

Salute e Benessere
Alimenti, da Enea kit per rintracciare sostanze tossiche nel latte
Messo a punto dall’Enea un kit diagnostico per aziende lattiero-casearie e laboratori di analisi per rintracciare sostanze tossiche nel latte. L’Enea spiega che il kit è in grado di rilevare in modo rapido, efficace e a basso costo la presenza dell’aflatossina M1 nel latte crudo, una sostanza considerata cancerogena per l’uomo che proviene da animali nutriti con mangimi contaminati. I risultati della ricerca realizzata in collaborazione con l’Università di Torino sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Toxins. “A causa degli effetti dannosi sulla salute umana e animale, l’Unione Europea ha fissato una concentrazione massima di aflatossina M1 di 50 nanogrammi/litro nel latte crudo, nel latte trattato termicamente e in quello destinato alla produzione di formaggi. Ed ha ulteriormente abbassato questo valore soglia negli alimenti destinati ai neonati e ai bambini (25 ng/l), che risultano tra i maggiori consumatori di questo alimento” ricorda l’Enea.
La tecnica di analisi messa a punto dai ricercatori Enea prevede, per la prima volta, l’impiego di anticorpi monoclonali prodotti da una pianta dello stesso genere del tabacco (Nicotiana benthamiana), per ‘intercettare’ le tossine presenti nel latte anche a concentrazioni molto basse – ben al di sotto dei limiti fissati per legge – come hanno dimostrato le sperimentazioni condotte su campioni di latte crudo contenenti diverse concentrazioni di aflatossina M1 (25, 50 e 75 nanogrammi/L). Marcello Catellani del Laboratorio Enea di Bioprodotti e bioprocessi, spiega che “si tratta della versione ‘green’ di Elisa – uno dei migliori e più diffusi metodi di screening rapido per il rilevamento delle tossine negli alimenti e nei mangimi animali – che permette l’analisi accurata, rapida e a basso costo di un numero elevato di campioni”.
Per la produzione degli anticorpi, i ricercatori si sono avvalsi di un sistema di produzione alternativo ed economico offerto dal Plant Molecular Farming (Pmf), un sistema che usa le piante per produrre molecole complesse come gli anticorpi. Catellani sottolinea che “si tratta di un approccio biotecnologico che può ‘liberare’ la produzione di anticorpi dai classici e più costosi sistemi basati su colture di cellule animali, che richiedono strutture e ambienti dedicati, reagenti e strumenti specifici per la loro crescita in condizioni di sterilità, come ad esempio bioreattori e incubatori”.
Il Pmf, continua l’Enea, permette di operare in condizioni non sterili (serra, acqua, luce, suolo) con costi ridotti al minimo. Per questo lavoro è stata utilizzata la tecnica dell’agroinfiltrazione che comporta l’utilizzo di un particolare batterio chiamato Agrobacterium tumefaciens che veicola l’informazione genetica di interesse nei tessuti vegetali della pianta Nicotiana benthamiana. “Questo processo – indica Cristina Capodicasa del Laboratorio Enea di Biotecnologie – risulta vantaggioso per rapidità e resa: richiede solo 1-2 giorni per la crescita degli agrobatteri, che hanno il compito di veicolare l’informazione genetica nella pianta, e dopo circa una settimana è possibile raccogliere le foglie da cui estrarre fino a 1,6 g/kg di anticorpi”.
“Quindi, lo scale-up di questa produzione è immediato, facilmente modulabile e poco costoso, se confrontato con colture cellulari in vitro, perché richiede semplicemente un ampliamento dello spazio di coltivazione dedicato alle piante” afferma inoltre Capodicasa.
L’Enea indica infine che “le aflatossine sono micotossine prodotte da funghi appartenenti al genere degli aspergilli che si sviluppano di solito quando le derrate alimentari sono conservate a temperature tra i 25 e i 32°C e con tassi di umidità dell’ambiente di oltre l’80 per cento. Non si vedono a occhio nudo, non hanno sapore e, soprattutto, mostrano un’elevata stabilità durante i trattamenti termici come, ad esempio, la pastorizzazione del latte”.
Salute e Benessere
Alluvione Emilia Romagna e zanzare, Regione: “Non rilevati virus, larvicida via drone”

