso 15 settembre, è infatti diventato il primo Paese al mondo ad avere istituito uno screening del diabete di tipo 1. L’attività di prevenzione rivolta alle popolazioni a rischio rappresenta un importante strumento di salute pubblica anche per altre malattie metaboliche non trasmissibili, come il diabete di tipo 2 e l'obesità.

Nella ricetta per il miglioramento dell’aspettativa delle persone con diabete, il secondo ingrediente fondamentale è il controllo costante della patologia, un’attività in cui il monitoraggio della glicemia riveste un ruolo essenziale. Si tratta di un fattore che, nel corso della storia, ha portato a una vera e propria rivoluzione della gestione del diabete di tipo 1, migliorando drasticamente i risultati glicemici e soprattutto la qualità della vita delle persone con diabete.

Rispetto alle soluzioni adottate fino a metà del XIX secolo – in cui la concentrazione di glucosio avveniva misurando la presenza di questo componente nelle urine – i metodi e di conseguenza gli strumenti utilizzati hanno subito notevoli evoluzioni, tanto che oggi disponiamo di tecnologie avanzate che permettono un monitoraggio continuo e, soprattutto, in tempo reale. Da quando sono diventati disponibili per la prima volta nel 1967 sotto forma di pungidito, i sistemi di autocontrollo glicemico domiciliare hanno subito cambiamenti radicali in termini di design, usabilità e accuratezza, diventando un pilastro fondamentale nella gestione integrata e personalizzata del diabete, grazie alla possibilità di adattare la terapia insulinica alle effettive esigenze del paziente.

Si tratta, tuttavia, di benefici che oggi rimangono ancora esclusi a una parte di pazienti diabetici. I limiti principali sono da ricercare nell'accesso e nell'utilizzo ottimale di queste tecnologie, in fattori come l’alfabetizzazione digitale e tecnica, e in risorse ormai essenziali come internet e smartphone. Le potenzialità, comunque, non mancano, considerato che il 77% degli italiani ne possiede uno e che durante la pandemia l’uso del telefono per monitorare la salute tramite app ha fatto un salto dall’8 al 67%.

A questo si aggiunge la necessità di inserire il controllo glicemico in un approccio più ampio orientato alla costruzione di percorsi personalizzati e individualizzati nella gestione del diabete, che tengano conto delle caratteristiche individuali dei pazienti, a partire dai loro stili di vita, dal contesto socio-economico in cui vivono e lavorano, dei fattori genetici e comportamentali che li contraddistinguono.

La sensibilizzazione sulla patologia diabetica e la conoscenza dei servizi e delle tecnologie già disponibili a pazienti e professionisti sanitari saranno anche al centro di un’iniziativa specifica di Medtronic, azienda statunitense pioniera nella tecnologia sanitaria, presente da oltre 40 anni in Italia. Attraverso un truck tour itinerante in alcune delle principali città italiane – da Nord a Sud Italia – Medtronic ospiterà per i mesi di aprile e maggio momenti di dialogo e confronto con gli esperti, sessioni formative, approfondimenti sulle tecnologie dedicate al diabete.

Nelle varie giornate sono previsti diversi momenti “pratici” e hands on, oltre ad un workshop dedicato al conteggio dei carboidrati, con l'obiettivo di presentare le caratteristiche e i benefici dei nuovi dispositivi, che integrano tecnologia avanzata e design semplice e intuitivo, per rendere più facile e sicura la gestione del diabete. Gli incontri si rivolgono a professionisti sanitari e pazienti, con l’opportunità di provare direttamente i prodotti (tramite uno spazio dedicato al Sistema Smart MDI e al Sistema MiniMed 780G) e interagire con gli specialistici di Medtronic.

A dare il via al tour sarà la tappa di Torino il 3 e 4 aprile 2024, percorso che proseguirà a Roma (8-9 aprile), passando per Salerno (15-16 aprile) e Bari (18-19 aprile) fino a Catanzaro (22-23 aprile). Il 29 e 30 aprile il truck tour risalirà a Scandicci, per poi concludersi a Milano (2-3 maggio).

Ulteriori informazioni sono disponibili al seguente link: https://www.medtronic-diabetes.com/it-IT

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Tumori, esperti: “Contro mielofibrosi studi per...

