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Salute e Benessere

Amici e faccende di casa per proteggersi dal rischio demenza, lo studio

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Quando si avvicina il momento delle faccende domestiche, milioni e milioni di persone nel mondo si mettono in cerca di un buon motivo per armarsi di spugne, detersivi, scopa e stracci e scendere in campo in prima persona nella pulizia di pavimenti, fornelli, librerie. Quella spinta in più oggi la fornisce la scienza. Fare i mestieri di casa è infatti fra le attività fisiche e mentali che possono aiutare a ridurre non poco il rischio di demenza, del 21% secondo un nuovo studio pubblicato online su ‘Neurology’. Ma non solo. Anche chi ritiene di non essere tagliato per la vita da casalinghi ha una speranza. Nella lista delle abitudini ‘amiche’ di un cervello in salute infatti c’è anche altro: l’essere ‘mondani’, cioè dedicarsi a visite alla famiglia e passare del tempo con amici, e fare esercizio fisico.  

Lo studio ha esaminato gli effetti di queste attività, nonché dell’uso di dispositivi elettronici nelle persone con e senza un rischio genetico più elevato di demenza. “Molti studi hanno identificato i potenziali fattori di rischio, ma noi volevamo saperne di più su un’ampia varietà di abitudini di vita e sul loro potenziale ruolo nella prevenzione della demenza”, ha spiegato l’autore del lavoro, Huan Song, della Sichuan University di Chengdu, in Cina. “Con il nostro studio abbiamo scoperto che l’esercizio fisico, le faccende domestiche e le visite sociali erano collegate a un rischio ridotto di vari tipi di demenza”. Gli scienziati hanno analizzato i dati di un database del Regno Unito su 501.376 persone senza demenza con un’età media di 56 anni. 

I partecipanti hanno compilato questionari all’inizio dello studio, incluso uno sulle attività fisiche. È stato poi chiesto loro con quale frequenza partecipassero ad attività come salire una rampa di scale, camminare e praticare sport faticosi. È stato anche chiesto delle faccende domestiche, delle attività legate al lavoro e del tipo di trasporto usato, se camminassero o andassero al lavoro in bicicletta. I partecipanti hanno completato un altro questionario sulle attività mentali. Ed è stato chiesto loro del livello di istruzione, se frequentano corsi di istruzione per adulti, quanto spesso vanno in visita con amici e familiari, se vanno in pub o club sociali o partecipano a gruppi religiosi e quanto spesso usano dispositivi elettronici, per esempio se giocano al computer, guardano la Tv e parlano al telefono. 

Infine i partecipanti hanno riferito se avevano familiari stretti con demenza. Questi dati hanno aiutato i ricercatori a determinare se avevano un rischio genetico per il morbo di Alzheimer. I protagonisti dello studio sono stati seguiti in media per 11 anni. Alla fine, 5.185 avevano sviluppato demenza. Dopo aver aggiustato per molteplici fattori come l’età, il reddito, il fumo, i ricercatori hanno scoperto che la maggior parte delle attività fisiche e mentali studiate mostrava collegamenti al rischio di demenza. Le persone che erano molto impegnate in modelli di attività tra cui esercizi frequenti, faccende domestiche e visite quotidiane a familiari e amici avevano rispettivamente il 35%, il 21% e il 15% di rischio in meno di sviluppare demenza, rispetto alle persone che erano le meno impegnate in queste attività. 

I ricercatori hanno anche esaminato i tassi di incidenza della demenza in base a modelli di attività identificati. Ed erano molto più bassi per le persone che si esercitavano frequentemente rispetto a chi lo faceva raramente, per chi sbrigava faccende domestiche rispetto a chi vi si dedicava saltuariamente e per chi aveva incontri quotidiani con familiari e amici rispetto a chi li vedeva una volta ogni paio di mesi. “Lo studio ha rilevato che impegnandosi più frequentemente in attività fisiche e mentali sane le persone possono ridurre il rischio di demenza”, ha detto Song. “Sono necessarie ulteriori ricerche per confermare i nostri risultati. Tuttavia, sono dati che incoraggiano rispetto al fatto che apportare questi semplici cambiamenti allo stile di vita può essere utile”. 

I ricercatori hanno scoperto che tutti i partecipanti hanno beneficiato dell’effetto protettivo delle attività fisiche e mentali, indipendentemente dal fatto che avessero o meno una storia familiare di demenza. Lo studio è stato sostenuto dalla National Natural Science Foundation of China, dal West China Hospital, dall’Università di Sichuan e dal National Clinical Research Center for Geriatrics. 

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Glaucoma, online il primo episodio del podcast ‘Ascolta e Vedrai’

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(Adnkronos) – È dedicata al glaucoma la prima delle sette puntate di ‘Ascolta e vedrai’, il podcast de L’Oculista Italiano pensato per promuovere e sostenere il benessere della vista, per imparare a conoscere e proteggere i nostri occhi. Definito ‘ladro della vista’, il glaucoma si presenta con sintomi poco eclatanti: visione un po’ sfocata, qualche dolorino agli occhi, luccichio, ma soprattutto con la riduzione del campo visivo, della visione laterale. Come anche altre patologie oculari, il glaucoma presenta sintomi comuni, ma che non vanno assolutamente sottovalutati perché possono essere prevenuti, controllati e curati. Il glaucoma, infatti, causando danni al nervo ottico, può portate a conseguenze gravi, ma ci sono molte cose che si possono fare. 