"Chiesta autorizzazione in deroga a ministero Salute per distribuire il prodotto nelle zone allagate"

“Le analisi dei campioni raccolti” in Emilia Romagna, colpita dall’alluvione, da inizio maggio “non hanno rilevato la presenza di virus” veicolati dalle zanzare, “segno che al momento l’impatto di questi insetti è limitato a un ‘effetto molestia’, senza un rischio sanitario accertato”. A comunicarlo la Regione Emilia Romagna, annunciando che “una serie di indicazioni tecniche per rafforzare il controllo delle zanzare nelle zone alluvionate” sono state comunque definite dall’assessorato alle Politiche per la salute, “con la collaborazione del gruppo tecnico regionale dedicato alla prevenzione delle arbovirosi, e inviate ad Ausl e Comuni.
Misure straordinarie che integrano il Piano regionale arbovirosi approvato lo scorso aprile dalla Giunta, con il quale già da inizio maggio è regolarmente partita l’attività di ricerca di eventuali virus patogeni, attraverso la cattura e successiva analisi di zanzare adulte”. Inoltre, “è stata richiesta al ministero della Salute un’autorizzazione in deroga per poter usare i droni per la distribuzione del prodotto larvicida, date le difficoltà operative nel raggiungere da terra le porzioni allagate di ampie dimensioni”.
“Tutti i Comuni delle province di Bologna, Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini – spiega una nota regionale – sono richiamati a garantire una corretta e completa attuazione delle misure previste dal Piano regionale, per contribuire alla prevenzione della proliferazione delle zanzare: principalmente, quindi, distribuzione di larvicidi nella tombinatura pubblica e comunicazione alla cittadinanza per una corretta gestione delle aree private. Devono essere sensibilizzate soprattutto le imprese e i responsabili di aree particolarmente critiche come cantieri, aree dismesse, piazzali di deposito, parcheggi, vivai e altre attività produttive e commerciali che possano dar luogo anche a piccole raccolte di acqua e conseguenti focolai di sviluppo larvale. Ai Comuni si chiede inoltre di verificare le condizioni di pulizia dei tombini e delle caditoie stradali, perché potrebbero essere ostruiti dal fango rimasto dopo il deflusso delle acque: in questo caso la diffusione in acqua del prodotto larvicida sarebbe ridotta, e quindi diminuirebbe anche l’efficacia”.
“Azioni aggiuntive – precisa la Regione – sono invece richieste nelle aree del territorio comunale ancora interessate dalle alluvioni, proprio per fronteggiare lo sviluppo di zanzare collegato al mancato o ridotto deflusso delle acque nella rete idrica e al permanere di acque stagnanti”.
“Sempre per il controllo delle larve di zanzara – continua la nota – oltre al rafforzamento della pulizia di tombini e caditoie, le indicazioni sono quelle di prestare attenzione ai depositi temporanei di rifiuti stoccati in attesa della destinazione finale di trattamento, perché possono costituire potenziali siti di riproduzione delle zanzare e di altri insetti e animali, come mosche e topi. Nonostante non ci siano evidenze di circolazione di virus patogeni che impongano il ricorso a trattamenti adulticidi – si ribadisce – la presenza importante, anche al di fuori dell’habitat usuale, di zanzare Aedes che arrecano un ulteriore disagio ad una popolazione già provata giustifica questo tipo di intervento”.
“Per orientare in modo efficace questi trattamenti, saranno posizionate trappole attrattive per valutare la densità di popolazione delle zanzare e agire solo dove serve. I Comuni – raccomanda la Regione – sono quindi invitati ad attivare le ditte titolari di contratto per il controllo e l’eventuale disinfestazione, e ad attuare gli interventi aggiuntivi indicati”.
Salute e Benessere
Malattie rare, Padoan: “Egpa patologia complessa, serve approccio multidisciplinare”

