Una bozza americana per Gaza scuote la diplomazia: una missione armata “di imposizione”, non il classico mantenimento della pace. Nomi di Paesi in lizza, veti incrociati e, soprattutto, interrogativi sul mandato. In questo quadro, le riflessioni del generale Giorgio Cuzzelli aiutano a distinguere ciò che è possibile da ciò che resta solo annuncio.
Una proposta che ribalta gli equilibri
Al Consiglio di Sicurezza è stata fatta circolare una bozza di risoluzione statunitense per istituire un’International Security Force (ISF) nella Striscia di Gaza, con mandato minimo di due anni e prospettiva di operare fino alla fine del 2027. Il testo, confermato da fonti ufficiali americane, delinea una missione di enforcement e non di peacekeeping, incaricata di garantire sicurezza, demilitarizzare l’enclave, proteggere corridoi umanitari e affiancare la formazione di una nuova polizia palestinese. La cornice politica transitoria passerebbe attraverso un organismo chiamato “Board of Peace”, di cui il presidente Donald Trump intende assumere la guida. La discussione a New York si annuncia serrata, anche per le possibili resistenze di membri permanenti del Consiglio.
La timeline è ambiziosa: Washington punta a un voto nelle prossime settimane e a un primo dispiegamento già da gennaio. Il piano, rientrante in una piattaforma in circa 20 punti, poggia sulla cessazione delle ostilità, sulla consegna degli armamenti da parte di Hamas e su una fase di stabilizzazione che includa il controllo dei confini con Israele ed Egitto. Nel frattempo gli Stati Uniti ribadiscono che non metteranno “stivali sul terreno” a Gaza, pur avendo personale militare in Israele per coordinamento civile-militare. Obiettivo ambizioso, percorso stretto: senza un mandato nitido, la missione rischia di restare sulla carta.
Mandato, regole, realismo: cosa insegna un lessico cruciale
Nel linguaggio delle operazioni internazionali, “enforcement” significa capacità di imporre decisioni del Consiglio anche senza il consenso di tutti gli attori sul terreno; “peacekeeping” presuppone invece consenso, neutralità e uso della forza limitato all’autodifesa. Il confine tra le due cose decide tutto: catena di comando, rules of engagement, responsabilità legali, protezione dei civili. In assenza di una risoluzione Onu che definisca con precisione mandato politico e militare, la missione rischia ambiguità operative. È il punto sottolineato con nettezza dal generale Giorgio Cuzzelli nell’intervista all’Adnkronos: senza un quadro chiuso, ogni promessa di sicurezza resta ipotesi.
Nel dettaglio, la bozza attribuisce alla futura ISF anche il compito di “stabilizzare l’ambiente di sicurezza” e di assicurare la “demilitarizzazione” della Striscia, inclusa la distruzione di infrastrutture militari e il disarmo delle formazioni armate non statali. Una responsabilità che sposta la missione fuori dai canoni tradizionali del peacekeeping e che, proprio per questo, esige regole di ingaggio robuste, catene di comando snelle e meccanismi di deconfliction chiari con Israele e con la polizia palestinese da addestrare. Ogni zona grigia qui diventa rischio operativo.
Chi ci potrebbe andare davvero: candidature, veti e condizioni
Tra i Paesi più attivi emerge l’Indonesia: il presidente Prabowo Subianto ha offerto fino a 20.000 militari, legando però l’eventuale invio a un mandato internazionale esplicito. Giacarta, tra i maggiori contributori alle missioni Onu, ha moltiplicato contatti e predisposto anche iniziative umanitarie strutturate. La disponibilità politica è alta, ma i tecnici stessi ricordano che capacità logistiche e sostenibilità nel tempo andranno calibrate sulla risoluzione e sui partner presenti. Volontà c’è, ma nessuno parte senza cornice legale.
Più defilato ma in movimento è il Pakistan, che discute internamente se aderire alla forza di stabilizzazione. Il ministro della Difesa Khawaja Asif ha parlato di decisione “in via di finalizzazione”, mentre fonti di governo e militari evocano l’esperienza pluridecennale del Paese nelle operazioni Onu e il valore politico di un’eventuale partecipazione, purché sotto egida o autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Anche qui, la bussola resta una sola: mandato certo e regole chiare.