 

 

Nell’ascolto semplice e coinvolgente di un dialogo con l’oculista, nei pochi minuti del podcast, si possono avere quelle informazioni utili per prevenire e, nel caso, trattare questo disturbo con gli approcci più innovativi, meglio tollerati ed efficaci: la qualità della vita dipende anche dal benessere degli occhi. Quando infatti ci sono i sintomi, il glaucoma è presente già da un pezzo e il danno al nervo ottico è già in corso. Per questo è importate, dopo i 40 anni, pianificare dei controlli dall’oculista e, nel caso di una diagnosi, trovare le soluzioni che siano sì efficaci dal punto di vista clinico, ma che, allo tesso tempo, favoriscano l’integrità della superficie dell’occhio, del nervo ottico e, ovviamente, della praticità di somministrazione dei trattamenti locali. 

Numerosi studi e le stesse linee guida internazionali indicano che, per ridurre la degenerazione, il danno al nervo ottico, ai trattamenti locali con colliri è bene associare una terapia nutrizionale adeguata: esistono integratori specifici per contrastare la degenerazione del nervo ottico che è alla base del glaucoma. Ma conta anche la modalità di somministrazione dei colliri: i prodotti monodose sono sì senza conservanti, ma spesso difficili da applicare, soprattutto dalle persone più anziane. 

 

Queste e altre informazioni per favorire il benessere di occhi, per una migliore qualità della vita, sono oggi disponibili in ‘Ascolta e vedrai’ il podcast dell’Oculista Italiano presente nelle piattaforme – Apple Podcast, Google Podcasts, Spotify, Spreaker – e su oculistaitaliano.it, dove si possono trovare anche altri approfondimenti e aggiornamenti. A fine aprile, il prossimo episodio dedicato all’infiammazione. 

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Allarme per super batterio: causa infezione a occhi, 3 morti negli Usa

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(Adnkronos) – Allerta negli Stati Uniti per un super batterio, resistente ai farmaci, che sta causando infezioni agli occhi. A oggi sono stati 68 i casi confermati in 16 Stati di persone colpite dal raro ceppo di Pseudomonas aeruginosa, 3 i morti, 8 le segnalazioni di perdita della vista e 4 di rimozione chirurgica del bulbo oculare. I Centers for diseases control and prevention (Cdc) stanno collaborando con la Food and drug administration (Fda) e i dipartimenti sanitari statali e locali per indagare sul focolaio.  

L’indagine fino a oggi ha identificato alcune lacrime artificiali come possibile fonte di infezione. Tanto che Cdc e Fda hanno raccomandano a medici e pazienti di interrompere l’uso dei prodotti EzriCare o Artificial Tears in attesa di ulteriori indicazioni. 

Il ceppo epidemico, Pseudomonas aeruginosa resistente ai carbapenemi, non era mai stato segnalato negli Stati Uniti prima di questo focolaio. La maggior parte dei pazienti aveva comunque riferito di utilizzare lacrime artificiali, riportando oltre 10 diverse marche. Altri due prodotti – Purely Soothing di Pharmedica Usa, 15% Msm Drops e Apotex’s Brimonidine Tartrate Ophthalmic Solution, 0,15% – sono stati ritirati in maniera preventiva dalle aziende produttrici. 

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Gaia, scienziata con la valigia: “Ecco come far tornare i cervelli in fuga”

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(Adnkronos) – “Ho lasciato l’Italia perché avevo l’ambizione di fare una ricerca ‘avventurosa’, di non farmi limitare da quello che era disponibile in un determinato centro. Sono andata a cercarmi la strumentazione e le conoscenze che mi servivano per rispondere a certe domande biologiche. Onestamente non pensavo sarei mai rientrata, se non in fase di pensionamento, nella mia Toscana. Poi è venuta fuori la storia dello Human Technopole. All’estero si diceva che l’Italia aveva finalmente investito risorse considerevoli per far partire un istituto di ricerca internazionale, con l’ambizione di attrarre più nazionalità possibile e con un budget adeguato per poter acquisire tecnologie, mantenerle nel tempo, e assumere persone con competenze adatte. Uno scienziato aveva lasciato la Germania per guidare la nuova realtà, Iain Mattaj. Mi sono fidata, ho fatto domanda”. Comincia così l’avventura di Gaia Pigino nel polo operativo che sorge nell’area che ha ospitato l’Expo 2015 a Milano. Uno dei suoi tanti ‘nuovi inizi’, per lei che 18enne ha dovuto lasciare una carriera da agonista nella scherma, interrotta dal diabete. 

Classe 1976, una laurea in Scienze naturali all’università di Siena, ateneo dove ha svolto anche un dottorato ed è stata assegnista di ricerca postdoc, non nasconde le ‘fatiche’ di un cervello fuggito all’estero e rientrato, ma allo stesso tempo ammette di aver sofferto quando ha deciso di fare il grande salto e lasciare l’Italia, la famiglia, la sua Siena e la contrada della Torre dove è cresciuta. “Ma ho dato priorità alla ricerca”, dice all’Adnkronos Salute. Oggi è Associate Head del Centro di Biologia strutturale di Human Technopole (Ht).  