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"Combinazione di molecole per agire su target differenti"

Tumori, esperti:

"Nei prossimi anni probabilmente avremo la personalizzazione, almeno in larga parte, della gestione del paziente. Stiamo facendo degli studi che vanno verso una combinazione di target differenti per colpire la mielofibrosi". Così Francesco Passamonti, professore ordinario di Ematologia, Università degli Studi di Milano e direttore di Struttura complessa, dipartimento di Oncologia e Onco-Ematologia del Policlinico di Milano, insieme ad Alessandro Maria Vannucchi, professore ordinario di Ematologia, Università di Firenze e direttore della Struttura complessa di Ematologia, Azienda ospedaliera universitaria Careggi, intervenendo oggi a Verona a un incontro con la stampa organizzato da Gsk, in cui sono state presentate le ultime novità terapeutiche per la cura di questa neoplasia del midollo osseo caratterizzato dalla proliferazione di globuli rossi anomali e dall'accumulo di tessuto fibroso.

La mielofibrosi - hanno spiegato gli esperti - colpisce circa 20mila pazienti negli Stati Uniti e, a livello globale, circa 1 paziente su 500mila. Sebbene la causa non sia del tutto nota, diversi fattori influenzano l'incidenza della malattia che può insorgere a causa della disregolazione della via Jak-Stat causata da mutazioni driver di 3 geni: Jak2, Calr e Mpl. La malattia si caratterizza per sintomi invalidanti come stanchezza, splenomegalia (ingrossamento della milza), sintomi sistemici e anemia. Quest'ultima, molto impattante nella qualità della vita, può peggiorare anche a causa di alcuni farmaci Jak inibitori impiegati. Recentemente in Europa è stato approvato un nuovo Jak inibitore, momelotinib, che migliora anche il sintomo dell'anemia, rendendo il paziente quindi meno soggetto alle trasfusioni, che possono arrivare anche a 2 a settimana.

"Stiamo disegnando studi clinici contro target sempre più specifici per personalizzare sempre di più la cura - sottolinea Passamonti - quindi per pensare a una terapia di combinazione o di soli Jak inibitori in base alle caratteristiche del singolo paziente", come ad esempio la presenza o meno "della forma anemica".

Attualmente "non abbiamo alcuna evidenza che una terapia farmacologica di oggi o di qui a 3 anni possa avere la capacità di modificare quella che è la naturale evoluzione della mielofibrosi - precisa Vannucchi - ma questi approcci, ancora meglio se personalizzati, sicuramente hanno migliorato la qualità della vita dei pazienti e la loro sopravvivenza. Ma la malattia resta lì e soprattutto resta il rischio di progressione e il rischio di evoluzione in leucemia acuta, che è quello che rappresenta veramente il prossimo impegno per il futuro. Questo, allo stato attuale, è difficile da intravedere perché, nonostante tutte le nostre conoscenze sui meccanismi molecolari della malattia, ancora qualcosa ci manca. Ma soprattutto, vista la complessità genetica di queste malattie, è difficile immaginare che un singolo agente possa modificarne la storia naturale. Quindi - conclude l'oncoematologo - è un lavoro importante e molto impegnativo quello che ci aspetta".

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Mielofibrosi, Vannucchi (UniFi): “Nuovo Jak inibitore...

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"Condizione presente nel 40% dei pazienti alla diagnosi e fino al 60-70% dei pazienti trattati con le attuali terapie"

Alessandro Maria Vannucchi,

"L'anemia è uno dei problemi più importanti nel paziente con mielofibrosi", un tumore del midollo osseo caratterizzato dal progressivo accumulo di tessuto fibroso che impatta sulla produzione di globuli rossi, bianchi e piastrine. "Il 40% dei pazienti ha un'anemia al momento della diagnosi", pazienti "che anche come conseguenza dei trattamenti attuali della mielofibrosi diventano il 60-70%, con una quota rilevante di trasfusione-dipendenti. I farmaci per controllare questa condizione sono efficaci nel 20% dei pazienti, ma tale effetto si perde entro l'anno e le trasfusioni ripetute possono causare accumulo di ferro negli organi con sviluppo di conseguente tossicità. Questa condizione si associa a un'astenia che ha un altissimo impatto sulla qualità della vita. Si stanno sviluppando ora farmaci" come momelotinib, "che pur appartenendo alla famiglia dei Jak inibitori riescono a migliorare l'anemia anche in una fetta di pazienti anemici e trasfusione-dipendenti". Così Alessandro Maria Vannucchi, professore ordinario di Ematologia, Università di Firenze e direttore della Struttura complessa di Ematologia, Azienda ospedaliera universitaria Careggi, intervenendo oggi a Verona a un incontro con la stampa organizzato da Gsk.

