Un ripiegamento invisibile del nostro Dna potrebbe raccontare, fin dalla diagnosi, se un tumore della prostata resterà indolente o se tenderà a correre. Un gruppo di ricercatori italiani ha messo questo indizio sotto la lente, ricostruendo l’architettura tridimensionale del genoma a partire da una sola biopsia e traducendola in una bussola clinica.
Il segnale che mancava nella prima visita
Chi riceve un valore di Psa fuori norma, un esame rettale sospetto o un referto bioptico non univoco entra in un territorio dove le scelte pesano: operare, irradiare, sorvegliare. La clinica lo sa da anni: la malattia è spesso multifocale, la sua traiettoria non è sempre prevedibile e, per timore di perdere il momento giusto, si finisce talvolta per trattare eccessivamente chi avrebbe potuto essere seguito in sicurezza. È un equilibrio sottile, confermato anche dalla letteratura, che chiede strumenti più fini per distinguere davvero i rischi, non solo stimarli.
Nel frattempo i numeri ricordano l’urgenza. Nel 2022 il Global Cancer Observatory dell’Iarc/Organizzazione mondiale della sanità ha stimato circa 1,5 milioni di nuove diagnosi di carcinoma prostatico nel mondo, il 7,3% di tutti i tumori. In Europa, considerando l’intero continente, si parla di circa 450mila diagnosi ogni anno; restringendo lo sguardo all’Unione europea, le stime della Commissione europea (ECIS) per il 2022 indicano circa 330mila nuovi casi. In Italia, il 2024 ha fatto registrare stime attorno a 40.192 nuovi casi, primo tumore maschile per incidenza. Sono dati che danno contesto a ogni decisione presa in ambulatorio.
Dentro il nucleo: la forma della cromatina come traccia del rischio clinico
Il lavoro italiano pubblicato su Nature Communications il 16 ottobre 2025 ha portato il ragionamento un passo oltre: non solo mutazioni e istologia, ma la vera e propria “geografia” del Dna nel nucleo. Con una biopsia dedicata, accanto a quelle diagnostiche, il team ha letto l’organizzazione tridimensionale della cromatina e ha riconosciuto due sottotipi: Low Degree of Decompartmentalization (LDD) e High Degree of Decompartmentalization (HDD). La mappa è stata ottenuta grazie a 4f-SAMMY-seq, una tecnologia sviluppata e affinata in Italia per intercettare come il genoma si compatta o si apre, anche con campioni cellulari molto ridotti.
Qui sta l’intuizione più controintuitiva emersa dallo studio: il sottotipo con maggiore riorganizzazione della cromatina (HDD) mostra una minore spinta oncogenica, con segnali di repressione di vie legate al rimodellamento della matrice extracellulare e alla plasticità cellulare. Da questa lettura nasce una firma di 18 geni capace di distinguere HDD da LDD e di riflettersi nella prognosi, validata su oltre 900 pazienti di coorti indipendenti. Il lavoro porta la firma congiunta di Cnr, Ifom, Ingm e Irccs Policlinico di Milano, con un contributo cruciale di giovani autori e con il sostegno della Fondazione AIRC attraverso grant competitivi e fellowship.
Cosa cambia per le decisioni terapeutiche
Se una firma trascrizionale ricavata già al momento della biopsia può separare i casi a basso rischio da quelli destinati a progredire, il colloquio tra medico e paziente acquista uno strumento in più: decidere quando curare con intensità e quando invece scegliere la sorveglianza attiva. La prudenza resta d’obbligo, ma la direzione è chiara: meno trattamenti non necessari, più terapie mirate dove servono. Anche i dati a lungo termine del trial ProtecT indicano che, per molte forme localizzate, monitorare con rigore non compromette la sopravvivenza a 15 anni rispetto a chirurgia o radioterapia.
Gli autori segnalano ora la necessità di validazioni ulteriori, soprattutto su pazienti già sottoposti a trattamenti farmacologici, per identificare chi trae più beneficio dalle terapie e per avvicinare l’implementazione clinica di questo test. È un passaggio essenziale, perché integrare una firma di 18 geni nei percorsi reali significa confrontarsi con variabili organizzative, qualità dei campioni e interoperabilità dei dati, senza perdere la robustezza dimostrata nelle coorti indipendenti. La prospettiva, tuttavia, è concreta: una stratificazione del rischio più fedele alla biologia del tumore.
