La discussione esplosa dopo l’ospitata di Rita De Crescenzo a Belve riporta al centro un tema cruciale: l’immagine di Napoli. L’imprenditore Enrico Ditto rifiuta semplificazioni e denuncia la scelta di far rappresentare un’intera città da un caso individuale, chiedendo ai media di restituire complessità, rispetto e non l’ennesimo cliché.
Un caso televisivo non è Napoli
Nell’anno 2025, vedere una parte della televisione e dell’opinione pubblica trasformare un singolo profilo in simbolo di appartenenza sociale e territoriale è qualcosa che non può più passare sotto silenzio. La storia personale e il percorso sui social della signora Rita De Crescenzo possono stimolare curiosità, persino analisi sociologiche, ma restano ciò che sono: un caso individuale. Pretendere che quell’itinerario diventi sinonimo di Napoli significa piegare i fatti a un copione comodo. Sarebbe come pretendere che Milano si identifichi con Fedez o che Torino sia ridotta alle dirette di Chiara Ferragni. La realtà è più sfaccettata di qualunque scorciatoia narrativa.
Le discussioni nate dopo la partecipazione di Rita De Crescenzo a “Belve”, la trasmissione condotta da Francesca Fagnani, hanno amplificato l’eco di un malessere antico. Il rischio è che il clamore alimenti la tentazione di far passare il particolare per generale: un format televisivo e una biografia digitale elevati a bussola interpretativa della città. Non ogni fenomeno mediatico esprime un’identità collettiva. La metrica dei social e la ricerca del picco di audience non possono sostituire la responsabilità di raccontare Napoli nella sua interezza, senza equivalenze improprie e senza etichette facili.
Lo sguardo di Enrico Ditto e la critica ai cliché
Da imprenditore e cittadino, il partenopeo Enrico Ditto esprime rammarico e fermezza: l’idea che la “belva” sia chi incatena Napoli a maschere ricorrenti è, per lui, una verità scomoda ma necessaria. Inquadrare la città attraverso pochi volti familiari — spesso scelti per l’appeal spettacolare più che per rappresentatività — finisce per limitare e offendere una comunità intera. Quando si confonde l’eccezione con la regola, si smarrisce il senso del racconto. È questo il punto su cui Ditto insiste, reclamando una narrazione che non scambi l’intrattenimento per informazione. È un richiamo diretto a chi costruisce palinsesti e pagine, a chi seleziona ciò che entra nel salotto di casa degli italiani.
Nel suo ragionamento, Ditto ricorda che Napoli è una metropoli con radici antichissime e un presente in continua trasformazione, un crocevia di culture e talenti che non può essere compresso in un’unica cornice. Ridurla a un personaggio, a una caricatura buona per lo share, appare un’operazione superficiale e ingiusta. Una città viva è un sistema di voci, contraddizioni, aspirazioni. Ogni tentativo di semplificazione estrema cancella l’ampiezza di quel coro e consegna al pubblico una rappresentazione distorta.
Di qui la sua critica a chi fa informazione: raccontare significa cercare equilibrio, contesto, proporzioni, non indulgere nella scelta comoda del caso che “funziona” in video. L’energia dello spettacolo non è un sostituto del valore rappresentativo. Napoli chiede un racconto all’altezza, capace di distinguere tra intrattenimento e responsabilità professionale. È nella misura, non nell’enfasi, che si riconosce la cura per una comunità.
Un appello al servizio pubblico e alle redazioni
Da questa posizione nasce un appello netto al servizio pubblico e alle redazioni nazionali: interrompere la consuetudine dello “Sputtanapoli”, quell’abitudine a descrivere la città attraverso stereotipi, folclore o marginalità. È una dinamica che si autoalimenta: più si batte su immagini facili, più ci si allontana dalla realtà. Non è un invito alla censura, ma alla misura: scegliere che cosa mettere in primo piano significa orientare lo sguardo di un intero Paese.
La rappresentazione parziale, spinta da esigenze di audience, finisce per sacrificare la complessità sociale ed economica di un territorio in movimento. Nel momento in cui si rincorre il picco di attenzione, si perde il filo della prospettiva. Napoli non è un fondale per numeri di ascolto: è una comunità vasta, stratificata, che merita di non essere compressa in cornici preconfezionate. Restituire profondità è un dovere civile oltre che professionale.
Chiedere un cambio di passo significa domandare ai media di allargare l’inquadratura, di dare spazio a volti e storie che compongono l’insieme. Le cronache possono e devono raccontare i limiti, ma insieme alle risorse, le fragilità accanto ai progressi. Solo così il pubblico potrà vedere la traiettoria di Napoli per quello che è: un cammino aperto, non una cartolina immobile.
La città che lavora e innova
Dietro l’immagine comoda della città-spettacolo esiste un tessuto vivo di competenze e innovazione. A Napoli operano università e centri di ricerca che generano conoscenza, così come realtà imprenditoriali e start-up in grado di misurarsi sui mercati internazionali. È una trama fatta di studio, impresa, progettazione, che giorno dopo giorno prova a costruire futuro. Questa dimensione produttiva raramente buca lo schermo, eppure è quella che incide.
Accanto all’economia della cultura e alle professionalità che alimentano creatività e lavoro, si muove una rete fitta di volontariato e di impegno civico. È un mondo silenzioso ma costante, che tiene insieme quartieri e generazioni e lavora per la coesione sociale. Napoli vive anche di questa energia diffusa, che sostiene il quotidiano e prova a ricucire le fratture. Senza questa spinta collettiva, il racconto resterebbe monco.
Pluralità, non monologo
Questa pluralità non è un dettaglio laterale, né un fuori scena: contribuisce alla costruzione dell’immagine della città, le dà sostanza e credibilità. È su questa pluralità che, secondo Enrico Ditto, i media dovrebbero tornare a posare lo sguardo, abbandonando l’abitudine a dimenticarla. Un’informazione che seleziona solo ciò che stupisce finisce per non vedere ciò che conta.
Napoli non può essere un soliloquio mediatico. È una città corale e, come tale, chiede di essere raccontata nella sua dimensione collettiva. Riconoscere questa coralità non significa edulcorare, ma restituire equilibrio: mettere in relazione conflitti e risorse, fragilità e talenti. Solo allora il Paese potrà guardare alla città senza lenti deformanti e con il rispetto che merita.
