Una nuova incrinatura attraversa la memoria di un delitto che ha segnato la Sicilia. L’indagine sulla morte di Piersanti Mattarella rimette al centro una prova svanita e un sospetto antico: non fu soltanto mafia. Le parole dell’ex pm Leonardo Agueci tornano oggi con più peso, coerenti con atti giudiziari recenti che chiamano in causa responsabilità pubbliche.
Un quadro che si allarga
Il 24 ottobre 2025 la Direzione Investigativa Antimafia ha notificato gli arresti domiciliari all’ex prefetto ed ex funzionario della Squadra Mobile di Palermo, Filippo Piritore, indagato per depistaggio nelle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella. Secondo la Procura, una prova determinante – il guanto rinvenuto sulla Fiat 127 dei killer – non fu repertata né sequestrata. Gli inquirenti parlano di attività “gravemente inquinate”, con la sottrazione di un reperto chiave e la dispersione delle sue tracce, ipotesi oggi al centro dell’inchiesta.
In questo scenario si innesta la lettura di Leonardo Agueci. Il magistrato, che nel 1998 in appello chiese la condanna del neofascista Giusva Fioravanti come esecutore materiale rifacendosi alle impostazioni di Giovanni Falcone e Gioacchino Natoli, sostiene che i nuovi sviluppi confermano una verità non riducibile a “solo mafia”. A suo avviso, la consapevolezza su contatti tra Cosa nostra e ambienti eversivi è cresciuta anche alla luce delle decisioni sulla strage di Bologna, rese definitive in Cassazione nel 2025.
Depistaggi, prove scomparse e il nodo del guanto
La storia del guanto – descritto dagli atti come un indumento di pelle scura per la mano destra, fotografato sull’auto di fuga – è tornata centrale. Per l’accusa, quel reperto non seguì l’iter ordinario e se ne persero le tracce. Nella stessa cornice investigativa emerge anche il nome di Bruno Contrada, presente tra gli investigatori di quella mattina; la sua vicenda giudiziaria è complessa: già condannato per concorso esterno, la condanna è stata poi revocata dalla Cassazione nel 2017, dopo la pronuncia della Corte europea.
Le traiettorie processuali furono divergenti: inizialmente l’attenzione puntò sui vertici mafiosi, poi – dopo le dichiarazioni del 1982 di Cristiano Fioravanti – si aprì la pista del terrorismo “nero”. La vedova Irma Chiazzese disse di aver visto in volto il killer, ma i giudici assolsero Fioravanti e Gilberto Cavallini mentre vennero condannati in via definitiva i capi di Cosa nostra come mandanti. Oggi, quelle pagine si rileggono alla luce di riscontri e iniziative investigative riaperte.
Domande cruciali, risposte necessarie
Cosa cambia con la misura per Filippo Piritore? Non è una sentenza, ma un passaggio che pesa. La Procura di Palermo contesta a Piritore di avere deviato gli accertamenti, contribuendo alla scomparsa del guanto recuperato sulla Fiat 127. La misura ai domiciliari, notificata dalla DIA il 24 ottobre 2025, poggia su un quadro indiziario definito dai magistrati grave e plurimo. Toccherà al processo verificare gli addebiti nel contraddittorio tra accusa e difesa.
Esiste un filo tra mafia ed eversione nera evocato da Agueci? Gli atti più recenti sulla strage di Bologna hanno consolidato la responsabilità degli esecutori neofascisti e, nelle motivazioni, documentano relazioni con settori deviati dei servizi e la loggia P2. Nel gennaio 2025 la Cassazione ha reso definitiva la condanna all’ergastolo per Gilberto Cavallini e, il 1° luglio 2025, per Paolo Bellini. Questo quadro rafforza il contesto richiamato da Agueci.
Verità possibili, memoria che insiste
All’inizio del 2025 la Procura ha iscritto tra gli indagati due storici sicari di Cosa nostra, Nino Madonia e Giuseppe Lucchese, sospettati di avere preso parte all’attentato di via Libertà. Il filone si innesta sulla ricostruzione dei mandanti, già condannati in via definitiva, e conferma quanto complesso sia l’intreccio: sovrapposizioni, piste incrociate, silenzi. La giustizia prova a ricomporre tasselli dispersi nel tempo, cercando riscontri tecnici e testimonianze che reggano al vaglio del dibattimento.
Noi raccontiamo questa vicenda restando aderenti ai fatti e a chi li ha scolpiti nelle aule di giustizia. L’immagine di un guanto dimenticato su un sedile, la corsa di un’auto nel traffico di Palermo, l’attesa di una famiglia: tutto parla di una verità che pretende pazienza e rigore. Se davvero non fu “solo mafia”, come osserva Agueci, lo diranno i giudici. Intanto la memoria insiste, e chiede responsabilità, senza smarrire l’essenziale.