“Il problema non è la fuga, ma il mancato rientro dei talenti” 

E al ministro della Salute Orazio Schillaci, che ritiene che arrestare l’emorragia dei nostri migliori cervelli sia l’investimento migliore che possiamo fare e un traguardo che non possiamo fallire, suggerirebbe “di continuare a sponsorizzare la ricerca in modo tale che le posizioni in Italia siano attraenti per ricercatori che vengono dall’estero, siano essi italiani di ritorno o ricercatori internazionali che vengono da altri Paesi”. Per fare questo, osserva, “c’è bisogno di supporto economico adeguato, ma anche duraturo nel tempo. Un exploit di 5 anni vale poco per chi fa ricerca. Specie quando c’è da installare tecnologie che richiedono tempo per farle funzionare”. L’altra cosa è “la chiarezza e la trasparenza nei processi di selezione e di attribuzione dei fondi, come i grant. Ma anche l’indipendenza dei giovani: più schiacciata è la gerarchia e più l’ente che fa ricerca oggi è apprezzato a livello internazionale. Perché chi ha talento vuole essere indipendente”.  

Quando si parla di cervelli in fuga, Pigino precisa che il problema non è tanto vederli andare via. “Siamo tutti un po’ girovaghi, non solo gli italiani lasciano il loro Paese per esperienze all’estero. L’internazionalità è un pre-requisito per fare ricerca ad alto livello. Nei concorsi per posizioni o nelle valutazioni per i grant si guarda anche a quanto si sono spostate le persone, perché apre la mente”. Il problema dell’Italia è che, “se tu vai via da giovane perché ti vuoi fare l’esperienza fuori, poi è difficile rientrare in una posizione che riflette le capacità che hai acquisito. C’è poco scambio e mobilità, poca flessibilità nel sistema. Dovremmo essere in grado sia di riportare cervelli italiani andati fuori, che aumentare l’internazionalità del nostro sistema accademico e di ricerca”. 

Il fattore internazionale 

Oggi all’Ht Pigino condivide la direzione del Centro di Biologia strutturale con Alessandro Vannini, anche lui cervello rientrato da Londra. Ci sono 5 gruppi di ricerca. “Nel mio laboratorio lavorano giovani che vengono da Italia, Usa, Uk, Spagna, Pakistan, Olanda, India e Svizzera – elenca – Età: da 24 a 35 anni. La scommessa dell’istituto è far sì che si possa coltivare un afflusso di menti giovani, forti e con tanto talento da tutto il mondo. La condivisione di tutte queste culture diverse è il punto di forza. Abbiamo 3 group leader che sono alla loro prima esperienza indipendente: Ana Casañal è spagnola, Francesca Coscia è italiana ed entrambe arrivano da un’esperienza in Uk (Mrc-Laboratory of Molecular Biology, Cambridge), e Philipp Erdmann prima è andato negli Usa, poi è tornato in Germania (al Max Plank Institute for Biochemistry di Martinsried) e ora è qui in Italia”. 

Anni prima, inseguendo il suo sogno scientifico, Pigino ha fatto tappa prima al Politecnico (Eth) di Zurigo, dopo 4 anni è approdata al Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and Genetics a Dresda dove ha vinto una posizione da group leader e ha fatto partire un laboratorio portando conoscenze e tecnologie. Il suo valore aggiunto? L’esperienza sulla “crio-tomografia – spiega – una tecnica di microscopia che permette di guardare a complessi di proteine nel contesto della cellula a livello molecolare, ad alta risoluzione. A Dresda ho avuto un budget e un gruppo di 6 persone e ho potuto avviare il mio filone di ricerca legato alla biologia delle ciglia, organelli cruciali” che sono come ‘antenne’ e si trovano “nelle cellule eucariote”. Ecco “cosa viene offerto all’estero a una persona di 30 anni che ha deciso di muoversi e imparare cose nuove. Forse in Italia è più difficile vedere tutto questo, un po’ perché ci sono poche risorse, ma anche per motivi legati al processo accademico”.  

Dopo 9 anni a Dresda, Pigino accetta la sfida del rientro in Italia, dove arriva nel 2021 in base all’accordo con Ht siglato nel 2020. Sfida in salsa tricolore accettata anche dal marito, austriaco, computational biologist. “Un pizzico di patriottismo – sorride – ha pesato nella mia scelta: se tutto quello che ho imparato posso portarlo in Italia e contribuire a farla diventare un riferimento per questo tipo di ricerca, mi rende orgogliosa. E poi da national facility abbiamo anche la possibilità di condividere la tecnologia col mondo accademico italiano e dare la possibilità a giovani ricercatori volenterosi di poter diventare anche loro competenti su questo fronte”. 