Lo studio, dal tavolo di dissezione al dato che orienta
Il disegno sperimentale è lineare e al tempo stesso raffinato. I ricercatori hanno raccolto biopsie ago‑guidate da 25 pazienti naïve alle terapie, affiancando alle 14 core diagnostiche una biopsia di ricerca processata per analisi multi‑omics: profilo epigenomico con 4f‑SAMMY‑seq, Rna‑seq e citofluorimetria per la composizione cellulare. La coorte include anche controlli non neoplastici. L’obiettivo? Fotografare come la cromatina si compartimentalizza su larga scala e se questa immagine iniziale corrisponde a traiettorie cliniche diverse. Un modo per colmare quello spazio tra vetrino e decorso reale.
Un dato interessante riguarda proprio la complessità del tessuto: in alcuni casi la biopsia dedicata non mostrava cellule neoplastiche all’analisi istopatologica, ma esprimeva marcatori tumorali tipici, ed è stata mantenuta nelle analisi proprio per questa ricchezza informativa. Nei controlli, l’organizzazione della cromatina risulta conservata; nei campioni tumorali emergono invece alterazioni specifiche per paziente che, una volta integrate con la componente trascrizionale, permettono la classificazione in LDD e HDD e la costruzione della firma a 18 geni.
Domande rapide per orientarsi
Che cos’è 4f‑SAMMY‑seq? È una tecnologia di sequenziamento che separa e mappa le regioni di cromatina più “aperte” o più “chiuse” in base a proprietà biochimiche, ricostruendo anche come questi domini si organizzano nello spazio del nucleo. È stata descritta nel 2024 su Nucleic Acids Research e consente di lavorare con pochi decine di migliaia di cellule, un aspetto decisivo quando il materiale bioptico è limitato.
Cosa si intende per “decompartimentalizzazione” del genoma? Nel nucleo, il Dna non è distribuito a caso: domini attivi ed eterocromatici occupano quartieri diversi. Quando questi confini si allentano o si ridefiniscono, cambia la fisica del genoma e, con essa, l’espressione dei geni. Lo studio identifica due gradi di questo fenomeno (LDD e HDD) e mostra che un’ampia riorganizzazione può associarsi a minore spinta oncogenica in fase iniziale.
Quanto è solida la firma di 18 geni? La firma nasce dall’integrazione di misure epigenomiche e trascrizionali ottenute alla diagnosi e viene validata su coorti indipendenti per un totale di oltre 900 pazienti, confermando la capacità di distinguere sottotipi con diverso comportamento biologico. L’articolo, pubblicato su Nature Communications, dettaglia metodi, affiliazioni (Cnr, Ifom, Ingm, Irccs Policlinico di Milano) e i finanziamenti, inclusi grant e fellowship sostenuti da Fondazione AIRC.
Cosa cambia per chi ha già una diagnosi di tumore localizzato? Nel breve non sostituisce i percorsi attuali, ma aggiunge un tassello per scegliere meglio. La sorveglianza attiva resta un’opzione sicura per molte forme localizzate, come indicano i risultati a 15 anni del trial ProtecT, con mortalità specifica paragonabile a chirurgia e radioterapia; uno strumento di stratificazione più preciso può ridurre trattamenti non necessari e indirizzare per tempo chi invece ha bisogno di terapia.
Un modo nuovo di guardare la stessa malattia
Il merito di questo studio non è solo aver introdotto una tecnologia, ma l’aver dato dignità clinica a un’idea semplice: la forma racconta la funzione. Quando la biologia ci offre un indizio capace di orientare trattamenti e attese, il nostro mestiere è verificarlo, contestualizzarlo e, se regge, portarlo vicino alle persone. I dati globali e europei ci ricordano che il tempo è prezioso; il lavoro di questi ricercatori dice che si può usarlo meglio, scegliendo cosa fare e, soprattutto, quando farlo.