Così lo specialista in Reumatologia e responsabile del Centro vasculiti dell’Unità operativa complessa di Reumatologia presso l’Azienda ospedaliera di Padova, a margine della seconda delle quattro giornate di Eular 2023

“La granulomatosi eosinofila con poliangioite (Egpa) è una patologia cronica ad eziologia autoimmune che ad oggi ha dati di incidenza e prevalenza compatibili con una malattia rara, ma probabilmente nella popolazione generale è più frequente di quanto sappiamo. A causa delle diverse manifestazioni dell’Egpa e della complessità della patologia stessa, i pazienti devono essere seguiti presso centri specialistici con un approccio multidisciplinare”. Così Roberto Padoan, specialista in Reumatologia e responsabile del Centro vasculiti dell’Unità operativa complessa di Reumatologia presso l’Azienda ospedaliera di Padova, a margine della seconda delle quattro giornate di Eular 2023, il Congresso europeo della reumatologia, organizzazione che riunisce tutte le società europee di reumatologia, finalizzata a ricerca, prevenzione, terapia e riabilitazione delle patologie reumatiche, in svolgimento a Milano dal 31 maggio al 3 giugno 2023.
“È una malattia cronica e può dare manifestazioni anche molto severe al suo esordio, coinvolgendo organi vitali come il cuore, i nervi, l’intestino, i reni. Nel tempo può perdurare e se non trattata adeguatamente può provocare anche problematiche di tipo respiratorio. Ad oggi lo standard of care – prosegue l’esperto – prevede l’associazione, fin dalle prime fasi, di corticosteroidi (inizialmente ad alte dosi) e di farmaci immunosoppressori. Per le forme più severe di malattia è necessario utilizzare farmaci come rituximab e la ciclofosfamide, mentre per le forme meno severe possono essere utilizzati gli immunosoppressori convenzionali, oppure farmaci più nuovi e specifici, che hanno come target l’eosinofilo, una delle cellule maggiormente coinvolte nella patogenesi di questa malattia”.
“Così facendo è possibile controllare adeguatamente i sintomi – spiega Padoan – Questi farmaci di nuova generazione potrebbero aiutare a risolvere quello che è ad oggi il problema principale nel trattamento della granulomatosi eosinofila con poliangioite: abbiamo infatti la necessità di riuscire a ridurre al minimo indispensabile la dose di cortisone, che purtroppo rappresenta uno dei maggiori problemi per quanto riguarda l’accumulo di danno di questi pazienti e il numero di effetti collaterali che possono verificarsi nel corso degli anni”, conclude.
Salute e Benessere
Salute, Carrieri (Siu): “Da cancro prostata a infertilità puntare su informazione”

"Con Giornata dell’urologia vogliamo sensibilizzare le persone su importanza prevenzione"

