“Godetevelo a vostro rischio e pericolo”: l’avvertimento sul manifesto degli Shame non è una posa. Alla Santeria Toscana 31 di Milano il gruppo di South London ha intrecciato caos e grazia in un’ora e mezza che scivola via come un urto gentile: fisicità estrema, lucidità espressiva, zero mediazioni.
Avviso servito
L’indicazione “i tappi per le orecchie sono obbligatori” suona come una provocazione, ma è soprattutto una dichiarazione d’intenti: qui tutto vibra senza rete. Gli Shame fanno convivere l’istinto di demolire con l’urgenza di farsi comprendere, e il nuovo capitolo discografico, Cutthroat, affila proprio quel confine. Meno sfogo, più coscienza; meno rumore per occupare spazio, più materia per colpirti al centro. È la grammatica di una band che sceglie di trattenere l’urlo per far pesare ogni sillaba, consegnando canzoni che si insinuano sotto pelle.
La loro storia recente racconta di live “provocatori e crudi”. In sala queste parole smettono di essere etichette e diventano carne: chitarre che incalzano, sezione ritmica che incardina tutto su pulsazioni nette, linee vocali che trasformano l’attacco in racconto. Il post‑punk degli Shame non emula: guarda lontano, piega i riferimenti e li rende personali. Il risultato è un’energia che non pretende di piacere, ma pretende attenzione, perché ogni brano suona come una scelta e non come un riflesso.
Dentro la Santeria: gesti, sudore e quella cortesia che graffia
Quando i musicisti entrano in scena — in apertura i The Cindy’s — la sala trattiene il fiato un istante e poi cede. Melodia e asprezza si inseguono senza tregua, tra fendenti punk e una ritmica da incorniciare. Charlie Steen, a petto nudo, shorts dorati in spandex e un collarino che sembra un contrappunto ironico, gioca con il confine tra palco e platea: sussurra, attacca, si mette a disposizione. Potrebbe cancellare la distanza con due versi, e in più di un passaggio ci riesce. “Questo è il nostro unico show in Italia, quindi conosciamoci”: l’invito è meno formalità, più patto di sangue con il pubblico.
La band alle sue spalle è serrata e precisa, movimenti millimetrici e slanci feroci. Il set parte con una tripletta dal nuovo lavoro: l’avvio al vetriolo di Axis of Evil ha il passo di un ultimatum, un colpo che mette le carte in tavola. La voce di Steen cerca le pareti per provarne la resistenza, e intanto si prende il lusso di baciare la mano a una ragazza in prima fila; poi l’accelerazione di Nothing Better e l’ossessione tirata di Cowards Around tengono alta la tensione. La sala risponde come un’onda e sul palco compare una bandiera della Palestina, segno che quel perimetro è poroso e che fuori e dentro, per una sera, comunicano.
Sequenze e scosse
Con Concrete la pulsazione si fa martello pneumatico, un’idea ritmica che non si limita a sostenere: incalza, pressa, costringe. Tasteless apre una manciata d’aria e ogni brano dal vivo sembra deflagrare, senza perdere il filo. Dal canto a gola tesa della sala allo scambio tra chitarre, tutto sembra orientato a trovare la misura del rischio. Fingers of Steel e Plaster spalancano il cuore del concerto, mentre Alphabet e After Party alzano il tiro: echi funk storti, spintoni, sudore, una gioia fisica che resta addosso.
La parte centrale si rifrange in una doppietta dal volto più introspettivo, Quiet Life e Spartak, e lascia passare una vertigine malinconica che sorprende. Poi ecco Lampião, l’anomalia più riuscita di Cutthroat: un racconto a due lingue che intreccia folk brasiliano e alt‑country senza perdere l’identità della band. È la fotografia perfetta degli Shame di oggi: non devono urlare per farsi sentire, ma quando serve sanno ancora far tremare i muri. Tra tracce di Drunk Tank Pink e i pezzi nuovi, l’equilibrio diventa un dispositivo scenico. Nel finale BiL ed Angie accarezzano e illudono; poi la corsa liberatoria della title track, Cutthroat, chiude tutto in tre minuti di arroganza controllata e groove ruvido.
Chi sono oggi, minuto per minuto, notte dopo notte
Non è più la furia instabile degli esordi, o forse lo è ma mediata da una consapevolezza diversa: guardarsi da fuori per colpire meglio. Sul palco domina la regia della presenza, non la sola potenza. Ogni gesto di Charlie Steen sembra nascere da un’idea precisa di racconto, ogni scelta del gruppo — attacchi, pause, accelerazioni — risponde a una logica che non addomestica, concentra. In questa forma, Cutthroat diventa il disco più diretto della loro storia: senza fronzoli, affilato, capace di misurare il colpo e farlo arrivare dove fa male.