"La mielofibrosi, una neoplasia mieloproliferativa cronica - spiega Vannucchi - viene alle volte diagnosticata in modo del tutto casuale per il riscontro di alterati valori all'esame del sangue o per i sintomi che il paziente riferisce". La mielofibrosi "si differenzia dalla policitemia vera e della trombocitemia essenziale, che sono le altre neoplasie mieloproliferative croniche. Il paziente con mielofibrosi generalmente si presenta con una serie di sintomi che sono legati soprattutto all'aumento di volume della milza che, quindi, a sua volta può causare dei disturbi dal punto di vista digestivo, come una sensazione di pienezza. Ci sono anche manifestazioni sistemiche, nelle forme più avanzate, come la perdita di peso, sudorazioni notturne importanti e, a volte, anche una febbricola che non ha altre motivazioni. La riduzione del numero di globuli rossi, quindi l'anemia, comporta tutti i sintomi della facile stancabilità, ma anche difficoltà a concentrarsi".

La terapia della mielofibrosi "è stata largamente palliativa fino all'introduzione dei Jak inibitori", introdotti a partire dalla comprensione che la maggior parte dei sintomi e delle manifestazioni cliniche della mielofibrosi sono dovuti all'infiammazione e al sovraccarico di citochine, causati da un "problema nella Jak-Stat - illustra il professore - che è una via intracellulare importante per la regolazione dell'attività delle cellule del midollo, ma anche, e soprattutto, per l'ambiente infiammatorio. Questi farmaci, che vanno a inibire questa via di segnalazione Jak-Stat attivata, sono risultati efficaci soprattutto su alcuni bisogni clinici importanti del paziente quali l'aumento di volume della milza e sulla sintomatologia sistemica".

"L'anemia, che impatta molto sulla qualità della vita - rimarca Vannucchi - è difficile da trattare. Ci sono stati tutta una serie di tentativi nel corso degli anni con farmaci che peraltro, in parte, si continuano a utilizzare - eritropoietina, ormoni di tipo androgenico - per stimolare il midollo. Sono però terapie che hanno efficacia in una piccola percentuale dei pazienti e per un tempo generalmente molto breve. Il problema è stato complicato dal fatto che la maggior parte dei Jak inibitori hanno, come effetto collaterale, molto spesso, anche se non necessariamente, un peggioramento dell'anemia". Per "alcuni pazienti che già partivano anemici", si assiste a "un peggioramento. Altri che partivano con un problema di emoglobina quasi al limite della normalità sono diventati anemici e, in alcuni casi, anche trasfusione-dipendenti. Questa non è una regola: molti pazienti tollerano i Jak2 inibitori più vecchi nel loro uso clinico senza sviluppare un'anemia trasfusione dipendente".

Più recentemente "si è osservato però che ci sono delle molecole" come momelotinib, approvato in Europa e negli Stati Uniti, "che appartengono alla famiglia dei Jak inibitori - precisa l'ematologo - però hanno anche dei bersagli molecolari aggiuntivi, rispetto alla sola Jak2, e che, pur mantenendo un'efficacia sulla splenomegalia e sui sintomi, hanno anche spesso una importante efficacia sull'anemia, correggendola. In questi pazienti, che partono anemici o che sviluppano anemia sotto trattamento di un Jak inibitore, rappresentano una valida alternativa”.

In questo momento "c'è un panorama estremamente variegato di molecole che vengono indagate negli studi clinici come molecola singola oppure in aggiunta a un Jak inibitore - conclude Vannucchi - in modo quindi da sfruttare l'effetto, l'efficacia del Jak inibitori, magari potenziandola, oppure cercando di prevenire o di ridurre gli effetti collaterali tipo quello della citopenia indotta dal Jak inibitori".

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Mielofibrosi, Passamonti (UniMi): “Con meno...

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L'ematologo: "Nuovo Jak inibitore riduce sintomi splenomegalia e migliora anemia"

Francesco Passamonti

"Risolvere il problema dell'anemia e avere un minor numero di pazienti con mielofibrosi che sono trasfusioni-dipendenti potrebbe sicuramente impattare molto sulla loro qualità e quantità di vita, perché il paziente trasfusione-indipendente vive di più e meglio" e questo "è un dato estremamente importante". Lo ha detto Francesco Passamonti, professore ordinario di Ematologia, Università degli Studi di Milano e direttore di Struttura complessa, dipartimento di Oncologia e Onco-Ematologia del Policlinico di Milano, intervenendo questa mattina a Verona in un incontro con i giornalisti organizzato da Gsk, in cui sono state presentate le ultime novità terapeutiche per la cura di questa neoplasia del midollo osseo caratterizzata dalla proliferazione di globuli rossi anomali e dall'accumulo di tessuto fibroso.