Ipertrofia prostatica benigna, tumore della prostata, incontinenza urinaria, calcolosi urinaria, disfunzione erettile e infertilità. Sono solo alcune delle patologie dell’apparato urinario che hanno un “impatto sociale ed epidemiologico molto rilevante. Per questo motivo informazione e prevenzione svolgono un ruolo fondamentale”. Così all’Adnkronos Salute Giuseppe Carrieri, presidente della Società italiana di urologia (Siu) e rettore della Clinica urologica dell’Università di Foggia, in occasione della Giornata dell’Urologia che si svolge oggi. ‘Siu Risponde’ è il servizio che la Società scientifica mette a disposizione attraverso l’help desk prevenzione@siu.it per fornire una consulenza indicativa all’utente e rispondere a quesiti su patologie urologiche attraverso i propri soci, contribuendo così a rafforzare la percezione dell’urologo come promotore del benessere dell’individuo.
“Con questa iniziativa – spiega Carrieri – vogliamo sensibilizzare le persone e far capire che prevenire è sempre meglio che curare: ci sono vantaggi enormi per i pazienti in termine di quantità e qualità di vita e allo stesso tempo per il Ssn perché conviene molto di più investire in prevenzione piuttosto che in cure per patologie ormai in fase molto avanzata”.
Tra le malattie dell’apparato urinario che interessano gli uomini “dopo i 50 anni, ci sono l’ipertrofia prostatica benigna che colpisce 5 uomini su 10, la disfunzione erettile che affligge 6 uomini su 10″ e il tumore alla prostata, “il cancro più diffuso in Italia e nel mondo ma che possiamo intercettare in tempo con un semplice esame del sangue, l’esame del Psa, e una vista urologica”. Se “interveniamo precocemente – rimarca l’esperto – riusciamo a curare e guarire definitivamente il paziente dal tumore. Se, invece, il paziente si rivolge allo specialista quando il cancro alla prostata ha già dato segni di sé, a quel punto è troppo tardi. Per sconfiggere il tumore tempestività, prevenzione, visite e controlli sono importantissimi”.
Ma l’Urologia si occupa di problematiche altrettanto diffuse, tra cui “la calcolosi urinaria – sottolinea Carrieri – che rappresenta la prima causa di acceso ai pronto soccorso, e l’incontinenza urinaria di cui soffrono molte donne dopo i 50 anni di età che pensano sia giusto utilizzare gli assorbenti. In realtà, non è così. Noi urologi abbiamo tantissime soluzioni mediche e chirurgiche per far fronteggiare questo disturbo”.
Per Carrieri, è di grande impatto sociale anche la “disfunzione erettile” che affligge “6 uomini su 10 dopo i 50 anni di età. Una condizione che crea grandi problematiche alla vita della coppia, per cui sempre più uomini non danno per scontato il fatto di non poter avere più rapporti sessuali dopo una certa età e si rivolgono a noi urologici per trovare rimedi per la disfunzione erettile. E di rimedi ce ne sono tantissimi, farmacologici, come le famose pillole per l’impotenza, sino ad arrivare a soluzioni più estreme quali le protesi peniene”. Infine, conclude, “si parla tanto di infertilità e denatalità. In Italia lo scorso anno sono nati meno di 400mila bambini, pochissimi, probabilmente perché la qualità dello sperma degli uomini italiani è di peggiore qualità rispetto al passato”.
Salute e Benessere
Tumori, De Laurentiis (Pascale Napoli): “Terapia cancro seno ulteriore passo in avanti”

“Lo studio Natalee ha coinvolto oltre 5000 pazienti con un tumore alla mammella in fase precoce, quindi operabile e spesso operato. Ai pazienti è stato somministrato per 3 anni, insieme all’ormonoterapia, il ribociclib. Per ridurre il rischio recidiva, infatti, i pazienti sono stati sottoposti ai trattamenti standard – chemioterapia e ormonoterapia – ai quali è stato aggiunto come farmaco sperimentale l’inibitore di CDK4/6. I risultati dello studio dimostrano che aggiungere il ribociclib alla terapia ormonale classica per un periodo di 36 mesi riduce del 25% il rischio per una popolazione di pazienti molto vasta di sviluppare metastasi nel corso del tempo. Indubbiamente si tratta di un ulteriore passo in avanti importante verso l’obiettivo della guarigione definitiva”.
Lo ha detto Michelino De Laurentiis, direttore del Dipartimento di Oncologia senologica e Toraco-polmonare, Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione ‘G. Pascale’ di Napoli, a margine della presentazione da parte di Novartis dei dati positivi dell’endpoint primario dello studio registrativo di fase III Natalee che si è tenuta oggi al congresso annuale dell’Asco (Società americana di oncologia medica).
Salute e Benessere
Lupus, Iaccarino (UniPd): “Biologici riducono danni organi e articolazioni”

