Nel fine settimana tra il 1 e il 2 novembre 2025, Donald Trump ha minacciato un possibile intervento militare in Nigeria, annunciando lo stop agli aiuti statunitensi e puntando il dito contro presunte stragi di cristiani. Da Abuja è arrivata una replica immediata: sì alla collaborazione contro il terrorismo, ma nel pieno rispetto della sovranità nazionale.
Un ultimatum che scuote Washington e Abuja
Sabato sera, in un post su Truth Social, Donald Trump ha detto di aver incaricato il Dipartimento della Difesa di preparare opzioni per “azioni rapide” in Nigeria, spingendosi a evocare anche impieghi di truppe o raid aerei. Il giorno dopo, parlando ai giornalisti, ha ribadito la minaccia e la volontà di interrompere gli aiuti a Abuja. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha confermato di “prepararsi all’azione”, mentre la Casa Bianca ha collegato il dossier alla decisione di reinserire la Nigeria nell’elenco dei “Countries of Particular Concern” per la libertà religiosa. La sequenza è stata ricostruita da Reuters e Washington Post, con l’organismo indipendente USCIRF che ha salutato la nuova designazione come “passo importante”.
Da Abuja la risposta è arrivata senza giri di parole. Il presidente Bola Ahmed Tinubu ha respinto la rappresentazione del Paese come intollerante sul piano religioso e il consigliere presidenziale Daniel Bwala ha precisato che un sostegno americano sarebbe benvenuto solo se ancorato alla piena integrità territoriale. Fonti governative hanno minimizzato l’ipotesi di uno sbarco militare americano, parlando di una tattica negoziale. Le reazioni e i toni, fotografati da testate internazionali, mettono in luce un equilibrio sottile tra la necessità di rafforzare la cooperazione antiterrorismo e il rifiuto di qualunque iniziativa unilaterale.
Che cosa dicono i numeri della violenza sul campo
Quando si passa dai proclami ai dati, lo scenario cambia forma. Le rilevazioni del progetto ACLED indicano che le campagne di Boko Haram e della Provincia dell’Africa Occidentale dello Stato islamico vengono spesso presentate come anti-cristiane, ma sul terreno la violenza risulta perlopiù indiscriminata e colpisce intere comunità. Su quasi duemila attacchi contro civili attribuiti alla crisi nigeriana nel 2025, solo una quota ridotta è classificata come aggressione mirata per l’identità cristiana; e le stime gonfiate di decine di migliaia di uccisi “solo perché cristiani” non trovano conferme solide nei dataset. È la lettura offerta da analisti ACLED e rilanciata da media internazionali.
Alla stessa conclusione giunge Malik Samuel, ricercatore di Good Governance Africa che studia Boko Haram da oltre un decennio. In interviste riprese dal Washington Post, Samuel esclude un piano sistematico per “eliminare i cristiani” e ricorda che nelle aree del nord-est più colpite da Boko Haram e ISWAP l’assoluta maggioranza delle vittime è musulmana, per una semplice ragione demografica: lì la popolazione è prevalentemente musulmana. La mappa delle violenze, insiste, cambia da zona a zona e mischia motivazioni religiose, dispute per la terra, criminalità organizzata e politica locale.
Questo mosaico emerge anche da ricostruzioni del Washington Post e dell’Associated Press: nel nord-est agiscono le insurrezioni jihadiste; nel nord-ovest dominano le bande armate dedite a sequestri e razzie; negli stati centrali si cronicizzano scontri tra pastori e agricoltori. Dentro questo quadro frammentato, le cifre nazionali si mescolano con l’emergenza umanitaria: l’ONU ha avvertito di un peggioramento della fame, spinto dal conflitto e dalla contrazione degli aiuti, con milioni di nigeriani in condizioni di insicurezza alimentare acuta.
Le stime che dividono: dalle ONG locali ai grandi giornali
Esistono però numeri ben più alti, riportati da organizzazioni locali e ripresi dalla stampa americana. La International Society for Civil Liberties and Rule of Law (Intersociety) ha stimato nel 2021 che, dal 2009, Boko Haram e altri gruppi siano responsabili dell’uccisione di 43.000 cristiani, con 17.500 attacchi contro chiese; nello stesso periodo, secondo l’ONG, sarebbero stati uccisi anche 29.000 musulmani. Queste cifre, aggiornate nel 2023 a oltre 52.000 cristiani uccisi, sono state citate in un’analisi del Wall Street Journal, diventando riferimento nel dibattito statunitense.
