La frase è secca, quasi un verdetto: «Direi di sì». Alla domanda della conduttrice di 60 Minutes Norah O’Donnell se i giorni di Nicolás Maduro alla guida del Venezuela siano contati, Donald Trump risponde senza esitazioni. L’intervista, registrata a Mar‑a‑Lago il 31 ottobre e trasmessa la sera di domenica 2 novembre, mette il dossier Caracas in cima alla scena mondiale. E lo fa con un doppio messaggio: pressione massima sul regime chavista, ma freno tirato sull’idea di un conflitto aperto.
Trump insiste: «Non credo» che gli Stati Uniti stiano per entrare in guerra con il Venezuela. Allo stesso tempo, non conferma né smentisce possibili attacchi, mentre la postura militare americana nei Caraibi resta muscolare. Gli elementi ci sono tutti: parole misurate sul “se” e “come” usare la forza, e una frase – «Maduro ha i giorni contati» – che sposta il baricentro politico. È un segnale calcolato, che parla tanto a Caracas quanto ai generali venezuelani e ai partner dell’area.
Cosa ha detto davvero Trump
Nel passaggio più discusso dell’intervista, il Presidente accetta l’assunto dell’intervistatrice: i giorni di Maduro sono contati? «Direi di sì. Penso di sì, sì». È una frase breve, ma non equivoca. Arriva a fine giornata di domande serrate su esteri, sicurezza e dossier caldi, e si lega alle settimane di crescente pressione su Caracas. Il riferimento temporale è chiaro: registrazione il 31 ottobre, messa in onda il 2 novembre, con il segmento venezuelano subito ripreso dalle principali testate globali e dai network americani.
Nello stesso botta e risposta, Trump ridimensiona l’ipotesi di un conflitto su larga scala: quando O’Donnell chiede se gli Stati Uniti andranno in guerra con il Venezuela, la replica è «Ne dubito. Non credo». Poi una porta lasciata socchiusa: nessuna conferma né smentita su eventuali strike, con la classica formula “non ne parlo con un reporter”. Il messaggio è duplice: deterrenza e ambiguità strategica.
Il quadro militare: navi, aerei, posture
Mentre scorrevano le immagini di 60 Minutes, la mappa del potere nel Mar dei Caraibi era già cambiata. Otto navi da guerra, un sottomarino nucleare e l’arrivo annunciato del supercarrier USS Gerald R. Ford – la più grande portaerei al mondo – hanno alzato la soglia dell’attenzione regionale. Un dispositivo che supera la semplice interdizione antidroga e che, numeri alla mano, rappresenta un’escalation rispetto alle settimane precedenti.
Nel frattempo, le operazioni in mare contro imbarcazioni ritenute legate al narcotraffico hanno già provocato decine di morti. Stime convergenti parlano di oltre una dozzina di barche intercettate e almeno 61 vittime dall’inizio dell’autunno; un conto che ha acceso anche l’attenzione delle Nazioni Unite, con rilievi durissimi su presunte esecuzioni extragiudiziali in acque internazionali.
Caracas e gli alleati: la contro‑narrazione
Da Caracas, la linea ufficiale è di sfida e mobilitazione: massima prontezza, nessuna resa sul terreno della sovranità. Maduro e la sua squadra parlano apertamente di minaccia e provocazioni, contestano le giustificazioni “antidroga” di Washington e chiamano a raccolta i partner storici. A Mosca, il Cremlino ha definito “eccessivo” l’uso della forza americana nel Caribe, ribadendo il sostegno al governo venezuelano e inquadrando la crisi in una partita geopolitica più ampia.
C’è però anche un altro binario, più silenzioso: canali di contatto politico che non si sono mai davvero chiusi. A settembre, in piena escalation, Maduro ha fatto sapere di essere disponibile a colloqui diretti con l’inviato speciale Richard Grenell. Segnali intermittenti, certo, ma sufficienti a ricordare che, tra pressione e deterrenza, la diplomazia resta una carta sul tavolo.
Cosa significa “giorni contati” nel lessico di potere
La frase di Trump non è un oracolo e non indica un calendario. È, piuttosto, un avvertimento politico: un messaggio indirizzato a più pubblici – l’élite civile e militare venezuelana, gli alleati regionali, l’opinione pubblica americana – per suggerire che il ciclo di Maduro è vicino al capolinea. Il senso è: il costo della lealtà al regime sta salendo, la protezione esterna scricchiola, e chi oggi temporeggia potrebbe ritrovarsi domani senza rete. È linguaggio di potere, che mira a spostare equilibri senza sparare un colpo.
Per noi, vuol dire leggere ogni tassello come parte di una regia: la componente militare crea pressione, quella informativa definisce cornici, le mosse giudiziarie (come la taglia da 50 milioni offerta dagli USA per l’arresto di Maduro) completano l’architettura. Il tutto con un caveat: gli strumenti esistono, ma la decisione di impiegarli fino in fondo dipenderà da segnali che arrivano da Caracas e dalle reazioni di attori terzi.
Cosa guardare adesso, con lucidità
Primo: il posizionamento della Gerald R. Ford. Se la portaerei – e il suo gruppo – entrerà stabilmente nel perimetro operativo più vicino al Venezuela, la pressione diventerà quasi tattile. Secondo: le comunicazioni ufficiali di Casa Bianca e Pentagono, specie sugli obiettivi dell’operazione e sulle regole d’ingaggio in mare. Terzo: la risposta di Caracas e degli alleati, in particolare Mosca, che finora ha usato il registro del sostegno politico e informativo, e che potrebbe calibrare anche mosse sul piano militare non cinetico.
Quarto: i canali diplomatici. Se il perimetro resta quello di deterrenza e logoramento, un canale di uscita – amnistie, garanzie personali, road‑map di transizione – torna a essere plausibile. È un terreno scivoloso, e nessuno interessebbe a un collasso caotico del Paese. Ma è anche il punto in cui una frase come «giorni contati» può trasformarsi da monito a opzione politica per chi, dentro il sistema, sta facendo i conti con il dopo.