Al MiCo di Milano in corso il Congresso Eular

“Il lupus eritematoso sistemico (Les) è una malattia reumatica autoimmune, ciò vuol dire che il sistema immunitario agisce non solo contro gli agenti esterni, come batteri e virus, ma anche contro organi e apparati dello stesso organismo. Può quindi attaccare qualsiasi organo e apparato, e quelli più frequentemente colpiti sono le articolazioni, la cute e i reni. Il paziente con il lupus rischia di vedere compromessa la funzionalità di alcuni organi, oltre che la qualità della vita. In alcuni casi più gravi è messa a rischio anche la sopravvivenza stessa del paziente”. Lo ha ricordato Luca Iaccarino, professore associato di Reumatologia all’università di Padova, a margine del Congresso Eular (European Congress of Rheumatology) 2023, in svolgimento al MiCo di Milano dal 31 maggio al 3 giugno, facendo il punto sulle cure per il Les.
La terapia che si è rivelata vantaggiosa in termini di percentuale di pazienti che raggiungono una risposta e nei migliori dei casi la remissione è quella basata sui farmaci biologici, come belimumab, impiegata nei pazienti con lupus da circa dieci anni: “In alcuni soggetti, la terapia con farmaci biologici, come belimumab – ha spiegato Iaccarino – ha garantito la riduzione dell’accumulo di danno, cioè la compromissione della funzionalità degli organi, delle articolazioni, del rene. Traggono beneficio dalla terapia con farmaci biologici anche gli aspetti dermatologici, come le cicatrici cutanee. Questi farmaci hanno sicuramente aiutato a migliorare la qualità della vita di questi pazienti”.
A dimostrare l’efficacia della terapia con farmaci biologici nella riduzione del danno d’organo sono i risultati dello studio italiano ‘BeRLiSS: belimumab in real life setting study’, coordinato proprio dal centro di Padova e che ha coinvolto quasi 500 pazienti con lupus eritematoso sistemico, trattati con belimumab e seguiti dai 24 centri specializzati presenti sul territorio nazionale: “Questo studio non solo ha confermato i dati che avevamo potuto vedere nei trial randomizzati controllati – ha concluso il professore – ma ha anche dimostrato la capacità di questo farmaco di ridurre le riacutizzazioni della malattia e l’accumulo di danno in questi pazienti”.
Salute e Benessere
Rafforzare la memoria dormendo, studio sulla stimolazione cerebrale profonda

Una nuova ricerca condotta dagli scienziati della Ucla fornisce la prima prova fisiologica dall'interno del cervello umano

