La notizia è arrivata secca: i resti consegnati a Israele nelle ultime ore non appartengono a ostaggi. Gli accertamenti forensi israeliani lo hanno stabilito dopo l’ingresso dei corpi attraverso la Croce Rossa da Gaza. Una precisazione che pesa sul piano politico e umano, perché riaccende il tema della verità sui dispersi e delle responsabilità su ogni scambio di salme. E lo fa mentre, poco più a nord, lungo la frontiera libanese, il fragile equilibrio militare torna a scricchiolare.
In parallelo, sul confine tra Libano e Israele si è riaperto un fronte nervoso. Dopo l’incursione armata israeliana a Blida, nel sud del Libano, UNIFIL ha parlato apertamente di violazione della Risoluzione 1701, mentre da Beirut è arrivato l’ordine al LAF, l’esercito libanese, di confrontare future intrusioni. Sul terreno, bombardamenti e colpi di artiglieria – non quotidiani, ma ricorrenti – continuano a segnare la tregua entrata in vigore nel 2024. Tutto converge in un punto: lo stato del riarmo di Hezbollah e le sue conseguenze immediate.
Il fatto del giorno e il clima che lo circonda
Il responso forense sui corpi “non di ostaggi” sposta l’attenzione sul modo in cui il conflitto viene raccontato e gestito. Hamas ha consegnato i resti attraverso la Croce Rossa, ma dagli esami del DNA non emergono corrispondenze con gli ostaggi finora identificati. Nessuna conferma ufficiale israeliana oltre alle indiscrezioni dei media, tuttavia i laboratori hanno escluso l’appartenenza ai rapiti. Un passaggio che, di colpo, rimette al centro la tracciabilità delle vittime e la trasparenza degli scambi.
Intanto, raid e tiri d’artiglieria su Gaza e sul Libano non si sono del tutto fermati. La tregua regge a fatica, tra sporadiche fiammate e segnali contrastanti. Nel sud libanese la popolazione alterna rientri e nuove fughe, mentre i villaggi lungo la Linea Blu vivono con la paura di un nuovo ciclo di attacchi. È il contesto dentro cui leggere ogni dettaglio, compreso il ritorno di salme e i messaggi politici che ogni consegna porta con sé.
Il riarmo di Hezbollah: cosa sappiamo con certezza adesso
Negli ultimi giorni, fonti di intelligence regionali e occidentali indicano che Hezbollah sta ricostituendo scorte e capacità: rifornimenti di razzi, missili anticarro e artiglierie leggere; flussi di materiali che passano attraverso la Siria e, in parte, via mare, con un tassello di produzione locale riattivata. È un movimento che rende più fragile la tregua e alimenta l’irritazione israeliana. Le stesse informazioni convergono su un punto: l’apparato del Partito di Dio sta ristrutturando reti, depositi e logistica per tornare pienamente operativo.
La mappa dei corridoi di rifornimento non è nuova. Israele ha colpito in passato i varchi di frontiera tra Siria e Libano per interrompere il passaggio di armi; una campagna che ha incluso attacchi mirati ai crossing points e alle rotte vicino a al-Qusayr, nel tratto più sensibile del confine. Oggi quelle vie restano al centro dell’attenzione, con l’aggiunta del rischio marittimo e di una rete logistica più diffusa. L’insieme, incrociato con le attività in corso in Bekaa e nel Sud, delinea un riarmo a mosaico.
Il piano di disarmo del governo e i limiti operativi sul terreno
Sul fronte istituzionale, il LAF sta portando avanti un piano in cinque fasi per riportare tutte le armi sotto controllo statale, partendo dall’area a sud del Litani. Il lavoro in corso nel Sud ha già prodotto risultati concreti, ma con un paradosso: l’esercito ha esaurito gli esplosivi per far brillare i depositi scoperti e, in attesa degli approvvigionamenti, sigilla i siti invece di distruggerli in situ. Nelle ultime settimane sono stati localizzati nuovi covi di armi e decine di tunnel sono stati chiusi.
L’obiettivo immediato è completare la bonifica del Sud entro dicembre, senza forzare il quadro politico nelle regioni dove la presenza di Hezbollah è più radicata. Il gruppo sciita, dal canto suo, ribadisce che ogni disarmo oltre il Litani necessita di un consenso nazionale e di garanzie di sicurezza; una linea che, se irrigidita, può produrre attrito sociale e rischi di scontro interno. Nel frattempo, la scarsità di mezzi del LAF e la lentezza delle forniture pesano sulla tempistica.
Blida, UNIFIL e il tema della sovranità
La notte a Blida è diventata uno spartito di colpi e accuse. UNIFIL ha denunciato l’incursione armata israeliana a nord della Linea Blu come una violazione della 1701, richiamando tutti al cessate il fuoco e alla piena estensione dell’autorità dello Stato libanese. A Beirut, la Presidenza ha ordinato all’esercito di confrontare eventuali nuove intrusioni; un segnale politico che va letto insieme alla strategia sul disarmo.
Da parte sua, Israele sostiene di aver colpito infrastrutture di Hezbollah e parla di un “sospetto” contro il quale i soldati avrebbero aperto il fuoco, con l’episodio ancora sotto revisione interna. In mezzo, la morte di un dipendente comunale libanese ha esasperato gli animi in una zona già provata. È il tipo di incidente che logora la tregua e complica i lavori del LAF e di UNIFIL sul campo.
Perché tutto questo conta adesso
Se Hezbollah rimette in piedi arsenali e catene logistiche mentre lo Stato tenta di riassorbire le armi sotto il suo controllo, la tregua del novembre 2024 entra in una fase di stress. Il rischio non è solo militare: riguarda la ricostruzione, i rientri nei villaggi, la credibilità delle istituzioni e, in definitiva, la possibilità che il confine torni a una normalità minima. Questo è il banco di prova che tutti – Beirut, Gerusalemme, Washington, la missione ONU – dicono di voler superare.
C’è un’ultima connessione da tenere a mente. Il fatto che i corpi consegnati non siano di ostaggi ricorda quanto la verità, in questa fase, sia fragile. Nel vuoto creato da mezze notizie e smentite, ogni camion che passa al confine siriano, ogni container che attracca in un porto, ogni deposito scoperchiato dal LAF cambia il quadro di poche ore dopo. Sta qui la misura del momento: monitorare, verificare, evitare strappi. Con la consapevolezza che, da ambo i lati, basta poco per riaccendere il fronte.