Sul versante caucasico, l’Azerbaigian valuta la richiesta americana, ma pone una condizione non negoziabile: copertura del Consiglio di Sicurezza e mandato limpido. È un tassello che si inserisce nel mosaico di capitali coinvolte, mentre l’idea di una forza a maggioranza di Paesi musulmani, affiancata da partner tecnici, prende forma nelle conversazioni diplomatiche. Ogni bandiera pesa, ogni equilibrio conta.
La Turchia ha offerto supporto, ma da Gerusalemme è giunto un no secco: Israele non accetterà truppe turche nella forza internazionale, citando la postura di Recep Tayyip Erdogan durante il conflitto. Il segretario di Stato Marco Rubio ha chiarito che l’ISF dovrà includere Paesi con cui Israele si senta “a proprio agio”. È un veto politico che restringe il perimetro dei contributori possibili e incrocia sensibilità regionali già in attrito.
L’Europa tra ambizione e cautela
Francia e Regno Unito stanno lavorando con Washington per rifinire il testo della risoluzione che autorizzerebbe la forza di stabilizzazione, nella consapevolezza che una cornice Onu incentiva i contributi internazionali. L’architettura ipotizzata è simile a missioni autorizzate dal Consiglio ma non “blu casco” in senso stretto. In parallelo, in un recente incontro a Istanbul, Giordania ha offerto addestramento alla polizia palestinese, mentre il nodo dei contributi militari resta aperto.
L’Italia ribadisce disponibilità a “fare la propria parte” solo entro un mandato internazionale chiaro e sotto egida Onu. Il presidente del Consiglio e la Farnesina hanno evocato un possibile rafforzamento dei Carabinieri nei dispositivi di frontiera e addestramento, ma ogni passo è condizionato a una risoluzione esplicita e a un cessate il fuoco stabile. La linea è di prudenza operativa e responsabilità politica, con l’orizzonte di coinvolgere anche il settore civile nella futura ricostruzione.
Lezione libanese: quando l’ambiguità diventa un rischio
La storia di UNIFIL in Libano insegna che mandati ampi ma non cogenti, pur utili a congelare le ostilità, non bastano a disarmare milizie radicate. La Risoluzione 1701 affida a UNIFIL il compito di assistere le Forze Armate Libanesi nell’istituzione di un’area libera da armi tra la Blue Line e il Litani, ma la missione non ha mai avuto né mandato né mezzi per disarmare direttamente Hezbollah. Il raffronto è inevitabile: Gaza richiederà obiettivi realistici e strumenti adeguati, pena ripetere schemi già visti.
Oggi UNIFIL è avviata verso un’uscita graduale entro il 2026, dopo quasi mezzo secolo di presenza, mentre gli stessi atti ufficiali riconoscono la centralità delle LAF nel garantire l’area libera da armi. Nel frattempo, analisi e cronache hanno documentato come, negli anni, Hezbollah abbia accresciuto capacità e arsenali nonostante la cornice di 1701. È un monito che il generale Cuzzelli riprende: evitare una “Unifil 2” a Gaza passa da un mandato chiarissimo e da regole applicabili, non solo auspicate.
Il nodo Hamas, la pressione araba e le crepe del consenso
La bozza americana presuppone la resa degli armamenti da parte di Hamas, ma dirigenti del movimento hanno dichiarato che non possono impegnarsi a un disarmo immediato e unilaterale, evocando la necessità di un consenso palestinese più ampio. Sul fronte regionale, vari Paesi arabi hanno fatto sapere che il futuro assetto di Gaza non può includere Hamas al governo, come emerso in iniziative diplomatiche e dichiarazioni congiunte dell’ultimo anno. Una convergenza ancora fragile, ma che spinge verso una fase amministrativa tecnocratica.
Nel meccanismo di mediazione, Qatar e Egitto hanno continuato a tessere la tela con Washington, tra aperture e incidenti che hanno complicato i colloqui. La prosecuzione di un cessate il fuoco, benché intermittente, ha alimentato la discussione sulla missione di stabilizzazione, mentre Riad ha salutato come “passo significativo” l’intesa di fase uno. Resta un dato: senza un calendario credibile su ritiro israeliano, governance e sicurezza interna, l’accettazione del piano da parte di tutte le parti resta tutt’altro che scontata.
Calendario stretto, variabili molte
Le capitali si sono date una finestra di due settimane per finalizzare la risoluzione Onu, ma le divergenze sul mandato potrebbero allungare i tempi. La presenza di truppe americane a Gaza è esclusa, mentre un centro di coordinamento in Israele lavora alla pianificazione. Israele chiede che i contributori siano Paesi “accettabili” per la sua sicurezza; Giordania si dice disponibile a formare la polizia palestinese, non a inviare truppe. La partenza a gennaio resta un obiettivo, non una certezza.