La sfida di ripartire da zero in patria  

Un bilancio dei primi anni post rientro? “E’ stato tutto molto faticoso, si lavora tanto e si dorme poco. Un po’ me l’aspettavo perché far partire un istituto con queste ambizioni da zero non è facile in nessun posto – assicura – In Italia forse ci sono delle cose che, con l’aiuto dei ministri competenti, potremo ottimizzare nel futuro per far sì che non ci sia un handicap di tipo burocratico per questo istituto rispetto ad altri simili nel mondo. Ci sono dei processi abbastanza lunghi, fatti per evitare corruzioni e dispendi di risorse, ma gli scienziati sono già ‘strutturati’ per spendere in maniera oculata le poche risorse che hanno. Anche all’estero. Snellire questi processi renderebbe la nostra vita un po’ meno complicata e permetterebbe di focalizzarci ancora di più sulla ricerca”. 

Pigino, in ogni caso, non si scoraggia di fronte alle difficoltà essendo abituata a ricominciare da zero. Nella sua vita da sportiva è stata nella nazionale giovanile di scherma per 5 anni, carriera a cui ha dovuto dire addio a un passo dalla prima esperienza olimpica. Poi l’amore per la scienza. “Forse è anche per questo che mi sono buttata anima e corpo – dice – la scienza mi ha salvato la vita”. Con la stessa determinazione, all’Ht la scienziata ha già raccolto i primi frutti. Col suo team ha potuto fare il suo ingresso nel laboratorio a settembre-ottobre 2021 “e ad agosto 2022 abbiamo sottoposto alla rivista ‘Nature Structural & Molecular Biology’ un articolo interamente sviluppato allo Human Technopole”, che è stato pubblicato a gennaio 2023. “Per noi è stato eccezionale perché in tempi record, grazie alla facility di microscopia elettronica che già funziona in maniera perfetta, siamo riusciti a ottenere dati di una qualità che non riuscivamo a raggiungere nemmeno a Dresda”. 

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Trapianti, per 1 paziente su 3 infezione da Citomegalovirus dopo intervento

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(Adnkronos) – Ogni anno solo il 50% dei pazienti in lista di attesa per un trapianto viene sottoposto ad intervento e di questi 1 su tre sviluppa un’infezione da Citomegalovirus (Cmv). È quanto emerso dal convegno “La donazione, una ricchezza da non sprecare. L’infezione da Citomegalovirus, una minaccia nel post trapianto”, organizzato a Milano con il contributo non condizionante di Takeda. Per i maggiori esperti, che si sono dati appuntamento presso il Centro Svizzero, contro il patogeno molto diffuso è “necessario investire su assistenza post-intervento, screening sul territorio e approccio multidisciplinare”.  

Negli individui immunocompetenti il Cmv – si legge in una nota – è generalmente asintomatico o latente, mentre in quelli con compromissione immunitaria, come per i pazienti sottoposti a trapianto, può portare al verificarsi di gravi complicanze, in particolare a occhi, polmoni, fegato, esofago, stomaco, intestino e sistema nervoso centrale, infezioni e anche perdita dell’organo trapiantato. Nel 2021, in Italia, il 27% dei pazienti sottoposti a trapianto – dettaglia la nota – ha sviluppato infezione da Cmv, a seguito della procedura, generando un elevato tasso di ospedalizzazione, che impatta sulla vita del paziente, oltre che sui costi del Sistema sanitario regionale. Attualmente, il modo migliore per limitare il rischio di contagio è un’attenta igiene personale, soprattutto per le categorie di persone più vulnerabili alla malattia. 

Ad aprire i lavori del convegno, Massimo Cardillo, Direttore generale del Centro nazionale trapianti (Cnt), che ha sottolineato come “il numero delle donazioni è cresciuto e sta crescendo così come ci dicono i dati dei primi mesi del 2023: confrontandoci, in Europa, siamo lontani dal benchmark spagnolo, ma in linea con altri Paesi. È in ogni caso importante non nascondere le criticità. Ad oggi – spiega Cardillo – non tutti i pazienti che hanno bisogno di un trapianto riescono ad ottenerlo: da una parte abbiamo il 30% del campione italiano che si oppone alla donazione. Queste percentuali di opposizioni, anche superiori al 50% registrate negli anziani, probabilmente sono causate da vari fattori, non ultimo quello di pensare di non essere idonei alla donazione. Dobbiamo insistere, sappiamo che oggi non ci sono controindicazioni alla donazione legate all’età. Su questo è prioritario lavorare attraverso campagne di comunicazione e informazione in sinergia col Ministero della Salute e con tutte le associazioni. Il secondo problema si può ricondurre all’identificazione dei potenziali donatori. Dobbiamo migliorare l’organizzazione dei piani regionali: abbiamo circa 8.000 pazienti in attesa”.  

Negli ultimi anni ci sono stati “dei miglioramenti grazie al monitoraggio post-trapianto – non ha dubbi Corrado Girmenia del Gruppo italiano per il trapianto di midollo osseo (Gitmo) – quindi implementare strategie di questo tipo è indispensabile”. Il “Citomegalovirus rappresenta la principale complicanza infettiva – rimarca Paolo Grossi, Direttore S.C. Malattie Infettive e Tropicali (ASST dei Sette Laghi Varese) – è necessario costruire team multidisciplinari in grado di gestirne le complicanze. Fortunatamente, la percentuale di sopravvivenza nel 2023 si attesta al 90%, un risultato che rende il trapianto una procedura efficace”.  