"I problemi principali del paziente con mielofibrosi sono la splenomegalia", ingrossamento della milza, "la presenza di sintomatologia sistemica e l'anemia o la piastinopenia - spiega Passamonti - I farmaci attualmente impiegati per la cura della mielofibrosi, i Jak inibitori ruxolitinib e fedratinib, approvati in Italia e rimborsati per la prima linea ruxolitinib e per la prima e seconda linea fedratinib, riducono la splenomegalia e migliorano i sintomi sistemici, ma possono anche peggiorare l'anemia. Recentemente, ha ricevuto approvazione", anche in Europa, un nuovo Jak inibitore, "momelotinib, per il paziente con mielofibrosi anemico perché questa molecola ha dimostrato di migliorare non solo la splenomegalia, ma anche l'anemia".

"Alle nuove molecole per la cura della mielofibrosi, infatti - illustra il professore - chiediamo di affrontare anche il problema dell'anemia, perché il 20% di questi pazienti richiede trasfusioni e si devono recare all'ospedale inizialmente una volta al mese, poi ogni 3 settimane, poi ogni 2, ogni una e anche 2 volte a settimana, perché ovviamente nel tempo c'è un minimo di refrattarietà alle trasfusioni e, soprattutto, la malattia progredisce". Negli accessi all'ospedale, spesso il paziente deve "essere accompagnato da un caregiver", cosa che comporta una "perdita di giorni di lavoro per entrambi e un impatto sociale estremamente importante". A livello clinico, inoltre, "c'è soprattutto un accumulo di ferro nel cuore, nei reni, nel fegato. La cosa non dà problemi in 6 mesi, ma in anni. Quindi un'anemia cronica trasfusione-dipendente può avere una serie di problemi".

"La mielofibrosi, definibile rara data l'incidenza di 1,2-1,4 nuovi casi nei 100mila abitanti/anno - prosegue Passamonti - ha degli aspetti che noi chiamiamo mielopoliferativi come la leucocitosi, la splenomegalia, la presenza di una sintomatologia sistemica come febbre, sudorazione e calo di peso e, in molti pazienti, si accompagna anche a effetti di citopenia, cioè anemia e piastinopenia, che rappresentano degli 'unmet medical needs', cioè delle aree in cui oggi non abbiamo terapie". Certo "la fisiopatologia della mielofibrosi non è del tutto definita - aggiunge lo specialista - ma interessa l'attivazione di una via cellulare, la via Jak-Stat, che svolge un ruolo essenziale perché coinvolta nelle funzioni metaboliche e immunitarie e nell'emopoiesi. Dal 2005 in poi abbiamo capito anche la patogenesi di questa malattia", che nell'85% dei casi presenta mutazioni in almeno uno di 3 geni: Jak2 (prevalenza 50-60%); Mpl (prevalenza 5-9%); Calr (prevalenza 20-35%). "Quando il gene Jak2 è iperattivo, si attiva la produzione di globuli bianchi emoglobina e piastrine".

I farmaci Jak inibitori "sono in grado di rallentare la pathway, la via cellulare Jak-Stat, iperattivata dai geni Jak2, Mpl e Carl. Ovviamente, tutte queste molecole Jak inibitori, agendo sulla Jak-Stat, possono migliorare la splenomegalia e la sintomatologia sistemica, ma determinare anche anemia e piastinopenia". Momelotinib ha dimostrato invece di migliorare anche l'anemia. Il farmaco, infatti - è stato ricordato nel corso dell'evento - oltre a inibire Jak1 e Jak2 inibisce anche un altro target (Acvr1), riducendo efficacemente la produzione di epcidina, ripristinando l'omeostasi del ferro e aumentando i livelli di emoglobina, migliorando sintomi costituzionali, splenomegalia e citopenie".

I Jak inibitori "non rappresentano l'unica opzione terapeutica che abbiamo nella mielofibrosi - conclude l'ematologo - Il trapianto di midollo osseo allogenico è l'unica procedura che oggi noi abbiamo per guarire, ma può essere indicata nel 10-15% dei pazienti ed è una procedura ad alto rischio vita".

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