In questo quadro, le previsioni di Cuzzelli restano misurate: Turchia sgradita a Israele; Egitto attore chiave ma guardingo; molti Paesi del Golfo non strutturati per una missione così onerosa. Resta plausibile un ruolo del Pakistan, potenza nucleare sunnita con lunga esperienza operativa in contesti Onu e oggi in dialogo avanzato su un eventuale contributo, purché la legittimazione sia piena. Ogni disallineamento tra politica e militare, in una missione d’imposizione, si paga caro.
Italia: opportunità o rischio calcolato?
Alla domanda se un coinvolgimento occidentale – magari italiano – sia utile, la risposta è prudente: senza un ombrello Onu e una cornice politica garantita, si tratterebbe più di un rischio che di un’opportunità. La posizione italiana, maturata in anni di esperienza da Libano ai Balcani, è ormai scolpita: prima il mandato, poi la missione; prima la chiarezza, poi l’impiego. È anche un modo per proteggere i nostri militari e dare senso alle regole che il diritto internazionale impone.
Il governo ha intanto indicato disponibilità a contribuire alla stabilizzazione in “cornici internazionali e Onu”, con eventuali rinforzi dei Carabinieri in compiti di addestramento e sicurezza dei valichi, quando le condizioni lo consentiranno. Una postura che tiene insieme responsabilità, esperienza e consapevolezza dei precedenti: le missioni funzionano quando la strategia politica è coerente con gli strumenti militari messi in campo. Non esistono scorciatoie.
Domande rapide, risposte nette
Che cosa significa, in concreto, “forza di enforcement” a Gaza?
Vuol dire una missione autorizzata a imporre decisioni del Consiglio, con uso della forza oltre l’autodifesa, per garantire sicurezza, demilitarizzazione e protezione dei civili. Implica regole di ingaggio robuste, coordinamento serrato con Israele e con le forze locali, e una catena di comando chiara. È un salto di qualità rispetto al peacekeeping, che presuppone consenso e neutralità operativa.
Quali Paesi hanno più chance di partecipare alla forza?
L’Indonesia ha espresso disponibilità fino a 20.000 militari, il Pakistan sta valutando attivamente e l’Azerbaigian chiede un mandato Onu. La Turchia si è offerta, ma Israele ha già posto un veto alla presenza delle sue truppe. L’Egitto resta partner cruciale per frontiere e mediazione, mentre la Giordania privilegia l’addestramento della polizia palestinese.
Quali sono gli ostacoli diplomatici più immediati?
La definizione del mandato e delle regole di ingaggio, l’accettabilità dei contributori per Israele, il rapporto operativo con la futura polizia palestinese e i tempi del ritiro israeliano. Inoltre, l’eventuale opposizione di membri permanenti del Consiglio può rallentare o annacquare la risoluzione. Senza questi punti fermi, la missione rischia di nascere fragile.
Hamas accetterà il disarmo previsto dal piano?
Ad oggi, dirigenti di Hamas hanno affermato di non poter promettere un disarmo immediato e unilaterale. Pressioni regionali esistono – da Qatar, Egitto e altri – e dichiarazioni arabe hanno affermato che la governance futura di Gaza non deve includere Hamas. Ma il passaggio resta il più delicato e può far crollare l’intero impianto se non gestito con realismo.
Quando potremmo vedere i primi reparti sul terreno?
L’obiettivo indicato da fonti statunitensi è gennaio, ma è una data-obiettivo condizionata all’adozione della risoluzione, alla composizione della coalizione e alla messa a punto del comando. Nel frattempo, gli Stati Uniti tengono personale in Israele per pianificazione e coordinamento, senza dispiegare truppe a Gaza.
Uno scarto di coraggio, non di improvvisazione
Una missione internazionale può cambiare il destino della Striscia di Gaza solo se politica e militare camminano insieme. Servono parole misurate e decisioni nette, perché ogni ambiguità diventa rischio per i civili e per i soldati che dovranno proteggerli. La lezione libanese aiuta a non ripetere errori: mandato lucido, compiti possibili, catena di comando efficace. Il resto è retorica. E la retorica, in guerra, non salva nessuno.