Il cosiddetto ‘sonno ristoratore’ non è una definizione vuota, ma ha una base scientifica. E’ noto per esempio che dormire gioca un ruolo cruciale nel rafforzare la memoria, ma gli scienziati stanno ancora cercando di decodificare come questo processo si svolge nel cervello durante la notte. Una nuova ricerca condotta dagli scienziati della Ucla (University of California Los Angeles) Health e della Tel Aviv University fornisce la prima prova fisiologica dall’interno del cervello umano a sostegno della teoria scientifica dominante su come avviene il consolidamento della memoria. Ma c’è di più: gli scienziati hanno scoperto anche che la stimolazione cerebrale profonda mirata durante una fase cruciale del ciclo del sonno sembra migliorare questo processo.
Lo studio, pubblicato su ‘Nature Neuroscience’, potrebbe offrire dunque nuovi indizi sul possibile ruolo di una Deep-brain stimulation: questa, applicata durante il sonno, potrebbe un giorno aiutare i pazienti con disturbi della memoria come il morbo di Alzheimer, suggerisce il coautore del lavoro, il professore di Neurochirurgia Itzhak Fried. Questo risultato è stato ottenuto con un nuovo sistema ‘a circuito chiuso’ che ha emesso impulsi elettrici in una regione del cervello sincronizzati con precisione all’attività cerebrale registrata da un’altra regione.
Il cervello, secondo la teoria dominante, converte le nuove informazioni in ricordi a lungo termine durante lo ‘shuteye’, quando si dorme. C’è un dialogo notturno tra l’ippocampo – hub della memoria del cervello – e la corteccia cerebrale, che è associata a funzioni cerebrali superiori come il ragionamento e la pianificazione. E questo dialogo si verifica durante una fase di sonno profondo, quando le onde cerebrali sono particolarmente lente e i neuroni nelle regioni del cervello si alternano tra l’attivazione rapida in sincronia e il silenzio. Il lavoro del team fornisce la “prima grande prova fino al livello dei singoli neuroni che esiste davvero questo meccanismo di interazione tra il centro della memoria e l’intera corteccia”, spiega Fried, direttore della Chirurgia dell’epilessia alla Ucla Health. “Ha un valore scientifico sia in termini di comprensione di come funziona la memoria negli esseri umani sia di utilizzo di tale conoscenza per potenziare davvero la memoria”.
La teoria del consolidamento della memoria è stata testata dagli autori dello studio alla Ucla Health, tramite gli elettrodi nel cervello di 18 pazienti con epilessia. Gli elettrodi erano stati impiantati sui pazienti per aiutare a identificare la fonte delle loro convulsioni durante le degenze ospedaliere che in genere durano circa 10 giorni. In quell’occasione è stata portata avanti anche questa analisi. Lo studio è stato condotto su due notti e due mattine. Poco prima di andare a dormire, ai partecipanti sono state mostrate coppie di foto di animali e 25 celebrità, tra cui star facilmente identificabili come Marilyn Monroe e Jack Nicholson. I pazienti sono stati testati immediatamente sulla capacità di ricordare quale celebrità era abbinata a quale animale, e lo stesso test è stato ripetuto poi al mattino, dopo una notte di sonno indisturbato.
In un’altra notte sono stati mostrati 25 nuovi abbinamenti di animali e celebrità prima di andare a dormire. Questa volta, però, i pazienti hanno ricevuto una stimolazione elettrica mirata durante la notte e la loro capacità di ricordare gli accoppiamenti è stata testata al mattino. Per fornire questa stimolazione elettrica, i ricercatori hanno creato un sistema a circuito chiuso in tempo reale: il sistema ‘ascoltava’ i segnali elettrici del cervello e, quando i pazienti cadevano nel periodo di sonno profondo associato al consolidamento della memoria, emetteva delicati impulsi elettrici istruendo i neuroni che si attivano rapidamente a ‘giocare’ in sincronia. Come un direttore d’orchestra, è l’immagine usata da Fried. Risultato: ogni persona testata ha ottenuto risultati migliori nei test di memoria dopo una notte di sonno con stimolazione elettrica, rispetto a una notte di sonno indisturbato. I marcatori elettrofisiologici chiave hanno inoltre indicato che le informazioni fluivano tra l’ippocampo e tutta la corteccia, fornendo prove fisiche a sostegno del consolidamento della memoria.
“Abbiamo scoperto di aver sostanzialmente migliorato questa autostrada attraverso la quale le informazioni fluiscono verso luoghi di archiviazione più permanenti nel cervello”, ha detto Fried, che nel 2021, con uno studio pubblicato sul ‘New England Journal of Medicine’, aveva dimostrato per la prima volta che la stimolazione elettrica può rafforzare la memoria. Recentemente lo scienziato ha ricevuto fondi Nih (dei National Institutes of Health) per 7 milioni di dollari per studiare se l’intelligenza artificiale può aiutare in determinate attività. Se con questo studio è stata dimostrata la possibilità di migliorare la memoria in generale, “la prossima sfida è scoprire se abbiamo la capacità di modulare ricordi specifici”.
Salute e Benessere
L’olio d’oliva previene il cancro al seno? Studio italiano indaga

Monini al fianco di Fondazione Veronesi, ricercatrice Neuromed analizzerà i dati di oltre 11mila donne