Altri repertori indipendenti restituiscono però una fotografia più articolata. Dati ACLED forniti ai media mostrano, tra il 2020 e il 2025, centinaia di episodi mirati contro cristiani e, parallelamente, attacchi contro musulmani con un bilancio di vittime comparabile o superiore, a conferma di una violenza che attraversa comunità diverse. Diverse testate, da Religion News Service al Washington Post, sottolineano che le evidenze non sostengono la tesi giuridica di un genocidio religioso; un’interpretazione ribadita anche da ricercatori intervistati da DW.
La cornice politica: CPC, cooperazione militare e vincoli operativi
La mossa che ha riacceso i riflettori è la nuova designazione della Nigeria come “Paese di particolare preoccupazione” per la libertà religiosa. L’ente federale USCIRF l’ha definita uno strumento per pretendere accountability e protezione dei fedeli, aprendo la strada a possibili sanzioni calibrate. Il segnale arriva in un contesto in cui, solo due mesi fa, Washington ha approvato una potenziale vendita di munizionamento per 346 milioni di dollari a Abuja per rafforzare le capacità antiterrorismo, a conferma di un canale di cooperazione che non si è mai chiuso davvero.
Nell’ipotesi di un’operazione militare, pesano anche i fattori logistici. Analisti citati da Reuters ricordano che, dopo il ridimensionamento della presenza statunitense nel vicino Niger, colpire reti fluide e disperse come quelle jihadiste e dei “banditi” sarebbe complicato senza un’intesa operativa con le forze nigeriane. La lezione degli ultimi quindici anni, del resto, racconta di un nemico adattivo che si sposta tra Borno, Yobe e le aree limitrofe, eludendo con facilità le offensive lineari.
Dentro la Nigeria: decisioni al vertice e una scossa alle forze armate
Alla fine di ottobre, il presidente Tinubu ha rinnovato in profondità la catena di comando militare. Il cambio ai vertici — con la nomina del generale Olufemi Oluyede a capo della Difesa e nuovi responsabili per esercito, aeronautica e marina — è stato presentato come un tassello per rafforzare l’architettura di sicurezza nazionale. La tempistica ha alimentato discussioni su voci di un tentato golpe poi smentite, mentre il governo ha parlato di normale avvicendamento per imprimere “nuova direzione” allo sforzo bellico interno. Le cronache di Reuters, Al Jazeera e altre testate hanno ricostruito nomi, incarichi e retroscena.
Su un piano politico più ampio, Tinubu ha rivendicato scelte inclusive e una guida rispettosa dell’equilibrio tra comunità religiose. Nelle sue note ufficiali ha respinto la definizione della Nigeria come Paese “intollerante”, sostenendo che lo Stato protegge la libertà di credo e che il problema prioritario resta la capacità di difendere i cittadini dagli attacchi. Il dibattito, dunque, si sposta dalla semplificazione religiosa alla qualità della risposta istituzionale: investigazioni efficaci, giustizia per le vittime, prevenzione, coordinamento di intelligence e recupero del controllo delle aree rurali.
Voci dal Paese: paure, richieste, responsabilità
Il religioso e ricercatore Atta Barkindo, che guida il Kukah Center, ha messo a fuoco il nodo: non esistono evidenze di ordini statali volti a colpire i cristiani, ma lo Stato deve dimostrare di saper proteggere tutti. La domanda, spiega, è come sconfiggere reti terroristiche che da quindici anni logorano il Paese, e come farlo senza alimentare nuove fratture. Parole che si intrecciano con le storie raccolte nelle regioni colpite e che riportano l’attenzione sul bisogno di sicurezza concreta, non di slogan.