Ad approfondire la necessità di un approccio integrato Fausto Baldanti, Direttore Uoc microbiologia e virologia Irccs Policlinico San Matteo di Pavia: “L’interdisciplinarietà è indispensabile, anche nella formazione. Gli studenti devono poter acquisire le competenze necessarie sul tema già nel percorso curricolare e non solo nelle scuole di specialità. Altro punto fondamentale nel 2023 è l’aggiornamento degli schemi diagnostici per cui clinici, infettivologi, trapiantologi e medici microbiologi possano interpretare in modo efficace e integrato i dati, così da poter giungere ad una migliore gestione del paziente”. Fondamentale investire sulla “condivisione dei dati” e su una “corretta informazione medico-paziente – evidenzia Tiziana Nicoletti, responsabile Cnamc Cittadinanzattiva – rapporto che negli ultimi anni è entrato in crisi proprio a causa di una minore reciprocità. Il processo informativo è fondamentale che avvenga gradualmente e basandosi sulla fiducia”.  

Sul tema della comunicazione ai cittadini, fondamentali sono le associazioni di volontariato. Come ha spiegato Flavia Petrin, Presidente Aido, “la conoscenza è alla base della scelta. Noi lavoriamo perché la gente opti per la donazione in vita e lo faccia raccogliendo tutte le informazioni necessarie. Dire “sì” non costa niente ed è una scelta per la vita. La tecnologia in questo momento ci supporta per diffondere più possibile la conoscenza. Da aprile sarà possibile dire “sì” anche attraverso la Cie”. 

“Il nostro obiettivo è dialogare con le società scientifiche – spiega la senatrice Elisa Pirro dell’Intergruppo parlamentare donazione e trapianto – con il Cnt, con le associazioni dei pazienti. Vogliamo arrivare con delle proposte basate sulle reali necessità. È fondamentale che si disponga di un nuovo paradigma gestionale e omogeneo su tutto il territorio nazionale, che consenta procedure più rapide e adeguate dotazioni professionali ed economiche. Come Intergruppo il nostro desiderio è supportare il mondo scientifico e il mondo politico per far sì che si possa lavorare in sinergia come una squadra per implementare attività di primaria importanza come le campagne di screening per il Cmv e promuovere l’aderenza terapeutica presso la comunità dei pazienti.” 

Per Giuseppe Piccolo, direttore del Centro regionale trapianti della Lombardia “la Regione per tanti anni ha valutato l’eccellenza dei trapianti misurandola attraverso un numeratore. Adesso è necessario adottare un programma regionale con obiettivi comuni e sistemi di misurazione omogenei. A febbraio 2023 abbiamo superato la media nazionale e per proseguire nella corretta programmazione di donazione e trapianto abbiamo bisogno che gli ospedali mantengano elevato il livello di attenzione sul tema”. Anche Piccolo ha voluto sottolineare l’importanza di un approccio sistemico e integrato: “siamo una rete. Il buon esito del percorso appartiene a tutto il gruppo di lavoro coinvolto, ma anche al paziente, che rimane l’amministratore unico del bene ricevuto”. 

“L’approccio Takeda alle malattie rare – sostiene Andrea Degiorgi, Rare Business Unit Head Takeda Italia, azienda leader nel settore biofarmaceutico – è incentrato sull’intero percorso del paziente. La donazione è una ricchezza da salvaguardare anche attraverso il miglioramento dell’assistenza post-trapianto, la promozione della ricerca e dell’innovazione, la condivisione di dati ed esperienze e il monitoraggio efficace dell’aderenza terapeutica.” Per questo, prosegue, “bisogna lavorare per ridurre il rischio di infezioni, come quelle da Citomegalovirus, che colpiscono quasi 1 paziente su 3 nel post-trapianto. Si tratta di un danno enorme per la vita del paziente, con impatto anche sul Sistema sanitario regionale. In questo senso, l’approccio multidisciplinare e la visione integrata e sistemica risultano fondamentale”. 

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Schillaci, ‘problemi postura sottovalutati ma dalle conseguenze serie’

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(Adnkronos) – “I problemi della postura spesso vengono sottovalutati, però la loro mancata individuazione può avere conseguenze nel tempo e possono produrre anche disturbi più seri, con i quali a volte è anche difficile convivere. Si tratta di scompensi che interessano una gran parte della popolazione, tanto da avere ricadute significative sulla salute pubblica”. Così il ministro della Salute Orazio Schillaci nel suo intervento al convegno ‘Migliorare la postura per una salute più sostenibile’, che si è svolto oggi pomeriggio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, promosso su iniziativa del senatore di FdI Marco Silvestroni.  

“Fra le conseguenze più comuni di uno scompenso posturale – prosegue il ministro – ci sono le lombalgie che colpiscono fino al 50% degli adulti in età lavorativa, di cui circa il 20% ricorre a cure mediche. Tutto questo avviene in un quadro sociale che ha visto crescere in maniera esponenziale la sedentarietà e questo dipende anche dalle modalità lavorative, con postazioni spesso inadeguate e con abitudine posturali scorrette”.  

