Due anni di guerra hanno scavato ferite profonde. Oggi il lessico della diplomazia convive con parole taglienti, perché il cessate il fuoco è fragile e il tempo non perdona. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha scelto una linea senza giri: Hamas deve rispettare gli impegni presi nel quadro dell’intesa, disarmarsi e agevolare i passaggi concordati. Se non succede, la risposta – ha scritto – sarà “fast, furious & brutal”. Non è una formula di rito: è un messaggio diretto, pensato per arrivare a Gaza, a Gerusalemme e alle capitali che stanno tenendo il tavolo acceso.
Noi seguiamo i passaggi uno per uno. La tregua regge a fatica, eppure regge. Il cuore dell’accordo è chiaro: scambio di prigionieri e ostaggi (vivi e resti), progressiva smilitarizzazione di Hamas, riassetto della sicurezza con una cornice internazionale che non prevede truppe statunitensi dentro la Striscia. Nel frattempo, gli emissari americani lavorano ai passi successivi dell’intesa mentre il vicepresidente JD Vance è in Israele per rafforzare la tenuta del compromesso. Voi, da lettori, avete bisogno di capire cosa c’è davvero in ballo: chi fa cosa, dove si muove il confine tra minaccia e deterrenza, quando scatterebbero le clausole più dure, perché questo passaggio può cambiare il corso del conflitto.
Le parole e il perimetro dell’avvertimento
Trump ha scandito due messaggi che si tengono insieme: disarmo e rispetto dell’accordo. Il primo: “Se non si disarmano, li disarmeremo noi. Rapidamente e, forse, con la forza”. Il secondo, più netto, è il post in cui ha parlato di una fine di Hamas “rapida e brutale” se l’organizzazione non farà “la cosa giusta”. In mezzo, c’è la minaccia dell’azzeramento militare nel caso di nuove violazioni: un segnale destinato anche alle fazioni che agiscono ai margini, dalle milizie locali ai clan armati che provano a riempire i vuoti di potere. L’obiettivo dichiarato è togliere dalle mani di Hamas la capacità di fuoco e riportare la gestione della sicurezza dentro un binario controllabile.
C’è però un punto chiave che cambia la prospettiva: niente soldati americani dentro Gaza. Trump ha chiarito che eventuali interventi sul terreno sarebbero affidati a partner regionali sotto coordinamento statunitense. È una cornice che tiene insieme la pressione sull’organizzazione palestinese e la volontà di non trascinare Washington in un’operazione diretta. La leva, insomma, è politica e militare, ma con un perimetro definito: “non toccherà a noi entrare”. Questo equilibrio serve anche a tenere agganciati i mediatori – Egitto, Qatar, Turchia – che hanno firmato con la Casa Bianca il documento che ha formalizzato la tregua.
Il quadro sul terreno: tregua fragile, aiuti insufficienti, valichi chiusi
Le ore passano con la costante alternanza tra passi avanti e passi indietro. Sulla carta, la prima fase dell’intesa ha consegnato risultati: rilascio degli ostaggi sopravvissuti e avvio dello scambio dei resti dei prigionieri deceduti. Nella pratica, questa parte procede a scatti. Israele chiede consegne più rapide, Hamas replica che per recuperare corpi sotto le macerie servono attrezzature che non entrano con la regolarità promessa. Intanto, il valico di Rafah resta chiuso: riaprirlo è una chiave che sbloccherebbe trasferimenti sanitari e flussi umanitari oggi ben al di sotto del fabbisogno stimato dalle agenzie ONU.
Sul fronte degli aiuti, i numeri raccontano uno scarto evidente tra quanto entra e quanto servirebbe per fermare la fame e stabilizzare i servizi essenziali. Le organizzazioni umanitarie chiedono da giorni corridoi più ampi e prevedibili. A questo s’aggiunge il braccio di ferro sui ritorni dei corpi: ogni consegna – da una parte e dall’altra – è carica di valore simbolico e pesa sull’umore delle famiglie, sulla fiducia nell’accordo, sulla politica israeliana e palestinese. Qui si gioca gran parte della credibilità del percorso.
Le mosse a Gerusalemme e al Cairo
Mentre JD Vance vede i vertici israeliani e passa al setaccio con loro la catena di comando del cessate il fuoco, i mediatori lavorano al capitolo due del piano: tempi e modalità della smilitarizzazione, struttura della forza di stabilizzazione a guida regionale, monitoraggio indipendente, prospettiva istituzionale per Gaza. Sul tavolo – al Cairo come a Gerusalemme – ci sono opzioni concrete: amnistia per chi consegna le armi, programmi di riconversione e un meccanismo con verifiche stringenti. La linea è netta: la tregua non è un punto d’arrivo, ma un ponte verso la rimozione dell’arsenale e un assetto di sicurezza sostenibile.
Hamas, pubblicamente, ribadisce adesione al quadro di cessazione delle ostilità e accusa Israele di rallentare su valichi e aiuti. Israele, a sua volta, parla di violazioni e chiede restituzioni complete e immediate. In mezzo c’è Washington, che tiene il timone: mantiene la pressione, rafforza la deterrenza con messaggi duri e, allo stesso tempo, prova a impedire l’innesco di una spirale che riporti i carri armati in profondità.
Dove passa la linea rossa
La soglia di rottura è duplice. Da un lato, nuovi attacchi attribuibili a cellule legate a Hamas o ad altre formazioni dentro la Striscia; dall’altro, mancati adempimenti sulle voci dell’accordo (dalla consegna dei resti all’avvio del disarmo). È qui che le parole di Trump assumono un valore operativo: l’annichilimento evocato non è un enunciato retorico, è la minaccia di un’azione coordinata tra Israele e alleati regionali. Voi vi chiedete: quanto è reale questa eventualità? La risposta sta nella tenuta del prossimo pacchetto di misure – accessi umanitari, cronoprogramma del disarmo, composizione della forza di stabilizzazione – e nella velocità con cui le parti dimostrano buona fede.
C’è infine il capitolo della comunicazione. Le parole contano, soprattutto quando volano dai podi o dai social. Il richiamo a una “fine rapida e brutale” è stato ripetuto come deterrenza, ma la Casa Bianca ha lasciato traccia altrettanto chiara su due paletti: no a truppe americane in Gaza, sì a un coinvolgimento regionale in caso di rottura della tregua. Tra la minaccia e l’azione c’è spazio per la diplomazia, ed è quello che – nelle prossime ore e nei prossimi giorni – misurerà l’efficacia del deterrente.
Cosa guardare nelle prossime ore
Primo: segnali sul valico di Rafah. Un’apertura stabile cambierebbe il ritmo degli aiuti e faciliterebbe anche il recupero dei resti ancora da identificare. Secondo: Cairo. Se i mediatori riusciranno a fissare tempi e modalità del disarmo senza ultimatum irrealistici, il tavolo si rafforzerà. Terzo: Gerusalemme. Le scelte del governo israeliano in materia di regole d’ingaggio lungo la linea di ripiegamento e di gestione degli scontri locali diranno se la tregua resta un ponte o diventa di nuovo un burrone.
Ultimo punto, il più delicato: Hamas. Se manterrà le promesse, consegnerà informazioni verificabili sui resti, frenerà le frange armate, allora il percorso verso la smilitarizzazione non sembrerà un miraggio. Se invece prevarrà il calcolo di breve periodo, il bivio descritto da Trump smetterà di essere un’immagine e diventerà una scelta obbligata per gli attori in campo. Noi continueremo a raccontarvelo, senza perdere di vista le persone intrappolate tra decisioni politiche e bisogni elementari: cibo, cure, sicurezza.