L’ex senatore e attivista per i diritti umani Shehu Sani avverte che un’azione militare esterna rischierebbe di accendere insieme sensibilità religiose ed etniche, producendo più problemi che soluzioni. Anche per questo, nel governo c’è chi insiste sulla via del dialogo: Daniel Bwala respinge l’idea di un “genocidio cristiano”, apprezza l’attenzione internazionale ma chiede cooperazione, non imposizioni. È una linea che riflette l’ansia di molte comunità: essere difese senza essere travolte.
Domande rapide per orientarsi
Gli Stati Uniti interverranno davvero in Nigeria? Al momento non ci sono piani operativi pubblici né una finestra temporale definita. Donald Trump ha ordinato al Pentagono di preparare opzioni e ha annunciato la sospensione degli aiuti, ma da Abuja è arrivato un netto richiamo alla sovranità nazionale. Qualunque passo concreto richiederà valutazioni militari, basi logistiche e un perimetro legale chiaro, elementi che, secondo più analisti, non si improvvisano.
La violenza è davvero “anti-cristiana” per definizione? I dati più accreditati mostrano un quadro più complesso: nelle aree di Boko Haram e ISWAP le vittime sono in gran parte musulmane per ragioni demografiche; altrove colpiscono dinamiche criminali e conflitti agrari. Gli analisti di ACLED parlano di violenza perlopiù indiscriminata, mentre ONG locali come Intersociety riportano bilanci molto più elevati e focalizzati sui cristiani, utilizzati nel dibattito politico statunitense.
Che cosa cambia con la designazione “Country of Particular Concern”? La sigla CPC consente a Washington di alzare la pressione diplomatica e, se necessario, imporre sanzioni mirate. Per USCIRF è uno strumento per chiedere protezione dei fedeli e responsabilità penali per i carnefici. Il segnale arriva mentre restano aperti canali di cooperazione militare, come mostra l’ultima autorizzazione a una vendita di munizionamento a Abuja.
Qual è oggi la mappa dei gruppi armati in Nigeria? Nel nord-est operano Boko Haram e ISWAP; nel nord-ovest le bande armate praticano sequestri e taglieggi; nella fascia centrale, gli scontri tra agricoltori e pastori si intrecciano a dispute per terra e acqua. Questi focolai si muovono e si sovrappongono, rendendo difficile distinguere con nettezza motivazioni religiose, criminali e politiche in ogni singolo episodio.
Esistono cifre affidabili sulle vittime cristiane e musulmane? Non c’è un dataset unico e definitivo. Intersociety stima decine di migliaia di cristiani uccisi dal 2009, con migliaia di attacchi a chiese; ACLED e altri repertori indipendenti descrivono però un quadro di violenza trasversale che coinvolge anche i musulmani. La distanza tra metodologie e fonti spiega le divergenze, motivo per cui molti ricercatori evitano conclusioni assolute.
Quali rischi porterebbe un’operazione militare statunitense? Gli esperti paventano escalation e fratture interne, specie se l’azione non fosse concordata con Abuja. Senza basi regionali robuste e un’intelligence condivisa, colpire formazioni mobili e ramificate sarebbe arduo; nel peggiore dei casi, un intervento mal calibrato potrebbe alimentare la narrativa dei gruppi estremisti e mettere in pericolo le comunità che si intende proteggere.
Tra paura e responsabilità: ciò che conta adesso
Al netto delle narrazioni contrapposte, resta un fatto: in Nigeria si muore ancora troppo, e troppo spesso lontano dai riflettori. Che si parli di villaggi bruciati nel Borno o di campi deserti nello Yobe, le ferite sono comuni: famiglie spezzate, scuole chiuse, comunità in fuga. In questi giorni carichi di parole, ciò che chiedono le persone è protezione reale. La politica — a Washington come ad Abuja — ha il dovere di trasformare le dichiarazioni in risultati misurabili, di ridurre le vittime e restituire normalità.
In un Paese di oltre 237 milioni di abitanti, multietnico e multireligioso, non bastano gli slogan. Servono azioni coordinate, giustizia credibile, risorse per la prevenzione e per l’assistenza umanitaria. È qui che si misura la differenza tra potenza delle parole e forza dei fatti: nella capacità di proteggere chi prega in una chiesa o in una moschea, chi coltiva un campo o attraversa una strada, senza distinzione alcuna.