La serata milanese certifica l’appartenenza degli Shame alla corsia veloce della scena post‑punk contemporanea, quella in cui i nomi contano perché sanno reggere la distanza. In platea li guardi come si guarda una band già adulta: spalle larghe, idee chiare, zero pose. Se ami il genere, li segni in agenda e li scrivi accanto a realtà consolidate come Idles e Fontaines D.C., non per somiglianza ma per statura, per quella tenuta sul palco che trasforma un concerto in una storia detta a denti stretti.
Coordinate ufficiali
Cutthroat è uscito il 5 settembre 2025 per Dead Oceans, prodotto da John Congleton e registrato ai Salvation Studios di Brighton: dodici brani asciutti, pensati per vivere sul palco, introdotti dal singolo omonimo con un video firmato Ja Humby e seguiti da Quiet Life e Spartak. Lo hanno raccontato in dettaglio la testata statunitense Pitchfork e le note editoriali di Apple Music, mentre schede e crediti aggiornati circolano sulle pagine di riferimento più consultate.
La corsa dal vivo ha attraversato l’Europa tra settembre e novembre: fra le tappe comunicate c’era anche Milano, con data fissata a lunedì 3 novembre 2025. L’appuntamento, annunciato come unica tappa italiana da voci ufficiali della musica pop‑rock nazionale, è stato spostato dai Magazzini Generali alla Santeria Toscana 31 senza cambiare giorno, come confermato dagli avvisi di Ticketmaster e dalle pagine della venue. I dettagli su album, scaletta e calendario sono stati diffusi e verificati anche dalla britannica NME.
Domande in testa mentre l’amplificatore fuma
È stata davvero un’unica data italiana? Sì: la comunicazione alla stampa specializzata in Italia ha parlato chiaramente di un solo appuntamento, quello di Milano del 3 novembre. L’informazione è stata rilanciata dai canali di settore e ribadita dai comunicati della venue e dei ticketing partner, che hanno anche segnalato il cambio di location dai Magazzini Generali alla Santeria Toscana 31 mantenendo la stessa data. Un passaggio che, nella pratica, non ha intaccato l’attesa: anzi, l’ha concentrata.
Cosa racconta “Cutthroat” dal vivo rispetto ai dischi precedenti? Racconta una band che ha imparato a pesare le parole senza perdere spinta. In studio, il lavoro con John Congleton ha asciugato i contorni, fissando linee che sul palco diventano ancora più taglienti: dal brano omonimo al pulviscolo emotivo di Quiet Life, fino alla tensione narrativa di Spartak. Il materiale nuovo non annulla il passato, lo ingloba: è un lessico rinnovato, pensato per reggere l’urto delle luci e della vicinanza.
Qual è stato il momento che ha cambiato il respiro della sala? Lampião. Quella curva inattesa tra folk brasiliano e alt‑country — cantata su due lingue e senza smarrire il timbro della band — ha spostato l’asse emotivo della serata. È lì che gli Shame hanno mostrato la misura della loro crescita: non serve spingere al massimo per tenere tutto in pugno, basta scegliere il passo giusto e farlo diventare gesto condiviso, fino a quando la platea si riconosce in quel tempo sospeso.
Perché questo concerto resta in testa il giorno dopo? Perché mescola brutalità e delicatezza con una naturalezza disarmante. C’è la corsa liberatoria di Cutthroat, certo, ma ci sono anche gli interstizi: le mani tese dal palco, il canto collettivo che trasforma il ritornello in memoria, il dettaglio di una bandiera che sposta il discorso oltre la musica. Ne esci con l’adrenalina nelle ossa e con un pensiero che arriva più tardi, quando il silenzio ricuce i contorni.
La scia che resta
Uscendo nella notte, l’aria attorno alla Santeria Toscana 31 sembra diversa. Ci portiamo via l’idea di una band che non gioca più a rincorrere la propria immagine, ma la maneggia. Gli Shame hanno imparato a misurare il volume dell’impatto, a scegliere dove e come ferire, e in questo live milanese hanno trovato la quadratura: energia dritta al punto, narrazione che non cede, presenza scenica senza orpelli.
Quello che rimane, il giorno dopo, è una specie di promessa: torneranno, e quando succederà avremo già il segno sul calendario. Nel frattempo, questo concerto è una prova d’autore che consolida lo status del gruppo nella mappa post‑punk degli anni recenti. Una storia raccontata ad alta intensità e con una mano sorprendentemente gentile, capace di far brillare ogni spigolo finché diventa memoria condivisa, non semplice cronaca di una sera.