I dati, secondo Schillaci, “indicano che siamo di fronte a un tema di salute pubblica, non solo individuale – ribadisce – con costi notevoli, e non solo economici per il nostro Servizio sanitario nazionale. Sui disturbi della postura sia a livello scientifico che medico c’è ancora un ampio dibattito: il ministero della Salute aveva elaborato delle linee guida nazionali sulla classificazione, inquadramento, misurazione della postura e delle relative disfunzioni per incentivare interventi multidisciplinari di prevenzione. Si tratta di un documento nato per fornire informazioni univoche, condivise, basate su evidenze scientifiche disponibili rivolte alle diverse professionalità sanitarie coinvolte nella prevenzione e nella diagnosi”. Un impegno che “il ministero della Salute si è assunto e che oggi io ritengo si debba cercare di proseguire con un ulteriore sforzo per aggiornare le indicazioni sulle buone pratiche in base ai dati scientifici più attuali, alle opinioni condivise dagli esperti e con una particolare attenzione alle possibile cure”.  

“Promuovere la cultura della prevenzione e la crescita di una cultura sanitaria è il primo passo come dico da tempo per difendere la salute pubblica – rimarca Schillaci – e tendere ad un miglioramento generale della qualità della vita, combattendo l’insorgenza di molte patologie e lo sviluppo di complicazione dovute a queste patologie. Va in questa stessa direzione l’impegno che stiamo portando avanti per promuovere l’attività fisica in è sempre importante il supporto del medico per orientare al meglio la scelta dell’attività più appropriata per ogni persona”.  

La prevenzione “è la chiave di volta nella tutela della salute ed è fondamentale incoraggiare l’adozione di stili di vita salutare a partire da una corretta alimentazione e al contrasto della sedentarietà”. La salute posturale “è un altro tassello fondamentale e su questo fronte gioca un ruolo chiave l’impegno della comunità scientifica e di quella medica – conclude – nel ricercare e sperimentare sul campo le soluzioni migliori nel metterle in pratica e dare riscontri sulla loro efficacia”. Quindi ha assicurato “la dovuta attenzione alle proposte studiate dagli esperti che emergeranno dal dibattito, per valorizzare insieme le migliori esperienze in questo campo”.  

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Degiorgi (Takeda), ‘importante approccio sistemico a cura paziente’

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(Adnkronos) – “Takeda è una multinazionale farmaceutica antica, di valori antichi che guardano al lungo termine. Il nostro core business si basa sulla ricerca e sviluppo di soluzioni farmacologiche, ma crediamo che questo impegno debba essere inquadrato in un percorso più ampio, che si occupi della gestione del paziente prima e dopo la malattia, soprattutto nel caso delle malattie rare, in modo tale che la ricerca possa essere ben indirizzata e le soluzioni massimizzate”. Così Andrea Degiorgi, Rare Business Unit Takeda Italia, a margine della conferenza stampa organizzata da Edra, con il contributo non condizionante di Takeda, intitolata ‘La donazione una ricchezza da non sprecare. L’infezione da citomegalovirus (cmv), una minaccia nel post trapianto’.  

“Credo ci sia la necessità di portare avanti un progetto sistemico, che ottimizzi il risultato terapeutico – ha concluso Degiorgi – e da questo punto di vista penso che l’evento odierno sia stato particolarmente interessante dal momento che vi hanno partecipato molte voci: dalle istituzioni, ai clinici, fino alle associazioni scientifiche e di pazienti”.  

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Girmenia, ‘approccio interdisciplinare fondamentale nel follow-up del paziente trapiantato ‘

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(Adnkronos) – “L’approccio interdisciplinare nel follow-up del paziente trapiantato è particolarmente importante perché nel caso in cui insorgano complicanze, come l’infezione da citomegalovirus di cui abbiamo parlato oggi, sono necessarie le competenze di un gran numero di professionisti. I centri trapianti, infatti, sono storicamente costituiti da tante discipline e il loro accreditamento prevede che ci siano consulenti dalla grande esperienza in ambito trapiantologico”. Così Corrado Girmenia, dirigente medico Ao universitaria Policlinico Umberto I di Roma e membro Gruppo italiano trapianto midollo osseo (Gitmo), a margine della conferenza stampa organizzata da Edra, con il contributo non condizionante di Takeda, intitolata ‘La donazione una ricchezza da non sprecare. L’infezione da citomegalovirus (Cmv), una minaccia nel post trapianto’.  

L’infezione da citomegalovirus (Cmv) rappresenta infatti una delle maggiori minacce nel post-trapianto. È dunque importante che tutte le parti coinvolte nel processo del trapianto si adoperino affinché si riduca il più possibile tale rischio, come spiega ancora Girmenia: “Gli esseri umani sono mammiferi, costituiti da cellule eucariote, e fin dalla nascita convivono con germi, batteri, funghi e virus. Talvolta però, soprattutto quando si verifica un abbassamento delle difese immunitarie, come accade nel caso del trapianto, questi possono diventare pericolosi”.  