Può il consumo regolare di olio di oliva aiutare a prevenire il cancro al seno, il tumore più diffuso in Italia con oltre 55mila casi l’anno, prima causa di morte oncologica nelle donne? Proverà a rispondere a questa domanda Emilia Ruggiero, ricercatrice dell’Istituto neurologico mediterraneo Neuromed di Pozzilli (Isernia), con uno studio finanziato da Monini per il 2023 attraverso un bando pubblico promosso da Fondazione Umberto Veronesi. Monini conferma così, per il terzo anno consecutivo, l’impegno a sostenere la Fondazione per contribuire a far luce sulle proprietà di uno dei pilastri della dieta mediterranea.
“Per decenni i Paesi del Mediterraneo hanno avuto una minore incidenza di tumore al seno a livello mondiale e questo ha fatto ipotizzare che le abitudini alimentari potessero spiegare almeno in parte questi dati”, spiega Ruggiero, fra le premiate durante la cerimonia di consegna dei grant 2023 di Fondazione Veronesi e del sesto ‘Fondazione Umberto Veronesi Award’, ieri all’università Statale di Milano. “L’adesione a una dieta mediterranea nel suo complesso è in grado di ridurre il rischio di tumore al seno – sottolinea la scienziata – ma il ruolo dei suoi componenti chiave, come appunto l’olio di oliva, è stato poco esplorato. Il progetto punta proprio a capire se l’olio di oliva, e in particolare la sua componente di grassi monoinsaturi, possa avere un ruolo nella prevenzione primaria del tumore al seno, nell’ambito di un’alimentazione di tipo mediterraneo”.
Lo studio – descrive una nota – utilizzerà il database del progetto epidemiologico ‘Moli-sani’, che dal 2005 ha coinvolto circa 25mila cittadini residenti in Molise per conoscere i fattori ambientali e genetici alla base delle malattie cardiovascolari e dei tumori, trasformando un’intera regione italiana in un maxi laboratorio scientifico a cielo aperto. In questo caso verranno utilizzati i dati di oltre 11mila donne per le quali sono state raccolte dettagliate informazioni alimentari. I risultati potranno fornire nuove evidenze sul ruolo dell’olio d’oliva per la salute e rappresentare un riferimento per definire future strategie di prevenzione.
“Siamo davvero orgogliosi di poter offrire il nostro contributo a favore della ricerca scientifica italiana e ancora di più di sostenere uno studio che può avere un impatto concreto sulla vita di moltissime persone”, dichiara Maria Flora Monini, alla guida dell’azienda di famiglia insieme al fratello Zefferino.
“Come azienda – precisa – non ci siamo mai limitati a produrre e vendere il nostro prodotto: abbiamo sempre cercato di conoscerlo, valorizzarlo e promuoverlo al meglio, anche attraverso l’educazione e la cultura. Dal 2020, attraverso il nostro piano di sostenibilità ‘A Hand for the Future’, abbiamo inoltre intrapreso un percorso decennale a sostegno della ricerca, perché non può esserci alcun futuro senza il progresso della conoscenza”.
Salute e Benessere
Cancro al cervello, italiani svelano alterazione genetica chiave