“Il citomegalovirus fa parte di questi ospiti e la sua riattivazione in caso di trapianto è una conseguenza quasi attesa dai medici. Sappiamo infatti che circa l’80% della popolazione italiana è entrata in contatto con questo virus particolarmente diffuso nella zona del Mediterraneo. Se abbiamo la fortuna di essere in salute per tutta la vita, il fatto che il sistema immunitario non riesca a debellare il virus e che questo rimanga quindi silente all’interno dell’organismo, non rappresenta un problema – ha concluso il dirigente medico dell’Umberto I – al contrario, se dobbiamo ricorrere a un trapianto, il Cmv quasi certamente si riattiverà e dovrà essere diagnosticato, trattato e curato”. 

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Piccolo (Crt), ‘a febbraio Lombardia ha superato media nazionale dei trapianti’

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(Adnkronos) – “Il nuovo approccio alla gestione dei trapianti in Lombardia è stato concepito qualche anno fa ma, a causa della pandemia, non è stato possibile metterlo subito in atto. Oggi però possiamo dire che il miglioramento è tangibile: nel mese di febbraio di quest’anno abbiamo infatti superato la media nazionale”. Lo ha detto Giuseppe Piccolo, direttore del Centro regionale trapianti Lombardia, a margine della conferenza stampa organizzata da Edra, con il contributo non condizionante di Takeda, intitolata ‘La donazione una ricchezza da non sprecare. L’infezione da citomegalovirus (cmv), una minaccia nel post trapianto’.  

“A marzo 2022 c’è stata una forte volontà da parte dell’assessorato di riconoscere che la donazione degli organi e dei tessuti deve allignare negli ospedali come uno dei percorsi di cura – ha aggiunto Piccolo – che necessita di organizzazione e che deve avere al centro i coordinamenti ospedalieri della donazione, che presidiano i reparti. Questo percorso prevede investimenti nella formazione, nel coinvolgimento dei sanitari, nella motivazione, nella cura della squadra. Infine – ha concluso il direttore del Centro regionale trapianti Lombardia – i coordinamenti ospedalieri della donazione possono far crescere, attraverso l’informazione, la cultura della donazione”.  

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Dermatite atopica, disponibile in Italia terapia orale giornaliera

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(Adnkronos) – Per i pazienti adulti con dermatite atopica grave, candidati alla terapia sistemica, è disponibile in Italia un farmaco in mono-somministrazione orale giornaliera. Si tratta di Cibinqo* (abrocitinib) di Pfizer, un inibitore della Jak1 approvato e rimborsato per le persone che nel nostro Paese convivono con una forma grave di questa patologia, con un rilevante impatto sulla qualità di vita dei pazienti e delle famiglie. È quanto comunica l’azienda statunitense.  

“La missione di Pfizer è quella di sviluppare e rendere disponibili innovazioni scientifiche in grado di portare cambiamenti concreti nella vita dei pazienti – afferma Francesca Cozzolino, Direttore Inflammation&Immunology e Rare Disease di Pfizer in Italia – Abbiamo concentrato i nostri sforzi in aree dove riteniamo di poter dare un contributo unico e di rispondere a importanti bisogni, come le malattie infiammatorie croniche e abrocitinib ne è un esempio. La dermatite atopica è una malattia infiammatoria cronica ricorrente della pelle con una patogenesi complessa, fonte di discomfort per gli adulti tanto che si è rivelata una delle patologie cutanee con il più alto livello di disabilità, nel Global Burden of skin disease study del 2013. Pfizer è stata la prima azienda farmaceutica a dedicarsi allo studio del ruolo svolto dai JAK-inibitori all’interno dei processi infiammatori: si ritiene che il pathway Jak-Stat svolga un ruolo importante nei processi infiammatori in quanto coinvolto nella segnalazione di oltre 50 citochine e fattori di crescita, molti dei quali determinano patologie immuno-mediate. L’inibizione delle Jak rappresenta, quindi, una risorsa importante per lo sviluppo di nuove opzioni di trattamento a beneficio di tante persone che soffrono ogni giorno per queste patologie”. 

Prurito intenso e incessante, dolore, insonnia, autoisolamento, stress e stigma sociale interessano, in Italia, oltre 35.000 bambini e adulti che convivono con una forma severa di dermatite atopica, malattia infiammatoria cronica della pelle che condiziona pesantemente le attività diurne e notturne dei pazienti. La ricerca in questo campo della medicina – riporta una nota – è progredita nell’ultimo decennio e sempre più numerose sono le terapie a disposizione dei pazienti. L’ultima arrivata, a disposizione degli specialisti, è abrocitinib, rimborsata dall’Aifa e dal Ssn (Gazzetta Ufficiale del 27 gennaio 2023), che potrà rivoluzionare la gestione clinica della malattia.  

Considerata fino a pochi anni fa una patologia esclusiva dell’età pediatrica – prosegue la nota – può proseguire nell’adolescenza e nell’età adulta o può insorgere ex novo in adulti e addirittura dopo i 65 anni di età. “Si tratta di una malattia cutanea infiammatoria cronica che può perdurare per tutta la vita con fasi alterne di remissione e riacutizzazioni – spiega Giuseppe Monfrecola, presidente della Società italiana di dermatologia e malattie sessualmente trasmesse (Sidemast) – Può interessare testa, tronco e arti ma spesso le sedi maggiormente colpite sono volto, collo, mani; per questa sua visibilità e il forte prurito, la patologia ha un pesante impatto sulla qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie. In Italia colpisce l’età pediatrica con percentuali del 15% circa, e con percentuali dell’8-10% in giovani/adulti”. 

Nella fase acuta la dermatite atopica, che ha un andamento altalenante e può favorire le allergie (non il contrario), si manifesta con arrossamenti spesso associati a vescicole essudative. Nel tempo le lesioni progrediscono e diventano squamose, mantenendo l’arrossamento cutaneo. Per il paziente anche azioni normali per chiunque, come un bagno al mare o in piscina, fare jogging, passeggiare in un parco, possono essere attività sconsigliabili. La malattia si ripercuote sulla sfera interpersonale e lavorativa, a causa dello stigma sociale conseguente alle manifestazioni cutanee. 

“Abrocitinib è un farmaco orale, assunto con una sola somministrazione al giorno, che agisce bloccando una Janus chinasi che interviene nella trasduzione di segnali infiammatori della dermatite atopica – sottolinea Giampiero Girolomoni, direttore Uoc di Dermatologia e malattie veneree Azienda ospedaliera di Verona – Si tratta di un antinfiammatorio specifico per questa malattia della pelle, che agisce bloccando sia i mediatori dell’infiammazione sia i mediatori del prurito: in questo modo riduce l’infiammazione cutanea e riduce il forte prurito. Il meccanismo d’azione è abbastanza rapido e nel giro di pochi giorni i pazienti riscontrano un miglioramento della sintomatologia. Abrocitinib va somministrato a pazienti selezionati e monitorati, giovani/adulti (dai 18 anni di età) colpiti da una malattia più grave. Sei studi sono stati condotti per valutare efficacia e sicurezza del farmaco, rigorosi e su vaste popolazioni, controllati e randomizzati, verso placebo o verso altri farmaci attivi di riferimento che hanno dimostrato la superiorità di abrocitinib nella risoluzione precoce di segni e sintomi e un’ottima tollerabilità. Il farmaco può essere assunto per tutto il tempo che serve, può essere interrotto e ripreso a seconda delle necessità. Si inizia la terapia con una dose un po’ più alta e man mano si riduce il dosaggio a seconda della risposta del paziente, fino ad arrivare ad una dose di mantenimento”.  

La diagnosi di dermatite atopica è in genere tardiva; spesso va fatta una diagnosi differenziale con altre patologie cutanee, come, ad esempio, la dermatite seborroica o la psoriasi. Quanto alla prognosi, la malattia può migliorare o scomparire entro i primi 5 anni di età ma le riacutizzazioni sono frequenti in adolescenza e nell’età adulta.  

“Rispetto a 20 o 30 anni fa – conclude Mario Picozza, presidente Andea, Associazione nazionale dermatite atopica – le cose sono un po’ migliorate, dermatologi formati e centri di dermatologia sono presenti in tutto il Paese e sono disponibili molti più presidi terapeutici rispetto a prima. Ma c’è ancora molto da fare. Convivere con una malattia come la dermatite atopica è una battaglia e una sfida continua. I risvolti psicologici sono importanti: la consapevolezza del proprio corpo, l’autostima, il distress e la paura del giudizio degli altri. Frequenti i fenomeni di isolamento sociale e di bullismo. Tutto questo genera ansia, depressione, tristezza, paura e ritiro sociale. La dermatite atopica è stata sottovalutata e sottotrattata per anni. Come Associazione abbiamo stilato un manifesto programmatico con i 10 punti sui quali chiediamo interventi puntuali alle istituzioni e lo facciamo partecipando ove possibile ai tavoli decisionali e mantenendo un dialogo costante con i decisori politici”. 

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Salute e Benessere

Psicologi, ‘servono professionisti a scuola, più formazione docenti non basta’

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(Adnkronos) – “Serve lo psicologo a scuola, non bastano 20 ore di formazione aggiuntive per i docenti”. Lo affermano, in una nota, il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, e il gruppo di esperti della ‘Task force scuola’ del Cnop guidata da Daniela Lucangeli, commentando un’intervista del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, sul ‘Corriere della Sera’, in cui si annuncia l’introduzione di 100 mila tutor per i ragazzi, professori per i quali è prevista una formazione aggiuntiva con lezioni anche di psicologia e pedagogia, e il compito di “coordinare i colleghi e assicurare la personalizzazione del curriculum, con particolare attenzione agli studenti in difficoltà e a quelli molto brillanti che si annoiano”, ha detto il ministro.  

E alla domanda specifica sull’introduzione dello psicologo a scuola, Valditara ha precisato: “Ne stiamo discutendo”. “Le affermazioni del ministro – dicono gli psicologi – suscitano più di qualche perplessità e preoccupazione. Davvero secondo il ministro sono sufficienti venti ore di formazione aggiuntive per i docenti, con qualche ora di psicologia, per sostituirsi ai professionisti di cui necessitano le nostre ragazze e i nostri ragazzi nelle scuole? Tutto il mondo della scuola chiede da tempo una presenza qualificata di psicologi per la promozione delle risorse dei ragazzi, per l’ascolto e la prevenzione, per supportare il personale scolastico. Ieri l’Istituto superiore della sanità ci ha detto che un adolescente su due è a rischio: cosa si vuole aspettare?” 

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