La ricerca italiana svela un’alterazione genetica chiave all’origine delle forme più aggressive di glioblastoma, tumore maligno del cervello, aprendo nuove prospettive di diagnosi e cure mirate. La scoperta è pubblicata su ‘Esmo Open’, rivista della Società europea di oncologia medica, e porta la firma dello Iov – Istituto oncologico veneto Irccs. Lo studio, sostenuto da Fondazione Celeghin e Associazione Ometto e condotto in collaborazione con le Neurochirurgie dell’azienda – università di Padova e delle università di Ferrara e Firenze, è coordinato per la parte clinica da Giuseppe Lombardi dell’Unità operativa complessa di Oncologia 1 dello Iov, e per la parte di ricerca oncologica da Anita De Rossi del Dipartimento universitario Discog, afferente all’Uoc Iov di Immunologia e Diagnostica molecolare oncologica.
Il lavoro ha preso in esame 273 pazienti seguiti dall’Istituto oncologico veneto e affetti da glioblastoma, “il tumore cerebrale più frequente e aggressivo nell’adulto”, spiegano Lombardi e Rossi. “Siamo riusciti a individuare in una specifica variante del gene Tert”, importante nel controllo della replicazione cellulare nei tumori, “un marcatore prognostico di una forma di glioblastoma a più rapida progressione. Riuscire a mettere in luce l’impatto del gene Tert sulla prognosi e sulle interazioni molecolari che sono alla base della crescita tumorale e delle risposte ai trattamenti oncologici – sottolineano i due autori – apre nuovi scenari in ambito diagnostico e nell’utilizzo di trattamenti più personalizzati. Lo Iov si conferma così centro di riferimento internazionale per la cura dei pazienti neuro-oncologici, con la possibilità di nuove prospettive grazie anche a innovativi trattamenti sperimentali”.
Questa scoperta apre infatti “nuove strade, permettendo di indirizzare a una migliore individuazione dei pazienti, un miglior arruolamento nei trial clinici e una prognosi più accurata”, si legge in una nota dell’Istituto.
“Questo studio – commenta Vincenzo Bronte, direttore scientifico dello Iov – esemplifica le opportunità uniche presenti nell’Istituto oncologico veneto per la ricerca traslazionale. Infatti nasce da un interesse storico e continuato nel tempo per il ruolo del gene Tert nella genesi delle neoplasie, e si coniuga alla possibilità di definire dei sottogruppi di pazienti con glioblastoma con prognosi diversa. Lo studio offrirà nuove prospettive per indagare i circuiti molecolari alla base delle forme più aggressive di questo tumore, caratterizzato da una progressione estremamente rapida”.
Sempre sul glioblastoma – si legge nella nota – sono in corso allo Iov vari protocolli sperimentali tra i quali ‘Regoma 2’, il primo studio al mondo che valuta il regorafenib in associazione alla terapia standard per il trattamento di questo tumore raro particolarmente aggressivo, con incidenza di 6 casi ogni 100mila persone, negli ultimi anni in continuo aumento. La sperimentazione, promossa dall’Istituto oncologico veneto, rappresenta anche il primo studio no-profit a livello italiano che valuta la somministrazione del farmaco nel tumore cerebrale, senza aspettare che la malattia vada in recidiva.
Salute e Benessere
Schillaci: “Il Ssn non è sull’orlo del fallimento, ripartiamo dal capitale umano”

“Oggi più che mai va rilanciato il Servizio sanitario nazionale e su questo nei primi mesi di governo abbiamo dato dei segnali in maniera pragmatica. Mi dispiace molto quando vedo dipinto il Ssn sull’orlo del fallimento, non è così: ha la forza di avere un capitale umano con professionisti che sono i migliori del mondo e partendo da loro potremmo fare molto”. Lo ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci, nel suo intervento oggi a Roma al ministero per la conferenza stampa di presentazione degli ‘Help desk della prevenzione’, che verranno attivati durante il mese di giugno per celebrare la Festa della Repubblica da 5 società medico-scientifiche italiane: Urologia (Siu), Audiologia e foniatria (Siaf), Parodontologia e implantologia (Sidp), Endocrinologia (Sie), Medicina del lavoro (Siml).
Coronavirus
Salute, Pregliasco: “Enterovirus killer? ‘Rischio generale basso ma sorvegliare”

“Il rischio complessivo di sanità pubblica per questo enterovirus lo vedo molto limitato, così come precisa anche l’Organizzazione mondiale della sanità, pur nella gravità dei casi descritti e nella necessità di fare attenzione e di sorvegliare”. Lo sottolinea all’Adnkronos Salute Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università Statale di Milano, dopo l’alert lanciato dall’Oms a seguito di 9 casi di sepsi neonatale, con 7 morti, registrati in Francia e associati a un tipo enterovirus detto E-11, e in particolare a un lignaggio ricombinante in precedenza non rilevato nel Paese d’Oltralpe.
L’esperto invita a cogliere “anche l’aspetto positivo” di avvisi come questo, così come quello diffuso dall’Oms nelle scorse settimane e relativo a un rialzo di miocarditi gravi (2 decessi su 15 casi) nei lattanti in Uk, sempre associate a degli enterovirus. La faccia buona della medaglia è proprio il monitoraggio di questi nemici invisibili, un approccio “che per certi versi – osserva Pregliasco – è anche un po’ figlio della lezione appresa con Covid: una riorganizzazione e un potenziamento dei sistemi di sorveglianza epidemiologica, di individuazione e di segnalazione di situazioni anomale, in un’ottica proattiva” di guardia alta e preparazione.
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